L’utile, la tecnica, e il capitalismo: alcune note su quello che scrive Severino
di Domenico Talia
In questo tempo esiste una sorta di ossessione verso l’«utile». Un’attenzione quasi molesta verso questo concetto che si è allontanato sempre più dal significato originale legato alle effettive necessità che le persone hanno per le cose utili. La definizione di ciò che è utile spesso non è sufficientemente ragionata. È guidata dal mondo della produzione e non dalle concrete esigenze della natura umana e questi due estremi sembra si allontanino sempre di più col passare del tempo e con l’affermarsi di logiche economiche sempre più globali e inafferrabili.
In buona sostanza, oggi si ritiene utile quello che è capitalisticamente vantaggioso, economicamente profittevole. Come ha scritto di recente Emanuele Severino su La Lettura (Sfida tra islam e occidente, il vincitore è la tecnica del 10 aprile 2016), «l’economia è oggi la forza vincente; le leggi sono fatte dai vincitori; inverosimile, dunque, che la dimensione economica indebolisca se stessa finanziando la cultura inutile». Nulla di strano quindi che il mercato sostenga i saperi che sono, in qualche modo, funzionali alla produzione e al profitto, mentre trascura ed emargina le culture che non hanno un qualche ruolo abilitante nei confronti del sistema economico dominante. Questa tendenza del capitalismo verso i saperi «utili» appare essere dunque autoconservativa e, per questa semplice ragione, quasi inevitabile.
Sul filo di questo ragionamento che negli ultimi anni ha coinvolto molta parte della cultura umanistica, Severino innesta, tuttavia, il suo ben noto punto di vista, molto critico nei confronti del dominio della tecnica, che oggi è alla base del sapere «utile», prediletto dall’apparato produttivo. L’autore del Capitalismo senza futuro, nel suo articolo si chiede se «questa maniera di servirsi della cultura, da parte del capitalismo, non è un suo più grave indebolimento o addirittura un suo andare verso l’estinzione» proprio per questo suo affidarsi alla cultura scientifica, come l’unica «utile» e capace di guidare la tecnica. Qui Severino, che ha spesso criticato sia il capitalismo sia il comunismo, in quanto espressioni del «dominio della tecnica», riprende uno dei suoi temi cardine e, dalla necessità di ridefinire il concetto di «utile» si muove verso una critica della cultura scientifica come generatrice del dominio della tecnica. Dunque Emanuele Severino alza il livello della critica e passa da quella al regime economico che definisce cosa è utile (e quindi anche cosa è inutile) per l’uomo, a quella verso la scienza moderna (la «tecno-scienza») vista come una potenza superiore colpevole, a suo dire, di distruggere il capitalismo e di determinare da sola i futuri ordinamenti del nostro mondo. In sostanza, il capitale sta cavalcando la tigre della tecnica, ma nei fatti è la tecnica a cavalcare il capitale usandolo come mezzo per affermare la sua implementazione del mondo.
A questo scenario duale, Severino aggiunge il ruolo della filosofia, che da sapere massimamente «inutile» diviene lo strumento principe per l’interpretazione del mondo, capace di mostrare come la tecno-scienza potrà sovvertire il capitalismo e liberare completamente la sua potenza se si renderà consapevole dell’impossibilità di ogni limite e lo vorrà superare per seguire la sua natura irredimibile (almeno agli occhi del filosofo). In una prospettiva storica, Severino comunque ritiene che ancora viviamo un tempo intermedio in cui la scienza non ha ben compreso la lezione filosofica e quindi non riesce a liberare totalmente le sue energie rimanendo a servizio dell’economia capitalistica.
Non ci si può sorprendere che Severino teorizzi la superiorità ontologica della filosofia sulla tecno-scienza e sulle forme economiche capitalistiche, anche se queste ultime oggi la giudicano un sapere inutile. Quello che invece appare un elemento di potenziale fragilità delle tesi di Severino è la necessità di affermare l’utilità della filosofia come elemento che potrebbe, se valorizzato, evitare l’indebolimento del capitalismo che, a sua volta, oggi indebolisce la tecnica ritenendola l’unico sapere utile e così la assoggetta ai suoi interessi.
La prospettiva dialettica di Severino è certamente interessante ma, in alcuni suoi aspetti, sembra orientata a spiegare al capitalismo che per avere un futuro non dovrebbe affidarsi totalmente alla tecno-scienza, mentre avrebbe bisogno della filosofia per non indebolirsi e conservarsi. Il filosofo del neoparmenidismo si concentra sui limiti dell’«utile» tecno-scienza e del suo vettore principale che è oggi il capitalismo, visto quasi come un prodotto della tecnica moderna e non viceversa. Il rischio insito in questa tesi è quello di propugnare l’utilità della filosofia in quanto strumento dell’economia e dunque del capitalismo e non in quanto strumento primo per una sua critica. La categoria dell’utile sembra quasi dover appartenere alla cultura umanistica e alla sua regina (la filosofia) e il capitalismo farebbe bene e considerare questi saperi, oggi trascurati dal mondo della produzione. Di questo passo, seguendo il filo logico del filosofo, si arriverebbe ad determinare una sorta di gara tra saperi per ingraziarsi l’economia mostrandosi «utili» ad essa. L’effetto paradossale potrebbe essere il rovesciamento dei valori della scienza e della filosofia, misurabili sulla loro capacità di impedire l’indebolimento e l’estinzione del capitalismo.
Così Severino rinuncia ad una possibile sintesi tra i saperi utili e quelli inutili. Sintesi invece preziosa per svolgere un’efficace azione di coagulo della critica delle forme di produzione capitalistiche che hanno consolidato questa loro separazione e, ogni giorno di più, ampliano la forbice tra pensiero scientifico e umanesimo. Sarebbe, infatti, di estremo interesse sviluppare una critica più radicale al capitalismo, sottolineando il ruolo scardinante della filosofia e delle discipline umanistiche «inutili». Insomma, una rivolta culturale dei saperi «inutili» contro lo stato delle cose presenti che possa servire come critica fondante nei confronti di un sistema economico che per salvarsi apre solchi culturali e sociali, aumentando le disuguaglianze. Un’analisi critica nella quale la filosofia, insieme agli altri saperi «inutili», possa agire come utile speranza per mondi migliori.
Purtroppo il ragionamento di Severino rimane nel solco della separazione delle due culture che tanto ha nociuto alla cultura e alla società occidentale e che ancora sembra sia difficile scardinare. Mentre, al contrario, sarebbe molto più interessante e «utile» liberare le energie della scienza e della filosofia sanando la frattura che tra loro storicamente si è determinata per unirle nel disvelamento delle contraddizioni tra il sistema economico dominante e la natura umana, oggi piegata alle logiche del mercato e della finanza. In sintesi, non si tratta di fare a gara tra discipline e visioni del mondo culturalmente eterogenee, bensì è necessario agire per il dialogo e l’integrazione di discipline differenti, allo scopo di costruire ipotesi e prassi che partano delle necessità degli individui per condizionare l’economia e non viceversa.
La più grande necessità che ci troviamo di fronte è quella di unire in forma dialettica le culture e fare in modo che siano esse a definire l’«utile» e non a subirlo come categoria imposta dalle leggi economiche. Per questa sfida varrebbe impegnare le culture nel nostro tempo, non per decidere quale cultura debba prevalere sull’altra.
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Non mi pare che nei libri di Severino sia possibile trovare critiche al capitalismo o al comunismo: una delle sue idee di fondo è che la tecnica trascenderà qualunque ideologia, dal bellicoso fanatismo dei fondamentalisti islamici all’organizzazione economica fondata su pilastri consumistici e traballanti mercati, poiché ogni forza in campo, per affermarsi, ha bisogno di rafforzare il proprio apparato tecnologico e, dunque, finisce per consolidare indirettamente l’onnipotenza della tecnica, preannunciata vincitrice finale di questo storico agone. Non incontro mai nel filosofo bresciano un giudizio di valore o un commento di natura morale: l’autore di Destino della Necessità si limita a constatare quella che per lui è la direzione inevitabile. Non c’è l’idea, come invece sembra trasparire nell’articolo, che un sistema possa essere migliore di un altro; secondo Severino, durante il paradiso della tecnica, si affermerà la filosofia dell’essere, ovvero il tramonto d’ogni residuo nichilistico, quando la civiltà tutta e ogni singolo uomo si accorgeranno dell’eternità di ogni cosa e di essere da sempre e per sempre detentori di un senso inaudito, condizione a cui il pensatore allude nelle sue opere in modo assiduo, assillante ma piuttosto nebuloso. Un altro concetto vago e indefinito, questa volta usato a più riprese dall’autore dell’articolo, è quello di “natura umana”, che può significare qualunque cosa, dato che rientrano nella natura dell’uomo anche le guerre, le crociate, le persecuzioni, l’invenzione delle religioni che ci dividono ma anche le ragioni essenziali che ci uniscono, il proporre pericolose utopie e il progettare truculente soluzioni finali. Nell’ottica severiniana la categoria dell’utile, citata da Domenico Talia, non si associa a nessun fenomeno o disciplina: sia l’apparato scientifico che i valori umanistici sono destinati a tramontare insieme all’isolamento della terrra.
Mi pare il Severino un abile e astuto ripristinatore di robivecchi. Certe espressioni tipo il ‘paradiso della tecnica’ da sole denunciano i sostanziali inghippi attorno ai quali muove il cogito ergo sum (meglio disquisisco ergo sum) del bresciano. Buon pro per lui e beato lui…..Tempo sprecato attardarsi su di lui.