Un calcio alla guerra
di Tiziano Scarpa
L’unico giornale che ho comprato ieri, all’indomani dello scoppio della guerra in Iraq, è stato La Gazzetta dello Sport. Volevo vedere fino a che punto la realtà riusciva a non lasciare traccia su queste pagine che diffondono la peggiore ideologia della nostra epoca in mezzo milione di copie al giorno.
Il titolo principale in prima pagina della Gazzetta dello Sport di ieri 22 marzo 2003 era: “Notte da grandi”. L’aggettivo era da intendersi al femminile: “le” grandi erano le squadre del Milan e della Juventus, che stavano per affrontarsi quella sera stessa. A sinistra, in posizione di editoriale, sotto l’occhiello con la dicitura “Tempo di guerra” e il piccolo titolo “Lasciateci il giocattolo”, un quadratino ospitava l’inizio di un articolo del giornalista e romanziere Gianni Riotta.
Ne riporto le prime righe, giusto il pezzo che appariva in prima pagina:
“Il calcio al tempo della guerra. Come occuparsi del litigio tra Hector Cuper e Bobo Vieri quando la polemica tra il presidente americano George W. Bush e il suo collega francese Jacques Chirac lacera il nostro mondo? E’ possibile concentrarsi sulla rivalità sportiva tra Marcello Lippi e Carlo Ancelotti, mentre la coalizione angloamericana si impegna per liberare l’Iraq dalla dittatura di Saddam Hussein?”
Domande retoriche, Riotta: quaranta pagine di Gazzetta dello Sport dimostrano che è possibile eccome concentrarsi su Milan e Juve mentre la coalizione angloamericana “si impegna” eufemisticamente a “liberare l’Iraq”.
Riassumo la parte centrale del pezzo: Riotta rileva che gli appassionati di calcio, abituati agli schemi di gioco, in questi giorni vedono lo stesso genere di disegnini impiegati per indicare non dribbling e azioni di gioco ma manovre territoriali degli eserciti. Termini come “attacco, difesa, vittoria e sconfitta” non sono più metafore. Non si combatte più per guadagnare tre punti in classifica, la posta in gioco è “la vita di innocenti civili irakeni, la sorte dei figli di mamma adolescenti americani, la libertà di Bagdad, la scelta unilaterale degli americani, il prezzo di un barile di petrolio, il destino dei rifugiati, la stabilità del mondo.” Riotta è disturbato dal fatto che alcuni commentatori politici incitano al combattimento come se esortassero una squadra di calcio a vincere. La guerra fa rimpiangere le polemiche da bar, le discussioni sulla moviola, le liti scherzose fra tifosi.
Trascrivo la parte finale del pezzo di Riotta:
“La nostra vita quotidiana, di cui lo sport è tanta gagliarda parte, si ferma davanti al rischio della morte, dei massacri, dei bombardamenti, del terrorismo. Ricordiamocene. Ricordiamo come le piccole cose che diamo per scontate, gridare gol!, accendere la tv, comprare un giornale, siano ancora negate in tanta parte del pianeta. Molto giocatori irakeni hanno raccontato di essere stati imprigionati e torturati da Uday, il figlio di Saddam Hussein che presiede il comitato olimpico in Iraq, per una partita perduta. Questo è il mondo che non vogliamo.
Nello stadio di Santiago del Cile, 1973, il dittatore Pinochet rastrellò gli oppositori. Nello stadio di Kabul, pagato con i soldi di noi europei, i Talebani fucilavano alla nuca le donne. Un mondo in cui negli stadi si giochi solo al pallone ci pare, ogni lunedì, normale, ed è invece straordinario. Ricordiamocene, in attesa di una prossima partita Usa-Iraq, con applausi e scambi di maglia tra giocatori”.
Cari menefreghisti che non volete che una guerra guasti la vostra serata di calcio, state tranquilli: il calcio è il simbolo della libertà, nei paesi liberi si gioca a calcio, nelle dittature si torturano i calciatori. Anche stasera iniettatevi con la coscienza pulita la vostra dose di calcio, che è dose quotidiana di civiltà. Non sentitevi in colpa, oggi, nel leggere le quaranta pagine di questo giornale, perché un giornale come questo si trova solo nelle edicole dei paesi liberi. Vi si parla per 24 pagine di calcio, 3 di ciclismo, 4 di automobilismo, 1 di basket, 6 di altri sport, e, a pagina 39, la penultima, sopra il prospetto dei programmi televisivi, si dedicano 133 righe alla situazione bellica in Iraq.
A me pare che impiegare tali callide argomentazioni per giustificare il totalitarismo monoteista calcistico del lettore della Gazzetta sia uno degli esempi più clamorosi di prostituzione dell’intellettuale.
Che cos’è lo sport, oggi?
Se nelle cose che accadono distinguiamo fra eventi e prodotti, lo sport fa parte degli eventi che vengono regolamentati e prodotti. Per capirci: è un evento cinematografico il fatto che sia girato e proiettato nelle sale un capolavoro, mentre è un prodotto che ogni anno siano assegnate le statuette degli Oscar, gli Orsi d’argento, i Leoni d’Oro. Per spiegarmi ancora meglio: anche se ogni anno in Italia vengono comunque assegnati i premi Strega, Viareggio e Campiello, non è detto che ogni anno in Italia vengano pubblicati capolavori.
Lo sport sostituisce gli eventi del mondo con una serie di eventi-prodotti, eventi che vengono prodotti da una serie di regole ludiche e da una macchina economico-spettacolare che li rende visibili e li commercializza.
Nella Gazzetta dello Sport e nei giornali sportivi il mondo è “non pervenuto”. E’ molto divertente (è molto tragico) confrontare la prima pagina dei giornali con quella della Gazzetta ogni giorno: alluvioni al sud?, crescita dell’inflazione?, una ragazza ha fatto fuori la sua famiglia?, gli Usa attaccano l’Iraq? “Non mi risulta”, dice la Gazzetta dello Sport, “a me risulta che stasera il Milan deve giocare contro la Juve”.
Si potrebbe obiettare che è ingenuo scandalizzarsi, perché questo fa parte della regola del gioco dell’informazione, che si specializza in settori e generi di eventi, al punto che la Gazzetta stessa dichiara con molta onestà la sua natura tutta peculiare, addirittura stampando le sue notizie su una carta di colore diverso. Vorrei far notare tuttavia che mentre in tutti i giornali generalisti lo sport occupa ormai una notevole quantità di pagine quotidiana, il contrario non avviene: in altre parole: per i giornali lo sport fa parte del mondo, per la Gazzetta dello Sport, quotidiano diffuso ogni giorno in mezzo milione di copie e presente capillarmente nelle edicole e nei locali pubblici di tutta Italia, il mondo non fa parte dello sport.
Tutto questo può sembrare irrilevante. Può darsi.
Il nostro capo del governo ha basato una parte della sua popolarità sui successi sportivi come presidente del Milan, e continua a riferirsi ancora oggi al suo ingresso nella politica partitica con la metafora calcistica “sono sceso in campo”, e ha dato il nome al suo partito con un sintagma esortativo preso dagli striscioni che si espongono negli stadi: “Forza Italia!”
Vuole la leggenda che quando l’industriale automobilistico statunitense Henry Ford venne in visita a Torino, Giovanni Agnelli senior lo portò allo stadio a vedere una partita della Juventus: gli operai, gli immigrati, gli impiegati della fabbrica tifavano con tutta la loro passione per la squadra del padrone. Ford trovò questa tattica populistica geniale, e la esportò negli Stati Uniti fondando squadre di basket e baseball.
La retorica calcistica mi ha sempre interessato. Mi concedo il permesso di ricopiare qui un paragrafo che faceva parte di una vecchia versione di un mio racconto. Il narratore protagonista a un certo punto se ne usciva con questa sparata:
“Io ho capito perché la gente legge la Gazzetta dello Sport. Quando gioca la nazionale, il giorno dopo sulla Gazzetta ci sono delle parole mai viste. Per esempio eroismo, storico, leggenda, epico, gloria, se ha vinto. Disperazione, vergognoso, disastro, farabutti, disgrazia, se ha perso. Queste parole sono in coma per tutto l’anno, sono depresse, nessuno le usa mai, di rado, pochissimo. Poi un giorno gioca la nazionale, arriva il direttore della Gazzetta e fa entrare nei discorsi queste parole che nessuno ha il coraggio di usare, mai. Certe volte le mette grandi come tutta la pagina, grassissime, con l’inchiostro obeso, i punti esclamativi, perfino. È come fare una festa dove inviti un re o una principessa, ma non vestiti in giacca e cravatta o in tallieur, proprio con lo scettro e la corona di brillanti. A proposito, lo scettro e la corona di brillanti sarebbero i punti esclamativi. Alle feste aziendali non si possono invitare un re o una principessa. D’accordo che non verrebbero loro per primi, ma non andrebbe bene anche se venissero, è esagerato. Ci sono queste popolazioni aristocratiche di parole depresse, ma la gente ha bisogno di queste parole nella vita. Sono le belle addormentate delle parole, o anche le brutte addormentate, e solo la Gazzetta dello Sport le fa svegliare, sa qual’è il momento giusto per dare il bacio anti-sonnifero. Io nella mia vita non le ho incontrate spesso, e non so se vorrei una vita dove ce ne sono molte di parole così. Ma ogni tanto sì, ce n’è bisogno.”
In uno scatolone dove conservo un fascio di giornali c’è la Gazzetta dello Sport del 19 giugno 2002.
Il titolo recita: “Vergogna!” a caratteri enormi. Il 18 giugno 2002 l’Italia era stata eliminata dai Mondiali perdendo con la Corea del Sud, anche grazie al fazioso arbitraggio dell’arbitro ecuadoriano Aldemar Byron Ruales Moreno.
Trascrivo l’incipit dell’articolo in prima pagina di Candido Cannavò, intitolato “L’infamia e il peccato”:
“Alla fine della storia, dopo aver sfogato ira, collera, sdegno, dopo aver gridato all’ingiustizia, alla vergogna e coperto d’insulti questa porca organizzazione mondiale fondata sull’affarismo, dopo esserci liberati di tutti i rospi….”
In seguito, l’articolo metteva in fila termini come: “famigerata, mostro, paura, killeraggio, popolo ferito, fiume dell’infamia, ammorba, diritto di verità, di cronaca e di storia” eccetera. Mi sono limitato a raccogliere queste parole dalle righe in prima pagina, anche se il climax retorico raggiunge il suo orgasmo nella continuazione dell’articolo, a pagina 13: “In una visione biblica, il nostro calcio ha scontato, dinanzi al mondo, i suoi tanti anni di peccati: arroganza, immoralità, superficialità, odi e risse tra dirigenti, squallidi tradimenti, congenite incapacità”.
Niente di sorprendente, si dirà, questi sono giornalisti che fanno il loro mestiere. Ma gli intellettuali tout court prestati al giornalismo, e i giornali non specializzati in cose sportive, come si comportano quando parlano di calcio?
Nei miei vecchi file c’è uno sfogo, una lettera non inviata alla redazione dell’Unità, scritta quasi un anno fa in seguito a un articolo del critico letterario Massimo Onofri che commentava il derby Roma-Lazio. Ve la ricopio:
Scusa, Massimo Onofri, ma ho letto su “l’Unità” di lunedì 29 aprile 2002 “La partita delle partite si approssima all’epica”, questo articolo di un tuo omonimo, e mi è venuto spontaneo segnalartelo perché tu andassi a leggerlo.
A dire la verità, la prima cosa che ho pensato è che fosse ironico, ma è chiarissimo che non lo è: non sei mai stato così serio e letterale. La seconda cosa che ho pensato è che esistono pirati informatici che riescono a entrare nei computer dei giornali e a inserire nell’impaginazione di un quotidiano “di sinistra” articoli di sabotaggio, un po’ come si diceva succedesse al quotidiano “La Notte” che, poche settimane prima di chiudere, usciva in edicola con un sacco di parolacce infilate a caso tra le frasi. Poi mi sono rassegnato all’evidenza, e la altre cose che ho pensato te le scrivo.
Probabilmente succede così: l’essere umano in certi campi si trattiene. Il superego e i doveri professionali gli impediscono di lasciarsi andare (nella critica letteraria, per esempio). Lo stesso essere umano, però, appena fa una gita fuori dai suoi soliti discorsi professionali, getta la maschera, si mette a nudo e balla scosciato dimenando tristissimi scroti.
Lo spurgo mitografico che sei riuscito a farti pubblicare dall’“Unità” sul derby Roma-Lazio è più enfatico persino dei pensierini naif di Candido Cannavò: candido davvero, al tuo confronto, il Cannavò, un innocuo bassotuba scoreggione. Nei suoi editoriali sulla “Gazzetta”, Cannavò mette furbescamente in fila flatulenti folate di parole che in altri contesti sono ritenute impronunciabili: “gloria”, “eroismo”, “epopea”.
Quando leggo Cannavò sulla Gazzetta dello Sport, mi sembra di capire che il calcio è soprattutto questo: ha la capacità di produrre discorsi magniloquenti, è una zona iperretorica, eroga paroloni. Nel Discorso-Calcio hanno corso parole che si ha pudore a usare altrove. Addirittura si gridano, parole che in altri contesti ci si vergognerebbe a sussurrare, si scrivono in corpo tipografico enorme parole che altrove si metterebbero fra mille virgolette.
Non c’è più eroismo, non c’è più gloria, non c’è più epopea: che ci sia almeno nel campionato più bello del mondo: questo è l’avvilito dogma che predicano e razzolano gli ideologi del calcio, i talebani del pallone gonfio dei loro fetidi miasmi. Cupa antropologia: presuppone un’idea di essere umano che necessiti di idoli, e che questi idoli sia disposto a vederli e costruirli a qualsiasi costo, impastandoli di nulla. Presuppone una vita di merda, cieca all’eroismo, alla gloria, all’epopea dell’esistenza reale.
Complimenti per la tua apologia dell’ineluttabile violenza tribale ematospermatica, congratulazioni per la tua broda mitologica in cui (ti cito) “l’odio fratricida è più forte di tutto”.
“La logica del calcio – e del derby – è bellica, non può che odorare di polvere da sparo” scrivi: sembri uno dei peggiori fautori della “bella morte” ritratti da Furio Jesi in Cultura di destra.
Ti invito a rileggere le graziose espressioni che hai ammassato in una sequenza vertiginosa: “atroce fraticidio”, “Roma, caput mundi”, “una folta schiera di popoli”, “eroi del passato”, “il derby ci sospinge nel pantheon delle sacre memorie”, “s’approssima all’epica”, “e più fulgidamente risplendono nel cielo del mito le imprese del tempo che fu”, “ogni saga di dei e di semidei ha le sue liturgie di sangue, i suoi ganimedi strappati alla vita e alla gloria nel fiore dell’età, le sue morti attonite e illacrimate, tanto furono atroci e improvvise” … Sono appena a metà del tuo articolo, ma le mie dita si rifiutano di ricopiare oltre.
Ci credo che per il calcio valga la pena di sgozzare e stuprare, spargere sangue e sperma: se il calcio è quello che tu decanti, e alla quale entusiasticamente aderisci, perché non si dovrebbe sprangare, spaccare, ammazzare e violentare per un mito così lussureggiante?
Non è innata la logica tribale del calcio. Non è irrelato il suo paesaggio antropologico e sociale. Non è un irrimediabile e fatale surrogato “là dove tutte le ideologie latitano, là dove i valori declinano”.
Oggi più che mai, il calcio è uno strumento di propaganda e manipolazione delle masse, sfrutta la debolezza del sistema simbolico individuale e collettivo ormai completamente fottuto da decenni di pseudocultura pop (prevalentemente anglofona) e di idolatrie dell’effimero, titilla il suo godimento perverso, incita le sue oscene leggi non scritte, blandisce l’immoralità del maschio occidentale, sistematicamente e scientificamente reso immorale dal pieno (non dal vuoto!) di valori occidentali nazipoptelevisivi: il conflitto di classe traslocato e mascherato nel conflitto fra tifoserie, negli scontri tra ultrà e carabinieri, il mito del successo, i compensi folli a calciatori, i giornalisti sportivi televisivi esperti di puttanate (i nuovi intellettuali organici!), le fighette di contorno felici di leggere la classifica del campionato per guadagnarsi un’inquadratura e un ingaggio senz’altro più succulento di una coetanea professoressa di matematica: la nuova nomenklatura di facce di culo.
Altro che “logica tribale”! Sveglia, intellettuale Onofri! A ritroso, devo essere io a strofinarti sul muso le pagine di Zizek, Foucault, Adorno, Canetti, Arendt, Bataille, Weil, Gramsci, Simmel? Il calcio non è il rigurgito gutturale di una tribù di fratricidi, è un raffinatissimo leviatano.
Il calcio è sommamente funzionale al potere. Gli fa gioco, è il suo gioco. Devo ricordarti io i nomi dei presidenti delle squadre di serie A di tutta Europa e le loro carriere politiche? Devo ricordarti io quanto pervade ogni giornata, ogni serata dei palinsesti esistenziali europei? Quanti milioni di dollari e di anime fattura?
Qualsiasi manifestazione “politica” viene repressa con ben maggiore severità dei pazzeschi scontri fra tifosi che mettono a ferro e fuoco interi quartieri, e che il giorno dopo lasciano tante graziose tracce, fra le quali ci sono le simpatiche scritte che ti fanno sorridere col compiacimento del critico letterario che plaude alla loro sagacia aforistica.
Il calcio è talmente epico ai tuoi occhi che fa diventare epici, per magia di contatto, anche la letteratura, anche scrittori che in sede di critica letteraria non sembravano procurarti altrettanto godimento. Ecco infatti che Aurelio Picca, in quanto racconta di calcio, nel tuo articolo improvvisamente appartiene alla “nobiltà volsca”. Incredibile: se si tratta di calcio, il critico Massimo Onofri gode persino con la letteratura contemporanea!
Così si chiudeva la mia lettera mai inviata alla redazione dell’Unità.
Per chiudere questo mio intervento, invece, riferisco una cosa che mi hanno detto l’anno scorso in uno dei miei giri di letture di poesia. Dove? In Italia.
“Qui siamo circa sessantamila abitanti, tutto sommato questa non è una città piccolissima. Alle ultime elezioni comunali si sono trovati con questo giovane di ventisette anni che aveva avuto uno sproposito di voti, i pezzi grossi del partito erano in imbarazzo, gli hanno dovuto dare per forza una carica nella giunta, lo hanno fatto Assessore alla Cultura con la delega allo Sport e ai Giovani. Sai com’è, con la Cultura fai meno danni, è un assessorato secondario… Il problema è che qualche incarico glielo dovevano pur dare, questo qua aveva fatto il pieno di preferenze, era il capo della curva degli ultrà della squadra di calcio”.
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mo. tiziano, sono raimo, il christian. e devo dirti che nel malumore mattuttino che cercavo ostinatamente di debellare questo articolo tuo di te che non ti leggevo una pagina da un sacco di tempo, mi fa ritrovare tutto le mie connessioni sentimentali a te dedicate. mi sembra assurdo parlare d’altro in questi giorni, mi sembra assurdo che l’ideologia dello spettacolo non riesca a mostrare una piccola crepa, nulla più, nel suo monotono autocelebrarsi. fraternamente, christian