Viaggio a Surlej, 1881-2000, agosto

di Giovanni Fassin

Eppure Nietzsche deve essere passato di qui, cerco di rassicurarmi, mentre la tempesta avanza, e il passeggio da Sils Maria a Surlej è un formicaio impazzito di pedoni, ciclisti, anziani gitanti e ragazzini tedeschi che già montano la boria dei loro padri… Certo le tracce sono poche. Solo mi rassicura un libriccino che recita le magiche parole, camminata Nietzsche, in riferimento a questo sentiero, che ho deciso di percorrere oggi, a cent’anni e due giorni dalla morte di Nietzsche. Essere qui oggi, in cammino, è una testimonianza di solidarietà, di fedeltà a un insegnamento che è quanto di meno insegnabile ci sia, un insegnamento che non ha voluto essere tale, e proprio per questo è tanto più indimenticabile.

On ne peut penser et écrire qu’assis (Flaubert) – Ti tengo ormai, nichilista! Proprio lo stare seduti è il peccato contro lo spirito santo. Solo i pensieri nati camminando hanno valore”.

Perché è solo il percorso la prova della verità, e questo Nietzsche lo sapeva bene. Avrebbe potuto il pensiero più abissale essergli ispirato dalla tranquilla immagine delle montagne che aveva dalla sua cameretta di Sils? No, solo un uomo in marcia avrebbe trovato la verità, quando la quieta contemplazione del flâneur fosse stata pervertita, dalla furia degli elementi, dalla debolezza e dalla fatica, nella terrificante immagine cosmica che risolveva d’un tratto, senza risolvere nulla, il senso d’un così affranto e solitario vagare.

 

Certo oggi di solitario non c’è nulla, proprio nulla, solo una fila ininterrotta di gente, di turisti che forse non sanno neppure che Nietzsche passò di qui, un giorno lontano, nell’agosto del 1881. Aveva provato un soggiorno estivo a Sankt Moritz, nel 1879, e forse non gli piacque. O forse nel 1881 arrivò tardi, e non c’era più posto, chissà. Ma mi piace pensare che ci fosse un altro motivo. Allora Sils erano davvero quattro case in mezzo all’altipiano, e Nietzsche, fedele all’oraziano Odi profanum vulgus et arceo, era fuggito qui dalla località turistica già troppo frequentata. Oggi, purtroppo, anche questo angolo dell’alta Engadina contiene a stento i turisti. Ma qualcosa rese, allora, anno di grazia 1881, il luogo speciale agli occhi di Nietzsche, che lo elesse a sua residenza per parecchi anni di fila. Cosa, oggi è difficile dire. Eppure i segni non mancano. La piana di Sils, così improvvisa e liberatoria e rassicurante dopo la forra umida e buia del Maloja (una trappola, immagino, la salita allora in carrozza), le grandi case coloniche, le montagne avvolte nelle nebbie di un inquieto giorno di agosto, e questo vento, così secco e senza respiro, mentre ci si volge indietro, a guardare il cammino percorso.

 

Per Nietzsche dovette essere un giorno da matti, in quei primi di agosto. Forse si era allontanato troppo, forse la sua salute era tornata a vacillare, all’improvviso. Me lo immagino da solo, esposto a un vento come questo, mentre con una mano cercava di tenere il suo cappello, e il bastone non sembrava offrire un appoggio sufficiente. Quanta debolezza, in quel momento, sotto quelle grandi cime impassibili… Sudava, ma sudava freddo. Attraversò il prato di Surlej con affanno, a quel vento senza sosta. Una piccola discesa, e fu in riva al lago. Guardava lontano, dove l’orizzonte azzurrino trascolora nel vuoto del cielo d’agosto, così silenzioso e senza spessore. Forse pensò a Lou, lontana da lui, quella Lou che gli aveva portato la speranza, presto svanita, non solo d’una allieva fedele, ma anche di un’anima gemella. Ne sospetto un piccolo intenerimento, e non solo per Lou, o per se stesso, ma come in astratto, per tutte le cose, per la vita. Forse la sensazione di aver già fatto tanto, troppo, di aver già troppo vissuto. Fu un momento di massima intensità, di gioia e di dolore, e vi si riassumevano non solo Lou o le vicende dell’ultimo anno, ma l’immagine di sogno della vita che proseguiva, innocente, prima e dopo di lui.

Si appoggiò stanco a una roccia. D’un tratto, come da di là dei cieli, la folgorazione, quella visione che mai ci raccontò, se non nel denso linguaggio poetico dello Zarathustra:

“Cupamente andavo, or non è molto, nel crepuscolo livido di morte, – cupo, duro, le labbra serrate. Non soltanto un sole mi era tramontato.

Un sentiero, in salita dispettosa tra sfasciume di pietre, maligno, solitario, cui non si addicevano più né erbe, né cespugli: un sentiero di montagna digrignava sotto il dispetto del mio piede. [..]

Verso l’alto: – a dispetto dello spirito che lo traeva in basso, in basso verso abissi, lo spirito di gravità, il mio demonio e nemico capitale.

Verso l’alto: – sebbene fosse seduto su di me, metà nano; metà talpa; storpio, storpiante; gocciante piombo nel cavo del mio orecchio, pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello.”

 

Chissà, forse Nietzsche non apparirebbe molto diverso dai gitanti che oggi affollano la passeggiata, allora probabilmente solitaria e silenziosa, e adatta assai più di ora al pensiero abissale. Forse lo si riconoscerebbe per lo sguardo scuro, rabbuiato anche al cospetto del sole d’agosto. O forse per il passo incerto e la dura volontà di andare avanti, stretto nel mantello. Ma quel che è certo è che oggi, non meno di ieri, passerebbe assolutamente inosservato, a chi non lo cerchi nella folla, a chi non interroghi ogni volta la folla in cerca di un segno, di un compagno, di uno sguardo che non sia già spento, lo sguardo avido e crudele di chi cerca ancora. Perché il signor Nietzsche, nonostante la sua rispettabile carriera di professore di filologia (un’arte quanto mai inoffensiva, se ogni tanto non si rivoltasse genealogicamente contro se stessa), nonostante la sua linda casetta di Sils, affogata nella foresta ai piedi d’un dirupo, nonostante la sua gentilezza e socievolezza, quali pensieri mai portava con sé, pensieri pericolosi, pensieri d’un altro mondo e d’un altro tempo!

E fu proprio quel giorno d’agosto che lo seppe, che ne ebbe la certezza. Sì, Nietzsche quel giorno ebbe paura. Paura di ciò che aveva pensato e del fatto di averlo pensato, di averlo potuto pensare. Nietzsche-Zarathustra ebbe quel giorno la certezza, una certezza che nulla ha a che fare con quelle dei mortali, una certezza che poteva nascere solo qui, “seimila piedi al di sopra del mare e molto più in alto di tutte le cose umane”. Sussurrò delle parole tra sé, con terrore.

“«O Zarathustra, [..] tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve – cadere!

O Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, – ma ogni pietra scagliata deve cadere! [..]

Salivo – salivo – sognavo – pensavo: ma tutto mi opprimeva. Ero come un malato: stremato dal suo tormento atroce, sta per dormire, ma un sogno, più atroce ancora, lo ridesta. –”

 

Sono qui, nel prato di Surlej, e mi aggiro, senza riuscire a capire quale sia la famosa roccia a forma di piramide presso cui Nietzsche ebbe la sua visione. Sotto un grande masso ci sono dei cartelli colorati, ma il loro senso, sinceramente, mi sfugge: “place of aggression”, “Ort der Traum”, “lugar de l’illusion”, recitano, e non so cosa dovrei pensarne. Se è opera d’un artista più o meno convinto di scuotere il tranquillo procedere dell’anziano escursionista con sua moglie, o la ferrea volontà di completare il percorso nel minor tempo possibile dei due giovani ciclisti, be’, costui sappia che si sbaglia di grosso. La vita continua, ostinata, sui suoi binari, senza scossoni. Chi è abituato a camminare cammina, chi è abituato a correre corre. Nessuno dei due sa cosa farsene né del masso dell’eterno ritorno, né delle follie dell’artista, che al massimo sono, in questo passeggio turistico, delle simpatiche curiosità, da guardare brevemente, scuotendo la testa, in preda al proprio sano buon senso.

La decisione di tornare, dopo un inutile girovagare, è dettata principalmente da una breve pioggia, che però, rinforzata dall’insistente vento, dà l’impressione che la tempesta sia imminente. Non rinuncio tuttavia alla mia ricerca. Ed ecco, forse… Dove il prato si perde nel bosco, e il sentiero scende al lago, c’è un grande masso dalla forma vagamente piramidale, dove forse, un tempo, il più solitario degli uomini potrebbe aver perso, per un attimo brevissimo e infinito, il senso del suo vagare nel tempo e nello spazio, ed aver trovato il filo di un differente labirinto, di una domanda più profonda e sconvolgente.

“Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? [..]

E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta?

– e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?». –

Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi.”

Ma dietro il masso, su una spiaggetta, dei surfisti infreddoliti accendono un fuoco e motteggiano tra loro in un chiassoso tedesco. Il fuoco scoppietta, e il profumo di costolette di maiale inonda di dolorosa banalità il masso a forma di piramide. Il più solitario degli uomini continuerà a restare tale.

 

Più tardi, a Sils, nella casa che ospitò Nietzsche – ed ora è quasi un magazzino, che accosta senza ritegno i meravigliosi biglietti della follia (tra cui il celeberrimo a Overbeck del gennaio 1889 firmato Dyonisos) a brutti busti e altra chincaglieria artistica che appesantisce le piccole salette in legno –, una breve consultazione di qualche fotografia d’epoca permette di ricostruire che il masso è proprio quello presso cui i surfisti banchettavano. Ma che importa, ormai. È sfumato il sogno di appollaiarmi sul masso, con lo sguardo bieco e sinistro da principe Vogelfrei, e recitare, urlando, con voce ieratica, La visione e l’enigma. L’unico enigma rimasto è forse davvero quello di riuscire a capire quale sia il masso dove tutto avvenne, quel giorno di agosto di tanti anni fa. Non è nemmeno un buon anniversario, questo, per il povero signor Nietzsche, che cent’anni fa e due giorni morì in camicia di forza, accudito anche troppo amorevolmente dalla sorella Elisabeth Giuda Nietzsche-Förster. L’unica stanza in cui non si può entrare è la bellissima stanza, piccola e raccolta, in cui Nietzsche lavorava, dormiva, sognava, e contemplava dalla finestra le montagne, proprio la stanza in cui, immagino, scrisse, dettando con voce tenebrosa, tremante, sconvolto dalla febbre e dal terrore, la sua grande visione.

Mentre fuori piove, e sto tornando verso casa, guardo indietro. Ma non guardo più Sils, o il lago di Silvaplana. Guardo le montagne, quelle montagne, che, lì da molto prima di me o di Nietzsche, ne custodiranno il bisbiglìo in riva al lago, appoggiato al masso. E lo costudiranno, proprio come Nietzsche avrebbe voluto, come un enigma. Mi accompagna una vecchia canzone di Santana, che ha una nostalgia intrappolata al fondo, una nostalgia latina e danzante che forse non sarebbe dispiaciuta al vecchio professore di filologia.

“Ho udito ieri – lo credereste? – per la ventesima volta il capolavoro di Bizet. [..] Si è mai notato che la musica rende libero lo spirito? mette ali al pensiero? e che si diventa tanto più filosofi quanto più si diventa musicisti? [..] – E a mia insaputa mi cadono addosso risposte, una piccola grandine di ghiaccio e di saggezza, di problemi risolti… Dove sono io? – Bizet mi rende fecondo. Ogni cosa buona mi rende fecondo. Io non ho alcun’altra gratitudine, non ho neppure alcun’altra prova per ciò che è buono.”

Buon anniversario, signor Nietzsche, nonostante tutto. L’importante, ora capisco, non era neanche essere qui oggi. Le fedeltà non si misurano a metri di altitudine o a copie ingiallite dello Zarathustra. Anche lontano da qui, anche dopo anni, la roccia di Surlej continua a spezzare, improvvisa, il cielo azzurro profondo dell’alta Engadina. Se non altro, nell’immaginazione, nell’intuito a colpo sicuro, nel sogno. Ma questo è tutto ciò che conta, alla fine.

 

 

27 agosto 2000, Sils Maria

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3 Commenti

  1. Bellissimo pezzo. Sono stata a Sils Maria in pieno inverno, non ho visto la casa di Nietzsche ma ho camminato per ore lungo il lago ghiacciato, all’apparenza soltanto una gigantesca distesa di neve. È un posto che mi ha molto colpita, così come mi colpì il film Sils Maria di Assayas, che non è piaciuto a nessuno; era un film che per quanto possibile recuperava, sebbene in maniera parziale, la traccia dell’eterno ritorno; ne avevo anche scritto una recensione, pubblicata in un blog che nel frattempo ha chiuso – ma in fondo nulla si distrugge…

  2. Una cosa intensa, quasi atemporale da rendere vicinissimo Nietzsche e il ‘suo’ luogo. In qualche modo qualcosa dei paesaggi di ‘Una stagione all’inferno’. Molto, molto bravo Fassin.

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