GLI SCRITTORI PREPOSTUMI
di Giacomo Sartori
(Questo testo fa parte di un dossier curato dal Cartello (Forlani, Inglese, Schillaci e il sottoscritto) uscito nella rivista francese “La Revue Littéraire” e ora nel numero 68 di “Nuova Prosa” col titolo Esercizi di sopravvivenza dello scrittore italiano.)
Il mio quinto romanzo, l’ultimo venuto, è stato rifiutato da tutti gli editori, come del resto i precedenti. E non parliamo delle raccolte di racconti, che sarebbero la mia vera passione. Se scrivessi in una qualsiasi altra lingua dovrei dedurne che non valgo molto come scrittore, ma io sono italiano e scrivo in italiano, quindi le cose si complicano. Chi conosce la storia letteraria italiana recente e non recente, sa bene che non riuscire a pubblicare può essere un ottimo indizio, se non anzi una condizione sine qua per far parte dei grandi isolati, o degli scrittori prepostumi che dir si voglia. Naturalmente questa abilità a non farsi pubblicare non basta da sola, ce ne vogliono altre, quali un lavoro che non ha nulla a che fare con la letteratura, l’allergia a ogni sorta di cricca, o anche solo ai conformistici conformismi, la lontananza fisica dai luoghi che contano, e la capacità a inimicarsi qualche importante critico, ma insomma è pur sempre il più grande asso nella manica. Molti nostri giganti non hanno pubblicato nulla nel corso della loro vita, molti altri sono stati osteggiati e umiliati, hanno pubblicato qualcosina con molta difficoltà, spesso a spese d’autore. Si potrebbe stilare una lunga lista, magari vedendo in parallelo quanti pochi sono gli scrittori osannati dalla loro epoca che sono resistiti nel tempo.
In tutte le letterature ci sono casi di capolavori rifiutati, fa parte della spicciola mitologia letteraria, però in nessuna succede che moltissimi scrittori molto validi vengano ignorati o dileggiati, in genere appunto fino alla loro morte. Lascio però la ricerca delle vere cause a qualcun altro più ferrato, e poi è sempre un po’ triste trovare delle giustificazione agli insuccessi, e anche meschino. E’ curioso comunque che una magnifica e prestigiosissima casa editrice, Adelphi, si sia distinta proprio grazie alla sua necrofilia letteraria, che le ha permesso di guadagnare stima e quattrini: prima lascia morire gli autori (contribuisce indirettamente alla loro morte?), e poi li fa propri e li pubblica in pompa magna.
Antonio Moresco, geniale contemporaneo che per un quarto di secolo ha vissuto una raminga condizione di scrittore prepostumo, prima di accedere negli ultimi tempi, ormai anziano e disilluso, a quella di ex-prepostumo, c’è anche questa sottospecie, ha pubblicato a questo proposito un bellissimo e paradigmatico libro, Lettere a nessuno, che raccoglie moltissime missive che ha scritto nell’arco di tanti anni a editori, critici e scrittori conosciuti, e che non hanno ricevuto alcuna risposta. Perché questi scrittori dei quali stiamo parlando, e quindi anch’io, passano la loro vita a scrivere patetiche o anche ridicole lettere che non ricevono mai, ma proprio mai, una risposta. E quando dico mai intendo mai, capisco che per uno straniero sia difficilmente concepibile, e anche qui si potrebbero tirare in campo delle spiegazioni storiche, sociologiche, psicologiche, che per pigrizia salto a pie pari. Del resto qualche ricaduta positiva c’è sempre: io per esempio conosco alla perfezione le tariffe postali, e anche alcuni trucchetti – siamo pur sempre in Italia- per pagare meno.
Com’è ovvio potrebbe essere vera anche l’altra ipotesi, dal punto di vista statistico anzi infinitamente più probabile, vale a dire che i miei scritti siano senza alcun interesse. Io stesso, più spesso la sera, o quando piove, o il conto in banca si tinge di rosso, o anche solo il frigo è vuoto, propendo per quest’altra possibilità. Mi dico che non sono uno scrittore prepostumo, ma uno scrittore fallito: il mio reiterato e cristallino insuccesso è esattamente quello che mi merito. La mattina dopo per fortuna mi alzo, e ricomincio la lotta per trovare un po’ di tempo per scrivere e un posto dove lavarmi le mani (faccio l’agronomo, e il mio lavoro consiste a sporcarmi di terra), indifferente a quello che blaterano le autoreferenziali pagine culturali dei giornali, dove i critici parlano dei romanzi scritti dai critici degli altri giornali, o dagli editor delle case editrici dove pubblicano essi stessi, e ai libri completamente idioti che troneggiano nelle vetrine dei librai, vera fiera della vacuità. Illudendomi magari, quando comincio a avere un po’ fame, che forse un giorno la mia facoltosa e bella editrice mi inviterà a pranzo, come succede in tanti film francesi.
Del resto non devo disperare, in coda alla lunghissima sequela di rifiuti, di solito un microeditorino salta fuori, come certe volte in novembre si trova un’isolata e ormai quasi postuma fragolina di bosco. La mancanza di riconoscimenti rende la mia natura ancora più oblomoviana, e quindi spesso è per intercessione di qualche altro sfigato (io frequento solo sfigati). Questa volta è stato il mio amico Marino Magliani, anche lui un grande scrittore che elemosina patetiche pubblicazioni e ingaggi ridicoli, ma che è molto più intraprendente di me, ha conosciuto a una fierettina letteraria di provincia i ragazzi di una piccolissima casa editrice di una piccolissima città. Gli ha mandato uno dei suoi manoscritti – lui ha i cassetti pieni, non riesce nemmeno più a chiuderli – e poi mi ha fatto mandare anche il mio. Il mio l’hanno preso, e il suo no.
La piccola casa editrice s’è rivelata una catastrofe, come tutte le precedenti, e i suoi conduttori dei pazzi scatenati, come sempre. Credo che un giorno scriverò un’enciclopedia sui piccoli editori italiani con i quali ho avuto a che fare personalmente o dei quali ho sentito parlare. Non sarà facile descrivere e cercare di decriptare modi di agire così irrazionali, così imprevedibili, così furiosamente masochistici e controproducenti, e animati da una tale vanità e incompetenza, ma la mia grande esperienza mi permetterà di venircene a capo. Anche questa volta nessuna distribuzione, nessuna recensione, nessun premio, nessun saldo dell’anticipo pattuito, e un sacco di seccature che adesso non sto a descrivere. Ma insomma il mio smalto di prepostumo, che è in fondo quello a cui tengo, è salvo.
NdR: il pezzo di Andrea Inglese del medesimo dossier è stato pubblicato qualche giorno fa su Nazione Indiana, qui;
l’immagine, che forse vuole ricordare di non prendere troppo seriamente il mio testo, che come tutte le narrazioni dice anche bugie, è un quadro, peraltro molto conosciuto, di lui:
mi sei sempre più simpatico Giacomo Sartori! oltre a essere un ottimo scrittore sei pure una persona simpatic. Per me è importante che un intellettuale mi sia simpatico. Se invece mi è antipatico di solito è perché non lo considero un ottimo scrittore. la cosa bella di questo dossier è che molti di noi sono, a vicenda, vittime e carnefici della prepostumità. Anche io invio lettere patetiche e ho spedito lettere e pacchi senza risposta, addirittura accumulo spammità letteraria in email, ma, ahmeil! sia in entrata che in uscita, eppure qualcuno giurerebbe che sono un po’ “famosa”. Dunque l’uso e l’abuso della prepostumità, motivati certamente dall’eccesso di offerta letteraria e quindi dalla nostra inevitabile mediocrità standard, per cui oggi non è più tempo di geni, come la vogliamo reimpostare? personalmente il mio atteggiamento, di solito, è quello di rispondere a tutti quelli che mi cercano essendo il più possibile onesta, dicendo cioè quello che veramente penso, in modo da incoraggiare o scoraggiare senza esaltare e senza umiliare. Mi capita di non rispondere più a persone ossessive o aggressive, che sono pure molte e molto maleducate. Quello che invece è insopportabile del nostro “ambiente” (più simile ad un grande zoo che sembra un parco safari ma è uno zoo) è l’ipocrisia che tace e non acconsente; le voci dietro le spalle; le cricche locali, amicali, le convenienze! le convenienze e i rapporti paraaccademici. ecco tutto questo, che pure esiste, eccome, anche fra gli indiani, che credevo esenti da mezzucci, mi deprime e demotiva e mi fa invocare la bontà della vita georgica di Giacomo Sartori e Fabio Orecchini, al punto di imitarla da molti anni, la vita georgica, stando in campagna e facendo l’olio!
Mi avevi colpito molto alla festa di Nazione, e devo ammettere che oggi mi hai conquistato, puramente e semplicemente. Senza contare che ti sono molto grata, perché mi hai dato uno spunto formidabile, ed estremamente consolatorio, per chiedermi se per caso anch’io non sia del novero….
Caro Sartori, le mie sventure editoriali sono uguali alle sue per cui in questo suo scritto mi sono vista riflessa. Come è successo a Dolores Prato, alla mia scrittura sarà riconosciuto il giusto valore solo dopo la mia morte, naturalmente. Quindi, per osteggiare la necrofilia letteraria ho provveduto a fare testamento, inserendo la clausola: “Eventuali proventi economici che, post mortem, derivino dalla commercializzazione della mia produzione intellettuale, devono andare alle associazioni degli indios yanomami presenti nello Stato di Roraima, in Brasile”. Quanto al romanzo appena ultimato, avendo ormai scoperto le origini del sangue che mi scorre nelle vene, ho deciso di fare un tentativo più pragmatico rispetto ai precedenti: invece di fare inutilmente il giro del mondo, stavolta andrò a cercarselo su Marte, l’editore…..