Nagi, Vita: Istruzioni per l’uso. La natura cruda e sentimentale del Cairo
Ahmed Nagi nel libro “Vita: Istruzioni per l’uso” (Il Sirente, 266 pag., 18 euro) racconta il Cairo come pochi autori egiziani hanno saputo fare negli ultimi decenni. Lo scrittore, autore tra le altre opere di “Rogers” (2010), è stato condannato a due anni, e in seguito rilasciato, per il linguaggio “osceno” dei suoi romanzi. Un testo post-moderno che sfida qualsiasi preconcetto sul Cairo, ne restituisce atmosfere surreali al limite della nouvelle vague, sulla scia di pellicole di successo, come in “The last days of the city” di Tamer el-Sayed che racconta con gli occhi di un gruppo di giovani il centro novecentesco della capitale egiziana. “Nella mia infanzia, tutti i miei amici erano affascinati dal mito di un mondo globalizzato. Ma ho cercato di superare gli stereotipi, introdurre la libertà di scelta nella nuova società globalizzata. E così, mostro la complessità della nostra modernità andando da Toni Negri ai fast food”, mi aveva spiegato Ahmed Nagi in uno dei nostri ultimi incontri in occasione di un’intervista che avevo realizzato per il quotidiano egiziano al-Ahram.
La vicenda di Bassam Bahgat, documentarista ingaggiato per raccontare i mutamenti urbanistici strutturali della capitale egiziana, è raccontata in frammenti, intervallati dalle illustrazioni di Ayman al-Zorqani. Il diario sentimentale del protagonista, che molto ha a che fare con l’esperienza quotidiana dell’autore tra la città satellite di 6 Ottobre e il centro del Cairo, descrive incantevoli donne, Paprika, Mona Mei e Rim, e le piacevoli e incantate giornate di sesso (o un’amicizia suggellata da “sangue mestruale e sperma secco”), trascorse con grande naturalezza, mentre il Cairo inesorabilmente è sottoposta ai mutamenti più radicali. “Se per gli individui maschi del Cairo la vita è un incubo, per le donne è una realtà infernale cui è impossibile sfuggire”. La città viene descritta nei suoi aspetti più crudi e fantastici: un luogo dove alcuni si sono dimenticati cosa sia un “sorriso”, un “ricettacolo d’odio, la materia prima dell’odio e della miseria”. Eppure chi ha pensato tutto questo (il Cairo) non poteva che essere un “pasticciere”.
Lo scopo del racconto è mettersi alle spalle questa disperazione, forse è anche il segreto delle rivolte del 2011, per rendere la vita “più piacevole e meno misera”. Eppure il nascosto e il non detto è sempre più forte di quello che emerge in superficie. Questo sottosuolo resta invisibile per una sorta di intesa tra “politica, religione e società civile” che impediscono che questo volto segreto della città venga a galla. L’osservatore non può fermarsi alla visione di miserabili che “attraversano strade affollate da donne ricoperte da strati di abiti e stoffe”. Ognuno deve imparare a sue spese a decifrare questi luoghi: a ottenere la propria “chiave personale”. E il Cairo è una città così variegata da tenere insieme i gruppi più disparati di persone: da fanatici religiosi a omosessuali, da giovani artisti agli scambisti di Imbaba, dai bambini di strada ai fanatici della forma fisica, dagli uomini d’affari obesi ai cantanti popolari.
L’esperienza sensoriale al Cairo è continua, totalizzante e tesa. “Quando vivi o ti muovi dentro il Cairo, vieni costantemente offeso. Sei destinato a incazzarti”. Una città dove il negoziato tra possibile e impossibile non si ferma mai. “Vedemmo interi quartieri vivere grazie alla corrente elettrica prelevata abusivamente dai lampioni della strada principale”.
Eppure il vero intento della “Società degli Urbanisti” di cui Bahgat è solo un mero esecutore è quello di distruggere definitivamente il Cairo e creare una nuova città dalla forma futurista e commerciale: progetto non lontano dagli annunci post-moderni del sanguinario presidente egiziano al-Sisi. Se fosse per Bahgat e per il suo amico Ihab Hassan il vero cambiamento che la città dovrebbe subire sarebbe la tensione verso l’eliminazione del degrado e della marginalizzazione a cui sono costretti alcuni suoi abitanti, a partire dal cambiamento del corso del Nilo e della sua forma. Ma questi aspetti solo in parte risaltano dalle pagine del libro. Ahmed Nagi continua invece a indugiare in racconti sempre sorprendenti sulla megalopoli, sui suoi abitanti e le loro abitudini amorose. “La prima volta, la feci venire succhiandola senza mai fermarmi, poi entrammo in camera da letto e facemmo l’amore con lentezza”. Ma anche di odori nauseabondi nei bar di Moqattam, come la puzza di “fegato fritto in olio da motore che si diffondeva nell’atmosfera come una nube carica di pioggia”. O di relazioni inedite che richiamano una vita parigina: “Sentii per la prima volta che questo tipo di relazione, in cui il terzo elemento è appeso a un filo che tiene legate realtà e illusione, era ciò che mi avrebbe appagato”.
Eppure questa tensione così irrazionale di una città e dei suoi abitanti avrebbe di là a poco concesso tutto ad una necessità molto più umana e pigra: quella della “sicurezza”. E se al Cairo “non poteva capitarle nulla di peggio dello stato in cui versava”, un bisogno primario in tempi precari ma anche una leva per giustificare qualsiasi cosa agli occhi del profano l’avrebbe di lì a poco trasformata di nuovo. E così l’unico riferimento vero alle proteste del 2011 appare in relazione alla campagna “No”, contro la dichiarazione costituzionale, voluta dalla giunta militare ma contestata dai giovani rivoluzionari.
Nonostante ciò, è sempre il Cairo a dettare modi e tempi del cambiamento. “Tu eri schiavo della città e prima che lei ti si concedesse, dovevi venderti l’anima con un patto firmato col sangue e col cuore”. E tra le priorità di Nagi c’è sempre il tentativo di richiamare un certo disprezzo verso gli islamisti che poi avrebbero preso solo figurativamente le redini del potere: “Scarafaggi nelle fogne del Cairo e sul loro rapporto coi sorci di New York, e sull’effetto di tale relazione sulla nascita di movimenti islamisti in Medio Oriente”.
Fino agli incontri che rendono la vita così affascinante come quello tra due pescatori, uno dei quali in bolletta proprio il giorno della nascita della sua prima figlia. “Getta l’amo e te ne verrà del bene”. Bastò questa frase per ritrovarsi in tasca 300 ghinee (circa 40 euro): perché in alcuni giorni al Cairo è possibile davvero qualsiasi cosa! Eppure il Cairo è sempre rimasta “indifferente alle vite dei suoi abitanti”. Ed è proprio questo profondo senso di solitudine ad aver forse ispirato l’autore a raccontare in modo così autentico e disilluso la sua città perché in fondo è il “dolore” sempre il più “potente motore per la scrittura”.
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[…] di Giuseppe Acconcia, “Nazione Indiana” (12 agosto 2017) […]