Callimaco – Inno ad Apollo

trad. isometra di Daniele Ventre

Come si è smosso agitandosi, il ramo di lauro di Apollo:
come l’intera dimora: lontano, lontano il malvagio!
Sì, con il piede gentile è il Radioso a urtare i battenti:
o non lo vedi? La palma di Delo ha oscillato soave
all’improvviso e nell’aria il cigno solleva il bel canto.
Ora girate da soli, chiavarde di questi portali
e chiavistelli, da soli: oh, non più remoto è quel dio.
Dunque tenetevi pronti, voi giovani, al canto e alla danza.
No, non a tutti si mostra Apollo, ma solo a chi è degno.
Chi lo vedrà, sarà grande: è misero chi non l’ha visto:
noi ti vedremo, te, arciere, e miseri no, non saremo.
Quando il Radioso soggiorna fra noi, non terranno la cetra
mai silenziosa, i ragazzi, e mai muto di ritmo il passo,
se le dovranno compire le nozze e sfiorare canizie
e rimanersene in piedi alle antiche basi le mura.
Io li ho lodati, i ragazzi, poiché non è ignava la lira.
Mute le bocche, ascoltatelo il canto in onore di Apollo.
Muto rimane anche il mare, ove diano lustro i cantori
tanto alla cetra che all’arco, due armi al Licòreo Radioso.
Tetide stessa su Achille non geme, lei, madre nel lutto,
tutte le volte che “Iè, Peana! iè peana!” risente;
la lacrimevole pietra, lei stessa ha respiro da angosce,
l’umida roccia che là se ne resta piantata, in Frigia,
marmo che un tempo fu donna e al dolore schiuse le labbra.
“Iè! Iè!” gridate. È sciagura contendere con i beati:
chi coi beati combatte, costui col mio sire combatta,
chi col mio sire combatte, costui con Apollo combatta.
Lo stesso Apollo quel coro che al dio canterà grato al cuore,
lo pregerà: sì, lui può, poiché siede a destra di Zeus:
pure al Radioso quel coro, oh non canterà solo un giorno:
facile è agli inni: con gioia chi non canterebbe il Radioso?
Aureo l’ha il suo mantello, Apollo, e non meno il fermaglio,
e la sua lira e il suo arco di Litto e così la faretra:
aurei calzari egli porta: è splendido d’oro, sì, Apollo,
splendido per le ricchezze: ne trai argomento da Pito.
Bello è per sempre e per sempre è giovane: mai sulle lisce
guance al Radioso spuntò lanugine, mai, non un’ombra.
I suoi capelli giù al suolo profondono gocce odorose:
no, non le chiome di Apollo rilasciano stille di grasso,
ma panacea vera e propria: in città, là dove giù a terra
cadono tali rugiade, è immune ai contagi ogni luogo.
Tanto versatile d’arti nessuno ce n’è come Apollo:
sul frecciatore guerriero lui domina, lui sul cantore
(sì, poiché solo al Radioso si affidano l’arco e il cantare)
sue sono poi profetesse e indovine: è grazie al Radioso
che i guaritori si ingegnano a procrastinare la morte.
Anche Pastore chiamiamo il Radioso, sin da quel tempo
quando cavalle da tiro allevava lungo l’Anfrisso,
tanto alla fiamma d’amore bruciò per il giovane Admeto.
Pieno sarà facilmente il pascolo, non rimarranno
prive di nati le capre, le femmine, che pascolando
cadono sotto lo sguardo di Apollo e non prive di latte,
no, né infeconde saranno le pecore, agnelli per tutte.
Quella che ha un unico nato avrà molto presto il secondo.
Gli uomini con il Radioso movendosi tracciano il cerchio
delle città: di città fondate il Radioso da sempre
è compiaciuto: in persona ne tesse il Radioso le basi.
Già di quattr’anni il Radioso fondò da principio le basi
dentro la fulgida Ortigia vicino al padule che è intorno.
Nella sua caccia instancabile Artemide aveva portato
crani di capre del Cinto e Apollo ne fece un altare:
ne costruì con le corna le sedi e di corna quell’ara
la rinsaldò, con le corna anche eresse a cingerla un muro:
Sì, così apprese il Radioso a porre in principio le basi.
La mostrò a Batto la mia città, suolo opimo, il Radioso,
quando la gente raggiunse la Libia, era un corvo alla destra
del fondatore a guidarla, giurò di concedere mura
ai nostri re: sempre Apollo è fedele al suo giuramento.
Molti ti donano, Apollo, l’epiteto d’Ausiliatore
molti anche quello di Clario, dovunque il tuo nome è frequente:
io poi ti chiamo Carneo: dei miei padri è questa l’usanza.
Sparta era stata per te la tua prima sede, o Carneo,
e la seconda fu Tera, terza è la città di Cirene:
sì, già t’aveva condotto da Sparta la sesta semenza
d’Edipo per la colonia terea: a sua volta da Tera
ti conduceva Aristotele il forte all’asbistide sponda:
ti costruì un penetrale bellissimo, poi stabiliva
per la città un sacrificio solenne, in cui molti sul fianco,
prossimi all’ultimo spasimo, o re, se ne abbattono tori.
Iè, iè, Carneo attorniato da suppliche! Di primavera
sulle tue are si trovano i petali tutti che le Ore
fanno sbocciare, screziati, se Zefiro spira rugiada,
croco soave d’inverno: è sempre avvivato il tuo fuoco,
mai sul carbone di ieri la cenere suole addensarsi.
Molto il Radioso gioì, allorché si mossero a danze
gli uomini cinti di Enío insieme alle bionde libisse,
quando per loro fu il tempo adatto alle feste Carnee.
No, non potevano ancora i Dori accostarsi alla fonte
Cire, abitavano invece Azili scavata di forre:
ma li scoprì il dio in persona e poi li indicò alla sua sposa,
sopra Mirtusa l’impervia ergendosi, dove l’Ipseide
mise il leone uccisore dei bovi di Euripilo a morte.
Mai più divino di quello è apparso altro coro ad Apollo,
mai a città questi offrì tanti beni quanti a Cirene,
nella memoria d’antica razzia, e nemmeno gli stessi
figli di Batto altro dio onorano più del Radioso.
Iè, iè peana sentiamo, poiché sin dal primo momento
questa canzone per te ritrovò la gente di Delfo,
dopo che tu rivelasti la forza delle auree saette.
Quando scendesti su Pito, t’apparve un demonio bestiale,
l’orrido serpe: ma tu l’uccidesti, l’una sull’altra
rapide frecce vibrasti, e per te gridava la gente:
“Iè, iè peana, tu lanci il tuo dardo, e certo tua madre
ti generò salvatore!” Di là ti seguì poi quel canto.
Furtivamente parlò l’Invidia all’orecchio d’Apollo:
“Non loderei quel cantore che simile al mare non canti”.
Ma con il piede scostò l’Invidia e parlò così Apollo:
“Vasto è il fluire del fiume d’Assiria, e però si trascina
molte immondezze da terra e con l’acqua molta fanghiglia.
Non d’ogni luogo le api a Deò trasportano l’acqua,
ma solo quella che chiara e limpida suole sgorgare
stilla sottile di sacra sorgente, in suprema purezza”.
Salve, o sovrano: e ritorni il Biasimo dove è l’Invidia.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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