THE REVENANT [2015] Purché sia acqua
Prologo
un uomo e un bambino che innaffiano un albero morto.
Una sequenza di “Sacrificio” che non mi ha dato scampo, e per decenni mi ha scavato dentro.
Antefatto
L’uditorio, all’epoca, non potè tollerare che qualcuno, per di più venuto da una terra di barbari, si ponesse con fare così sprezzante, e l’incontro si trasformò in un ring.
Fu allora che toccai con mano il potere vero della traduzione: l’interprete ero io, e – omettendo se necessario, smussando con generosità – riuscii a far rispettare perlomeno i codici del gioco.
Atto I
Dalla vecchia cassetta, insondabilmente non smagnetizzata, la mia voce mi ritorna tranquilla: parole scandite ad arte, dizione esemplare, tono di chi sa il fatto suo. Le mie riserve istrioniche soccorrono il pre-coma emotivo che mi fiorisce dentro.
E’ un giorno del 1983, l’aula magna della mia facoltà è strapiena, ed io sto per giocarmi l’onorabilità, se mai ne ho avuta una: Tarkovskij ha cominciato a parlare…
Atto II
Oggi – qualche giorno fa.
Nessun aplomb – vero o interpretato, stavolta. Accavallo e scavallo le gambe, assetate di fuga. Mi copro il viso – gli occhi però no.
Mi afferro la nuca – come a sostenermi.
Davanti a me, una fila di adolescenti imperturbabili mi attesta i numerosi gap generazionali sopravvenuti.
Un’orsa ha fatto irruzione sullo schermo Flagranza di artigli.
in un vasto supplizio di disintegrazione.
Squarci trionfanti a scoprire ossa e interni grovigli. Evidenza scandalosa del soffrire.
Sangue secrezioni umori poco ostensibili. Nulla ci viene risparmiato.
Sto guardando un film, che – fatto per me ben più micidiale – deve molto a Tarkovskij.
Con un anacronismo per me saturo di tempo e imperioso quanto la marmellata di susine che aveva catapultato il tolstojano Ivan Il’ič ai giorni della sua infanzia, “Revenant” di Iñárritu mi rimaterializza ormai ben labili assenze come la fu Unione Sovietica e un regista con essa in irrimediabile rotta di collisione. E ogni cosa si permea di emozioni, e tutto riprende corpo, sensorialità e peso.
Pensare che sto solo guardando un film – anche se deve molto a Tarkovskij.
La stessa ossessione dell’acqua. Acqua ghiacciata, sgocciolii, acqua violenta dal cielo. Alito che si condensa.
Il peso dell’acqua e la fatica di affrontarla.
Acqua che qualche volta salva, ma più che altro espone. E poi trascina un corpo già abbondantemente trafitto ai suoi aguzzini finali.
Onirici quasi, in essa appariranno degli alci, immagini creaturali sì, ma qui soprattutto cibo che sfuma alla presa, prima che alla vista.
Acqua che disseta, e che nasconde.
Acqua che ostacola, oggetto intrattabile che obietta e che resiste. Epperò da attraversare: durezza e rischio.
Densità e vischiosità. Astuzia dell’acqua.
Doti trasformative, contenitive: ostensione velata di corpi e presenze ambigue, di creature che non appartengono più del tutto al mondo di sopra.
Malinconia dei corpi.
Altri occhi, più sapienti dei miei, hanno nel frattempo scandito a regola d’arte i debiti di “Revenant” con Tarkovskij, inquadratura per inquadratura. Per me è stato più semplice, a dirmelo è stata la memoria del corpo.
Vicissitudini del corpo del protagonista. Hugo Glass striscia. In ⇨ un video di anni fa, anche Rubén Gallego striscia, e lo fa con consumata leggerezza, e lo fa con un’abilità preclusa ai più, in una sorta di visione orizzontale del mondo. Come in un’inquadratura fedele all’acqua.
E le immagini si moltiplicano, come in un’arcana, e molto privata, liturgia della resurrezione.
Epilogo
Una volta a casa, resuscito la cassetta sopravvissuta a traslochi e peripezie di varia portata, un terremoto incluso, e mentre ascolto, ritrovandola dentro di me, la voce di un Tarkovskij redivivo che riprende a profetare, mi preparo una minestra: calda, fluida, rassicurante, ad essa, penso, lo stomaco, anche se un po’ contratto, non si opporrà.
Un cibo-bambino, come quella marmellata di susine che aveva accompagnato gli ultimi giorni di Ivan Il’ič, consigliere di Corte d’appello.
CONNESSIONI
(a mo’ di poscritto)
Come in un gioco di imprevedibile assonanza, alle spalle de La morte di Ivan il’ič (1882-1886) di Lev Tolstoj, e di Bianco su nero (2002), sorta di autobiografia di Rubén Gallego, possiamo, forse, azzardosamente vedere due eventi lontani – e non solo nel tempo -, ma di eguale, e inaudita, corrosività.
Se nel 1881 l’assassinio di Alessandro II, zar di tutte le Russie, non commosse il “grande vecchio”, ne rese però irreversibile la conversione mistica, l’insofferenza per la follia dell’abituale, per l’inerzia del buonsenso nella vita quotidiana.
Dal canto suo, Gallego approfitterà del disordine generale innescato dalla perestrojka per fuggire dall’ospizio dov’era rinchiuso, tornando dai mondi a parte – istituti per disabili, centri chiusi, centri segreti – dove di volta in volta lo avevano internato in attesa della morte prevedibile per chi, come lui, era marchiato da un handicap grave. Nel suo caso, una paralisi cerebrale alla nascita: anche se, come rivendicherà una volta libero, “con l’indice della sinistra posso scrivere al computer, nella destra ci si può infilare un cucchiaio e mangiare normalmente” [Adelphi 2004, p. 131].
Niente di tutto questo, va da sé, nell’esistenza un tempo addirittura brillante di Ivan Il’ič, non fosse che essa ci viene data retrospettivamente dal punto di vista della sua morte, a sua volta raffigurata dall’interno , dal punto di vista della coscienza del morente. E allora grado a grado tutto si sgretola nei toni della menzogna e del disvalore. E’ qui che, mano a mano che Ivan Il’ič sprofonda nelle vicissitudini del corpo, la marmellata di susine, madeleine proustiana ante-litteram, anche se di materia più dimessa, viene dolorosamente ad evocare in lui, con la memoria dei sapori, tutta una serie di ricordi dell’infanzia, la bambinaia, il fratello, i giocattoli… 1
- Uno dopo l’altro gli passavano davanti agli occhi i quadri del suo passato. Cominciava sempre col vedere quelli dei tempi più prossimi ed era poi ricondotto ai più lontani, a quelli della sua infanzia e in quelli si fermava. La marmellata di susine nere che ora gli davano da mangiare gli rammentava le susine crude, quelle susine francesi, tutte grinzose, della sua infanzia, quel loro sapore particolare, e la saliva che gli veniva in bocca quando arrivava al nocciolo: e questi ricordi dei sapori evocavano tutta una serie di ricordi di quel tempo: la bambinaia, il fratello, i giocattoli. «No, non ci devo pensare… fa troppo male», diceva fra sè Ivan Ilijc e di nuovo tornava al presente.↩
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Molto preziosi questi contributi!
Si parla sempre troppo poco di registi / produzioni non occidentali.
Tra Russia e Giappone, solo per dirne due, abbiamo mostri sacri (come Tarkovskij e Ozu) che da soli basterebbero a far impallidire una intera generazione di cineasti holliwoodiani.