Essendo il dentro un fuori infinito #10
di Mariasole Ariot
Ivanhoe vestito di nero cammina nei corridoi, li percorre all’infinito da cielo a notte, ha le palpebre scure, le mani ingiallite di tabacco, gonfie, distrutte dalla terra che non ha raccolto, separato dal mondo dei vivi. Ivanhoe morto per errore nel carcere ducentoquarantasei, un numero sulla pettorina che lo ricorda alla sorella quando si ricorda di venirlo a trovare, Ivanhoe dagli occhi semichiusi, lo sguardo abbassato, le parole mangiate in fretta, la fattura del grande freddo, le braccia come serpenti.
Ci sediamo uno accanto all’altro, sulla muretta di cinta che ci sepra dagli altri. Ti sono simpatica? Passiva, risponde.
La passività qui è il dolore consumato dalle parole vuote, cieche per aver fatto a pugni con il sole, morte di paura quando sono arrivate, svuotate di senso quando devono ripartire. Ivanhoe risponde solo se interpellato con un salto, vorticando pochi gorgogli : una sigaretta di tabacco, un suono, un’intermittenza della luce – spegnila, ti prego – Ivanhoe con i nodi neri, le giunture nere, le mani nere, l’ugola nera, il ridicolo nero, il mostro nero che lo perseguita anche la notte, quando emette singoli borbottii fracassando le orecchie agli incubatori d’ossa.
I corridoi sono bui, Ivanhoe a casa ha un giardino piccolo, pochi metri quadri da cui vedere il cielo quando si chiude in sé stesso e muore di polmonite.
Ho una ferita nell’orecchio sinistro, parla le voci delle voci degli altri, mormora i fastidi, li esamina squadrandoli con il grandangolo per aprirli alla luce. Nessuno m’insegue, tutti mi inseguono, mi fatturano le orecchie, ho una sorella che non viene mai, deve portarmi le sigarette e la giacca bianca degli infermieri : non sono malato : ho una corda collegata ai feticci larvali. Mi hanno fatto una fattura, non parlo coi dottori.
A volte, negli spazi più stretti, poggio l’orecchio sul suo costato. Non sento niente, il mio battito tachicardico copre tutto, copre i movimenti tellurici, le divergenze. Allora chiedo ancora : Ivanhoe, lo sai il mio nome? Farfuglia, e farfuglia bene. Ti sono simpatica? Passiva.
Nessuno sa di cosa siamo capaci, il limite è spostato appena poco più in là della soglia di dolore che abbiamo : una chiesa al centro del petto, un crocifisso rotto negli altari, una pustola gonfia che cerca di non gonfiarsi ancora, avere un inverno cavo sotto la pelle. Ivanhoe passa e sputa. Il suo sputo ha il colore degli angioletti, non sporca, non macchia, è limpido.
Nella strettoia che separa le attese dai benvenuti, io e Ivanhoe camminiamo spalla a spalla come due reduci di guerra. Lui con la sua divisa nera, io con i miei occhi pesti, ci auguriamo la buonanotte, ma lui non risponde, mira altrove, dove il canto del gallo non è più udibile. Spieghiamo traiettorie per non darci l’addio, le tracciamo sul manto cementificato del pavimento, e sui soffitti crepati dall’uso che ne facciamo : sputarci addosso è un sacrificio, un rituale pagano come pagani siamo tutti. Le sue bestemmie mi perforano le orecchie, scendono dritte in gola per essere ripetute.
Mangio la terra e la mescolo con l’aria. A volte cammino per ore e per ore mi seggo, mi fucilo la testa con ampie pennellate : sono l’uomo che non vede e non sente, che sente anche se non ci sente, che ti vede, che ti guarda, che non guarda, che ti mira, che non mira, che spara a salve con la pistola giocattolo che avrei sempre voluto. Ho centocinquantasette anni e ne dimostro undici, cammino per la strada che mi porta alla sorella e non c’è tregua, solo questo tremare inefficace degli umori. Lo vedi questo sputo? E’ il mio ultimo rantolo di vita, ogni giorno ricresco, mi faccio sterminare e poi germino sotto la pelliccia nuova. Ho una casa nei dintorni, mia madre è morta.
Poi l’udibile diventa un muro. Secco di foglie ammuffite, legate l’una all’altra con mastice duro. Ivanhoe dura quanto può, s’infila nella calca come un reduce, un sopravvissuto dalla miseria che mastichiamo ogni giorno, all’ora di colazione, quando spalancano le finestre che hanno chiuso, quando la chiusa è una finestra : le sbarre per evitare gli impiccati. La gola si apre, lo sguardo si apre, il riso si apre, la bocca si chiude. Non parlare è questo nostro mondo che c’insegnamo per sopportare il nero.
Sgretolati come siamo parliamo la lingua degli appoggi. Il punto aperto a superficie è una condanna, una semplice andatura immobile, una convalescenza ispessita dalle circostanze. Vedere questo interno è come introdursi nei corpi umorali e farli tremare, scuoterli per poi dimenticarli. Siamo già tornati nell’incubo della chiusa, nei termini distinti che ci separano – e non separa, non nutre, non incombe, non fa testo, non muove la testa dei marginali. Ho un abito per le istanze, un affetto in miniatura per alzarmi e bilanciare le mie parti rigide : un animale battuto dai cecchini, un animale che muore, una crepa che si apre nel terreno, è la primavera degli assetati, le cicale ricominciano il loro suono, si fanno equilibriste della carne, un lampo accende il cielo. Sono pallido, non sono mai venuto al mondo, sono questo piccolo mondo di miniature tascabili, l’ostaggio della mia irriconoscenza.
Ivanhoe giudica il tempo, ci ritroviamo nella calca dorata delle rivelazioni. Siamo dolori spinali, superfici mobili, il tatto che non ci è concesso nell’intimità dei movimenti rapidi. Nel paese dei senza gambe tutto è contratto: la terra è un problema di spazio, un ammasso di organi possibili. Ci alziamo senza guardarci, abbiamo gli occhi curvi e lo sguardo fisso, ci alziamo senza parlarci, indigesti, plumbei, accerchiati dalle cose.
I commenti a questo post sono chiusi
C’è tutta la tua voce dolorosa e potente.
Bentornata!
Grazie per la lettura, carissimo Aitan. Dal luogo da cui debbo ancora tornare (del tutto)