Tutto il calcio minuta per minuta
di
Matteo Maria Orlando
Ernesto diavolo della pampa
figlio della tempesta
perfetta così come la palla
spedita appena sotto la traversa
sottratta, con l’inganno l’artificio
a Frey lasciato trafitto battuto
dal tuo nome
venuto al Via del Mare – a sabotare
il già visto il consueto, l’ordinario
*
Ernesto il tuo destro è il buio
della ragione, è un’equazione
la regola e insieme l’eccezione;
il fondamento di una fisica domestica
principio e compendio di balistica;
preludio alla formula magica:
Dìn dòn, dìn don
ha segnato Chevantòn.
*
Da quando non ci sei più
la palla è un difetto di forma
un eccesso di senso, buio
da significato. Ernesto,
caro, mi manca il volo
*
Ernesto stamattina in Piazza Duomo
un bambino volava palla al piede
con in dosso la maglia diciannove
la tua – quella di sempre – quella
di quando da pirata quale eri
facevi scorribande al Via del Mare
*
Ti ricordo aggredire lo spazio,
fiutare il corridoio
perfetto puntare l’avversario
sgusciare nello stretto.
L’architettura del tocco
l’eleganza del gesto.
Com’è triste lasciarsi, Ernesto
*
Scempio di città non riconosci
la gloria meritata dai tuoi figli,
allora mi figuro il tripudio
della toponomastica:
Via Carmelo Bene,
Piazza Bodìni, Corso Chevantòn.
Tempo supplementare
Lecce È il ventisei agosto del duemilauno. Nella prima partita di campionato, il Lecce si schiera al Via del Mare. Nell’altra metà del campo c’è il Parma. Nella sessione di mercato, la società di Piazza Mazzini ha comprato, dal Danubio, un ventunenne uruguayano.
È il giorno dell’esordio. Sulla schiena ha il numero diciannove, è minuto, gli occhi piccoli, scavati. Si chiama Ernesto Javier Chevantòn, ci metterà poco: al secondo minuto di gioco sbuca alle spalle di Frey – impegnato in un rinvio – e in una frazione di secondo infinita, dilatata, si inserisce, fulmineo, tra la sfera e l’ultimo uomo prendendo la palla, poi la torsione del tronco, la frustata col destro che insacca sotto la traversa.
Al novantesimo il Lecce non vincerà la partita, che finirà in pareggio, ma che importa.
Ho rivisto più volte i video di quella giornata. A conclusione dell’azione la telecamera è ferma sul portiere del Parma. Frey è scuro in viso, visibilmente stordito, disorientato. Si era compiuto un sacrificio. Quel gol, prima di allora impensabile, era l’irruzione di un uomo nella storia. Una storia di provincia, sì, marginale; una storia povera, avara, per questo incline a ricevere un segno, un’impronta, un sigillo.
Inizierà, quel giorno, una lunga storia d’amore tra Ernesto, il ragazzo venuto da lontano, e una città che avrebbe imparato ad amarlo e a lasciarsi amare. Una storia durata quindici anni, fatta di passioni e incomprensioni, rabbia, delusioni, separazioni e ricongiungimenti; fino all’ultimo ritorno, nel duemiladodici, quando decide di tornare a Lecce e giocare in Lega Pro, accettando lo stipendio minimo federale di novecento euro al mese.
Il duemilaquindici è l’anno dell’epilogo, dell’addio al calcio giocato. Dichiarerà: “Ho portato le maglie di Monaco, Siviglia, Atalanta e Colon, ma non ho mai tolto la maglia del Lecce”.