Esplorazioni a Wadi Roja
[Una storia di frontiere e migranti.]
di Francesco Migliaccio
Alla foce del Roja ho lanciato un ramoscello nell’ultima acqua del fiume. Davanti a me i bagnanti s’apprestavano a lasciare la spiaggia, qualcuno approfittava di un’ultima doccia – presto l’oscurità sarebbe calata su Ventimiglia. Solo la tenda blu di due ragazzi neri rimaneva eretta fra i ciottoli. Ero nel punto estremo dove il torrente diventa mare. Il frammento leggero era trascinato dalla corrente sino alla linea mobile delle onde. Qui iniziava un’oscillazione indecisa, una turbolenza lungo la frontiera vaga della foce. Il ramo s’infrangeva contro un’onda, poi contro un’altra, ma poco a poco si spostava verso destra alla ricerca di una via di fuga. Infine è passato e s’è perso nel mare aperto.
Le navi scivolavano verso occidente: oltre il porto di Ventimiglia, verso i Balzi Rossi. Là, di fronte agli scogli, un anno fa c’era l’accampamento dei viandanti africani. Ora le auto sono parcheggiate in fila nello spiazzo, gli ospiti di un albergo camminano rilassati e una camionetta dei carabinieri presidia l’area. Poco oltre c’è la frontiera bassa, porta d’accesso a Mentone. Dal lato della marina soldati dell’esercito italiano e agenti di polizia scrutano le vetture; un posto di blocco della police francese governa i passaggi dalla parte della montagna. Era un pomeriggio d’agosto, sono passato in bici avanti e indietro, avanti e indietro ancora. Nessuno mi ha fermato: forse il mio volto rassicura i controllori.
A Ponte San Luigi, la frontiera alta sopra i Balzi Rossi, le forze dell’ordine francesi si affacciano raramente fuori dalla stazione di polizia frontaliera e le auto passano senza controlli. Sul lato italiano alcuni militari si dondolano sui talloni, annoiati. Un giorno un alpino imbracciava il fucile, ma dava le spalle alla strada. Da lassù si vede il mare blu screziato dai raggi solari, gli yacht si muovono placidi senza impedimenti ed è difficile immaginare una linea su un mondo di acque correnti. Una ripida strada in discesa mi ha riportato al porto di Ventimiglia, là dove sfocia il Roja.
Il punto di partenza della mia esplorazione è la foce del Roja, il Roja disegna la mia rotta. D’agosto un esile ruscello gremito di cefali enormi si tuffa a mare. Accanto il greto è bianco e asciutto. Ogni mattina alcuni uomini neri in pettorina fluorescente si aggirano fra i ciottoli fluviali e raccolgono le immondizie. Uno di loro mi ha augurato la buona giornata mentre portava i sacchi alla spazzatura vicina. Ricevono un salario? Da quale ente? Questo non so. Sotto alcune piante sono distesi cartoni dove dormono alcuni migranti. Gli uomini in pettorina passano accanto rispettosi.
Poco più in alto si distende un ponte esile, la passerella Squarciafichi. Sotto c’è un fico, attorno crescono piante ornamentali, rose, qualcuno ha coltivato un tratto di orto. Sono sceso sotto alla passerella Squarciafichi, due uomini stavano dormendo in un cantuccio, un vecchio ligure con un cestino raccoglieva i fichi maturi. Poco oltre ho trovato una cartina del Mediterraneo, una piccola pietra levigata era poggiata sopra. La mappa figurava un brandello di Tunisia, il mar di Sicilia, Agrigento, poi la Sardegna e la Corsica, la costa toscana con l’isola d’Elba. A nord la carta era strappata: mancavano Liguria e Francia.
Oltre la passerella inizia un sentiero ai margini del greto. Durante il percorso mi sentivo quasi un fantasma, invisibile agli uomini in costume che camminavano poco sopra, sulla strada principale. Mi sono chinato su una piccola pianta di pomodoro piegata dal peso di un frutto ancora verde, forse era la rimanenza di orti effimeri curati tempo fa. Poi mi ha avvolto un boschetto di canne, cespugli aggrovigliati e rovi carichi di more acerbe; fra le sterpaglie rigogliose è passato un topo di fogna. A lato erano ammassate confezioni lacere di cibi e bevande, valigie vuote abbandonate.
Più avanti i ponti sorretti da piloni di cemento soffocano l’aria di mare e di vacanze. In alto i treni sferragliano fra Italia e Francia, le auto imboccano lo snodo della strada del Tenda o la via per lo svincolo autostradale. In questo sottomondo ho trovato vuote boccette di shampoo monouso. Cartoni di vino e bottiglie di birra in frantumi. Due microchip erano spersi fra le pietre e un dentifricio prometteva un “effetto sbiancante”. Qui il greto del Roja è un archivio di resti di vita sparsi alla rinfusa. Sotto il cavalcavia nacque un campo informale di migranti – è stato sgomberato alla fine di questo luglio. Ho raccolto un cartoncino con la croce e la mezza luna rosse. C’erano gli indirizzi del “Family link service of the Red Cross available everywhere in Europe”; le scritte sull’altro verso erano in inglese, arabo, francese, amarico. Ho trovato decine di rasoi dalle impugnature verde acqua. Ogni lametta era stata divelta.
Sotto i ponti gli uomini vivacchiano ancora. Nel bar di via Tenda un africano ha pagato un caffè da portare via. Con il bicchiere di plastica coperto è sceso sotto il cavalcavia, un amico lo stava aspettando accanto a un fico spontaneo. Poco oltre si trova la chiesa di Sant’Antonio da Padova dove sono state ospitate centinaia di donne e uomini in pochi mesi. Nel cortile ho incontrato tre ragazzi accomodati su una panchina, all’ingresso era esposta un’ordinanza del sindaco che impedisce ai cittadini senza autorizzazione formale di offrire cibo ai migranti. In chiesa un prete nero officiava la messa. Parlava in inglese ed era affiancato da un traduttore arabo. Ho contato una ventina di fedeli, tutti provenivano dall’altra parte del mare. Il prete ha ricordato le peregrinazioni di Abramo, «lui era solo, ma non era davvero solo perché con lui v’era Dio e lui aveva fiducia in Dio». Così anche i viaggiatori nel deserto di oggi non sono soli: «Voi avete Dio e di lui vi dovete fidare; e avete anche gli assistenti, e di loro vi dovete fidare». Alcuni giovani italiani sedevano accanto ai migranti, ho notato il volto radioso di un’attivista cattolica: emanava la luce di chi ha esaurito i dubbi.
Sono tornato al Roja, sotto al cavalcavia vicino alla chiesa riposavano due clochard. Chissà – ho sussurrato – chissà se si sono intessute relazioni fra gli uomini quaggiù, e cosa mai si saranno detti, e in quale lingua, e chissà se sono nati conflitti o fratellanze in quest’ombra perenne che avvolge vite di marginali in transito. Sulla riva d’asfalto sorge un parcheggio, oltre s’innalza un centro commerciale di domenica aperto, poi un campo da calcio in cemento e il bocciodromo “Sandro Pertini”. Sulla strada d’asfalto piccole case con giardino si ripetono con cadenza regolare. Ho proseguito la camminata lungo il fiume asciugato dal sole. Rivoli d’acqua scorrono rossastri e algosi, fra i sassi crescono inule dai fiori gialli. Ai lati del greto sono sorti boschetti di salici purpurei, piante dalle foglie allungate che sopravvivono anche se le radici sono immerse in acqua. Da qualche parte ho sentito note di musica hip hop e voci uscire da un saliceto, ombre muoversi fra gli alberi. Il fiume è ancora abitato da comunità nascoste. Due uomini italiani camminavano nella mia direzione e si guardavano intorno.
Da lontano vedevo uomini nerissimi lavarsi i capelli, fare il bucato nel Roja. Come miraggi gli abitanti del fiume scomparivano non appena mi facevo un poco più accosto. Il greto mi sembrava un deserto accecante, gli occhi erano affaticati dai riverberi del sole sui ciottoli bianchi. Il letto è ampio cento, forse duecento metri; ogni ponte si regge su quattro piloni di cemento. Contro i piloni si ammassano i resti di bosco e altri detriti che le piene trascinano via. Sono cumuli di macerie alti fino a quattro metri. Durante le stagioni piovose il Roja è così ampio e profondo che l’arido paesaggio imbiancato s’eclissa in sommersione. «La vita sul greto è temporanea: un fenomeno estivo», ho suggerito al mio compagno di viaggio. Ho pensato che nessuna carta geografica può descrivere la rivelazione e la scomparsa di questo deserto bazzicato da uomini di passaggio. Alcune capre pascolavano fra le erbacce, godevano dell’ombra disegnata dal cavalcavia. Il pastore era altrove.
Alla mia sinistra s’intravedeva il vecchio scalo merci di Ventimiglia, abbandonato in dismissione. Ho notato una costruzione cadente, lunga e bassa: i migranti sostavano alla sua ombra seduti vicino a una misteriosa statua di Spiderman alta due metri almeno. Una camionetta dei carabinieri procedeva lenta verso il campo della Croce Rossa. Il campo si trova a monte, alle estreme propaggini dello scalo. Oltre le grate ho visto i gazebo chiari, le bandiere con la croce su fondo bianco, i container che ospitano i viandanti. I posti di accoglienza non erano sufficienti e molte brandine erano state disposte sotto i piloni di un cavalcavia. Fra i lettini gli uomini avevano steso i tappeti della preghiera. Alcuni giocavano a calcetto, altri si passavano un pallone fra le jeep parcheggiate. Fino ad inizio agosto c’era un accampamento informale qui vicino, poi è stato sgomberato. La cancellata intorno al campo è distrutta in vari punti così che i migranti possano uscire ed entrare.
Lungo i binari del vecchio scalo crescono arbusti coriacei, l’area è vasta e i vagoni francesi e italiani in disuso sono misure del vuoto. Il compagno di viaggio ha detto: «Qualcuno un giorno ha deciso che le merci fra Italia e Francia non dovevano più passare da qui, ma da un’altra linea più a nord – forse la Torino-Lione». Ho perlustrato il perimetro dello scalo a piedi e in bici, eppure mai ho individuato l’ingresso. Ho trovato quattordici file di serre abbandonate e soffocate da fichi cresciuti in libertà, un ristorante chiuso da anni, lo scheletro di un edificio di tre piani, un orto di zucchine e peperoni, alberi di limoni e una bandiera pirata che sventolava. Il brusio costiero poco distante è risucchiato in un silenzio senza anime. Il Ministero ha scelto di allestire il campo di accoglienza in una terra dimenticata dagli uomini: qui i migranti sono stipati nel ripostiglio oscuro e vago della coscienza urbana.
Oltre lo scalo, l’acqua ha disegnato il letto del Bevera, un affluente del Roja. Il fiume è così asciutto che una strada sterrata attraversa il suo grembo. Lungo il Bevera sorge la frazione di Torri e da lì parte un sentiero che conduce in Francia. Il torrente scorre in direzione ovest-est e scava una valle dai due volti: il versante esposto a nord è oscuro di querce e castagni, un posto da funghi; sul lato aprico resistono olivi obliati e terrazzamenti in sgretolamento. Lungo il sentiero – appena visibile, scancellato dalle sterpaglie – le rovine di un villaggio testimoniano della civiltà dell’ulivo disertata un secolo fa. Poi il Bevera diviene francese e donna – la Bévéra – e sale su, su fino a Sospello, Sospel borgo di frontiera. Il torrente s’insinua in una cittadina dove i muri scrostati sono rughe che non temono di mostrarsi. La gare di Sospel era deserta e avvolta dal frinire delle cicale.
E io ho proseguito lungo il Roja in un giorno soffocante d’afa. Intorno al greto sorgevano altri capannoni, orti con le zucchine rampicanti, poi una strana villa con immenso garage e un cortile adiacente che ospitava due container. A est una strada s’inerpica sulle montagne che separano la valle del Roja dalla val Nervia. A metà strada si raggrumano le case antiche di Verrandi, frazione di Ventimiglia. Nella piazza vicino alla chiesa ho incontrato due anziani seduti a confabulare. L’uomo ha alzato lo sguardo e mi ha dato il benvenuto: «Se cerchi la fortuna hai sbagliato strada». Tre donne dai capelli nerissimi sono apparse alla svolta d’un caruggio e mi hanno infilzato con un’occhiata.
Ora so che su quelle montagne, fra ulivi sospesi a picco sul mare, hanno trovato rifugio gli attivisti italiani e francesi, i migranti africani. Il dispiegamento delle forze dell’ordine, i fogli di via e la minaccia dei trasferimenti hanno allontanato dal tratto costiero l’attività politica antagonista. In tempi di tensione e di paura nulla deve turbare il brandello di frontiera illuminato dai riflettori dell’informazione, calcato dai turisti. Sotto il verde d’argento delle piante – le terre qui appartengono a proprietari olandesi – un attivista francese ha dispiegato una cartina della Liguria e una della Francia savoiarda. Intorno a lui si stringevano in cerchio i viandanti. Parlava un inglese con sfumature d’arabo, l’indice sicuro mostrava i sentieri praticabili del lato italiano. «A wadi Roja potete passare da qui, o anche da quassù». Wadi Roja, la valle del Roja. In arabo wadi è “valle”, in particolare significa la nuda depressione fluviale nelle stagioni di secca. E wadi Roja potrebbe essere anche wadi Roya, o wadi Roia – dipende se il fiume è nominato con cadenza occitana, italiana, o francese. Nostro è il tempo dove la lingua – come i popoli e l’acqua – fluisce in mescolamento.
«Quando passerete il confine non saranno finiti i problemi, perché la frontiera è ovunque». I migranti possono essere arrestati in ogni stazione o crocevia francese, poi trasferiti in Italia con procedure d’eccezione. La guida sapeva che la frontiera è un dispositivo diffuso, discontinuo e fluido – e non una linea, né una barriera infrangibile. Ha mostrato sulla cartina di Francia le strade più controllate, i posti di blocco, i passaggi sicuri. Ho ascoltato il discorso dell’antagonista d’oltreconfine, passeur politico che ha tradito la patria fra il frinire delle cicale. Ne ero affascinato: le sue parole suonavano come un sovvertimento della storia coloniale e statuale della Francia. Ora non so dove siano i ragazzi che fissavano le mappe all’ombra degli ulivi, ma auguro loro d’essere al di là.
Dopo il paese di Trucco la valle del Roja si stringe all’improvviso: la strada d’asfalto s’addentra nelle gallerie, il greto diviene impraticabile. Oltre l’ultimo tunnel mi è apparso un paesaggio inatteso: boschi in un’aria di montagna e il torrente cristallino laggiù. La strada si diparte e un suo braccio abbandona il corso d’acqua e prosegue verso San Michele e Olivetta. Alla stazione di Olivetta San Michele ero solo sulla banchina, la sala d’aspetto s’apriva buia e silenziosa. Un brusio giungeva dal bar di fronte senza disturbare la signora seduta nel giardino che s’affaccia sulle rotaie. Leggeva una rivista e aveva un cappellino arancione, ai suoi piedi riposavano un cane e un innaffiatoio. Qui due volte al giorno s’arresta un treno che entra in Francia, ferma a Breil-sur-Roya, a Tende, e poi prosegue sino a Cuneo.
La strada per Olivetta è una salita a curve strette, i rovi che invadono il bosco si sporgono minacciosi dal ciglio. Una croce occitana mi ha dato il benvenuto a Olivetta, Auriveta. I cartelli “Vendesi” tracciavano costellazioni sulle facciate slavate color rosa salmone, in basso alcuni dipinti celebravano l’unico alimentari del paese. Una musica pop usciva da una finestra in alto. Viandanti francesi vestiti di lino si guardavano intorno, alcuni tedeschi si salutavano nel vicolo come fanno i vicini di casa oltre l’uscio. La donna del negozio discuteva con due turisti, il suo francese s’articolava a stento. Ho comprato dell’acqua e anche l’italiano sortiva da lei come parlata estranea. Forse gli abitanti di Olivetta parlano una lingua che sfugge alle regole standard delle grammatiche nazionali. Nella piazza del paese un giovane uomo mi ha apostrofato in francese. «Ah, voi non siete francese? Perdonatemi, mi sembrava». Ci siamo intrattenuti a disputare sulla strada da prendere, poco a poco il “voi” che mi attribuiva s’è tramutato in “lei”. M’è sembrato che il giovane entrasse nell’italiano lentamente, sfumando pianissimo il francese.
Sopra Olivetta la strada monta a perdifiato, dalle case isolate i cartelli annunciano: “À vendre”, poi il simbolo dell’Unione Europea segna il confine. Sotto il sole solo un ciclista arrancava con il fiatone. Il casolare della dogana era di un’ocra scaldato dal mezzogiorno, coperto di graffiti e disegni: uno scoiattolo stupefatto apriva la bocca sino a sganasciarsi. Oltre il vetro ho visto una scrivania polverosa e cavi elettrici pendenti dai muri, le sedie erano impilate e in fondo appariva un divano-letto sdrucito. Lungo la discesa che sferzava il volto la campagna francese mostrava un abbandono addomesticato: i rovi erano tagliati due metri oltre il ciglio della strada e ogni terrain vague era recintato da un nastro. Generale ossessione di tenere sotto controllo cosciente la sbriciolatura del paesaggio, il franare dei terrazzamenti.
Prima del bivio di San Michele, il letto del Roja si spinge più a nord e incontra Airole, villaggio sospeso in equilibrio nel vento largo. Ho osservato il colle che sovrasta il paese: l’uliveto era pulcioso e spelacchiato, i boschi intorno apparivano rigogliosi come una giungla impenetrabile. Dalla facciata della chiesa e fra le vie mi sono apparsi angeli dalle ali dispiegate. Se il viandante si lascia alle spalle la chiesa dell’angelo e imbocca il sentiero che dà a ovest, in un’ora raggiunge Fanghetto ultimo avamposto italiano. La via è pulita e sovrasta il torrente per un lungo tratto, poi disegna un’ansa che segue l’andamento del colle. Sotto la prima abitazione diruta di Fanghetto un cartello mi avvertiva che l’area è “sottoposta a videosorveglianza per ragioni di sicurezza”. I muri scrostati e le terrazze cadenti fronteggiano le poche ville per ricchi possidenti. Ho sfiorato i fiori gialli in vaso e un rosmarino sotto i cartelli di vendita; nella piazza centrale un fico dai frutti bianchi mi ha nutrito. Da Fanghetto un sentiero sale su verso le montagne d’oltreconfine, un altro discende e porta alla strada statale 20, accesso principale alla Francia.
Il portone e le finestre della vecchia caserma doganiera sono murati, ma qualcuno ha sfondato le barriere per trovare riparo all’interno. Al mio fianco le auto sfrecciavano senza rallentare. Anche il casolare della dogana francese è in abbandono, sebbene conservi ancora un color rosa di pesca. Ho letto in alto: “Freedom, Liberté, Libertà, Hurrya”. L’ingresso è stato sigillato, dalla finestra ho osservato l’ufficio d’un tempo: al muro era appesa una mappa della Francia, carte e fascicoli sulla scrivania attendevano un funzionario che non è mai giunto. Una scritta sulla facciata ci avvertiva che “All cops are borders”. Nel cortile un lentisco e un fico facevano ombra a un materasso dall’odor di putrefazione. Oltre la Roya ho osservato le terrazze in disfacimento, quasi un’ossessione dei miei occhi. Ho raccattato alcuni cartelli ammassati in un angolo del cortile, erano i resti di una manifestazione. Uno recitava: “Police partout, justice nulle part”. Qui in wadi Roya la polizia non è dappertutto, ho pensato. Della giustizia, invece, non so dire.
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Foto 1: il greto del Roja a Ventimiglia negli anni Trenta.
Foto 2 : ritrae il punto in cui la Bevera entra nel Roja, vicino al luogo dove hanno innalzato il campo della croce rossa.
Le foto sono tratte dal blog di Adriano Maini. http://mainiadriano.blogspot.it/
Mi sono fermata una domenica a Ventimiglia. E ho sentito vergogna per il mio passe. Cielo blu credo. Ragazzi nel parco errano. Il tempo è lungo come il mare. Bevono al rubinetto aperto della fontana. La frontiera è li sotto il cielo blu.
La stazione è chiusa. Senza documenti, non si puo salire nel treno per Menton, Nice, Grasse.
Era una domenica di protesta. Tornavo in Francia, nella mio paese letterario , il paese delle scritture senza frontiera.
Tante parole bellissime erano senza potere.
Il giorno prima un migrante si era buttato nel mare, nella speranza di raggiungere la Francia.
Paese. Ho un portable che mi mette parole in francese direttamente.
Complimenti per il testo. Si legge una mappa dell’abbandono.
[…] come me e come voi, residenti in chissà in quale città della Francia o di altrove. Il pezzo, bellissimo, lo ha scritto Francesco Migliaccio e inizia […]