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Io sto con Bernie

di Silvia Pareschi

(San Francisco) – Sei qui per Bernie? – mi chiede l’uomo con la camicia bianca e i capelli grigi e ispidi come una paglietta per i piatti.

Ho risposto a un’e-mail che convocava i sostenitori di Bernie Sanders ad assistere a un discorso registrato che il candidato alle primarie rivolgerà alla sua base elettorale. Il luogo dell’incontro è un piccolo bar con le pareti tappezzate di grandi schermi, che di solito trasmettono sport e che oggi verranno prestati per qualche decina di minuti al sorprendente candidato che non ha paura di definirsi socialista.

Dopo avere risposto di sì, vengo invitata a scrivere il mio nome su un’etichetta adesiva e ad appiccicarmela al maglione. Non conosco nessuno e sono un po’ imbarazzata. Non possiedo il talento per la cordialità immediata piuttosto comune da queste parti, e non sono mai stata a un raduno politico. Però Bernie mi è simpatico, sogno che vinca le elezioni, e anche se non sono cittadina americana e quindi non posso votare penso che magari, chissà, se mi convincono potrei anche provare a dargli una mano.

Mi piazzo su uno sgabello davanti a uno degli schermi, e mentre aspetto che venga trasmesso il messaggio registrato mi guardo un po’ in giro. Alzo gli occhi e vedo la scritta “Fernet Flight $25”. Non riesco a trattenere una smorfia. Flight in questo caso significa “serie di assaggi”. Sì, assaggi di fernet. Quattro o cinque bicchierini di diversi tipi di fernet per la modica cifra di 25 dollari. Perché a San Francisco il fernet è diventato la bevanda di culto degli hipster, anche se nessun italiano ne capisce il motivo. Guardando meglio, vedo che c’è anche una botticella con sopra scritto “Fernet invecchiato in botte”. Meglio tornare a Bernie. Sempre in tema di alcolici, il bar offre per l’occasione il cocktail “Feel the Bern”, a base di vodka. Ma sono le due del pomeriggio, e preferisco non assaggiarlo.

Il locale è discretamente affollato. L’età dei partecipanti è mista, stagionati progressisti della “vecchia” San Francisco ma anche, grazie al cielo, tanti giovani. Anzi, direi che i giovani sono la maggioranza. Tra di loro c’è il ragazzo di fianco a me, che si presenta come Jeff e poi mi chiede perché ho deciso di sostenere Bernie. Jeff è asiatico, ha una faccia carina e pulita e seria: l’esatto contrario del tipo cinico. Ci penso un momento e poi gli rispondo che mi interessa la politica e che secondo me Bernie è un candidato interessante – non mi sbilancio, d’altronde io sono cinica, e non sono mica convinta fino in fondo che Bernie, per quanto simpatico, non sia in realtà un’utopia controproducente e che alla fine non sia meglio tifare Clinton – anche se non potrò votarlo perché non sono cittadina americana.

– Neanch’io, – risponde lui. – Sono canadese.

Jeff è venuto qui due anni e mezzo fa per lavorare in una start-up e pensa che la società americana dovrebbe avere più welfare, più uguaglianza, un sistema sanitario e una scuola pubblica accessibili a tutti. E pensare che io – insieme a tanti abitanti della “vecchia” San Francisco – detesto i techies, i nuovi invasori arrivati sull’onda del boom tecnologico che, al contrario degli invasori hippy e gay che li hanno preceduti alcuni decenni fa, non hanno portato a San Francisco alcun tipo di arricchimento culturale o sociale. Solo un’oscena bolla immobiliare, una massiccia ondata di sfratti e una generale omogeneizzazione della città. Eppure Jeff è un techie ed è qui a sostenere Bernie. Sia benedetto il Canada.

Cosa fa Jeff per contribuire alla campagna di Bernie? Telefona. Lo scopo principale di questo raduno è il reclutamento di nuovi volontari per le cosiddette phone banks, quelle specie di call center temporanei molto usati nelle campagne elettorali americane. In questo momento le telefonate servono per raccogliere i Voter IDs, cioè per sondare le intenzioni di voto: se dichiara a un volontario telefonico di essere indeciso sulla scelta del candidato, l’intervistato riceverà una visita dei volontari sul campo, che gli consegneranno materiale informativo e cercheranno di convincerlo a votare per Bernie.

Mancano pochi giorni al primo febbraio, quando le primarie prenderanno l’avvio con il caucus dell’Iowa. Il nove febbraio sarà il turno del New Hampshire, poi toccherà a Nevada e South Carolina, e poi agli undici stati che voteranno martedì primo marzo, il cosiddetto Super Tuesday. Jeff racconta che durante ogni telefonata chiede all’intervistato come si definirebbe: sostenitore di Bernie, simpatizzante di Bernie, indeciso, sostenitore di Hillary, ecc. Tanti gli sbattono il telefono in faccia; tanti non sanno neanche chi sia Sanders o che tra qualche mese ci saranno le elezioni; alcuni gli rispondono che non voteranno mai per un comunista. Ogni tanto, però, qualche indeciso va ad aggiungersi al suo elenco.

David, il tizio con i capelli a paglietta, presenta i principali attivisti del gruppo, giovani dall’aria alternativa ma al contempo efficiente. Poi parte il messaggio registrato di Bernie. Venendo qui, avevo in mente di verificare due cose: che Bernie avesse realmente l’aria da pazzo (pare che tra i suoi sostenitori serpeggi una certa preoccupazione per i suoi modi bruschi – non bacia i bambini, per esempio – e per la sua aria un po’ folle, che gli strateghi della campagna cercano di tenere sotto controllo) e che parlasse con l’accento di Brooklyn. Prima di lui, però, sale sul podio una donna, che ripete i fatti salienti della campagna, citando alcuni slogan – “Il potere della gente che batte il potere dei soldi”, “Un futuro in cui credere” – e ricordando l’importanza di questi primi risultati: se Bernie riuscirà a superare Hillary fin da subito, anche gli scettici cominceranno a credere nella possibilità della sua vittoria e cominceranno a sostenerlo. Sono momenti decisivi, e ogni contributo, anche il più piccolo, è utile alla causa.

Poi arriva Bernie e attacca il suo discorso. È un po’ brusco, in effetti, poco retorico e molto pragmatico, ma l’aria da pazzo secondo me non ce l’ha. L’accento di Brooklyn, invece, è fortissimo. Sarà anche un senatore del Vermont, ma quando parla sembra di sentire mio suocero, un ebreo di Brooklyn proprio come lui, che ha mantenuto il suo accento anche dopo tanti decenni trascorsi in California. È un accento che non si perde mai, a quanto pare. Bernie racconta di una campagna cominciata con un 3% di consensi nei sondaggi nazionali, sondaggi che oggi lo vedono nettamente più avanti di Trump. Si vanta di avere rifiutato i contributi dei Super Pac, e dichiara di avere ricevuto finora 2,5 milioni di donazioni individuali, con una media di 27 dollari a donazione. Elenca i punti fondamentali del suo programma: cambiare il sistema di finanziamento dei candidati, che favorisce la corruzione; eliminare le disuguaglianze economiche; combattere i cambiamenti climatici; correggere le storture di un sistema giudiziario intrinsecamente razzista; realizzare una riforma dell’immigrazione che faccia uscire dalla clandestinità gli undici milioni di immigrati illegali. Ci sono altri punti che non menziona, come quella visionaria riforma del sistema sanitario in senso “socialista” che più di tutte gli ha procurato accuse di irrealismo.

Il discorso è breve. Lo scopo, infatti, era soprattutto quello di radunare i sostenitori di Sanders del nostro quartiere, per permettere loro di contarsi e organizzarsi. Alcuni si offrono di ospitare una phone bank a casa propria: questi gruppi diventano anche occasioni per socializzare, per trovare nuovi amici, per confrontare le esperienze. Mi piacerebbe partecipare alla phone bank organizzata da una giovane coppia dall’accento britannico che promette biscotti fatti in casa, e mi incuriosisce la phone bank ospitata da un vecchio hippy che come me non possiede un cellulare, ma sono entrambe troppo lontane da casa mia. La più vicina è quella organizzata da David, che si terrà giovedì prossimo in un altro bar della zona. Mi metto in lista per partecipare, ma chiedo a David come funziona per chi non possiede un cellulare. Lui esprime ammirazione per la mia “scelta di vita” (la chiama così) ma dice che non sa come si faccia a collegarsi al sistema di chiamata automatico senza cellulare. Mi propone di provare a telefonare con il computer usando Google Voice, io rilancio con Skype, lui mi dice che si informerà e mi farà sapere. Altrimenti posso sempre chiamare da casa con il telefono fisso. Che delusione: io voglio partecipare alla phone bank. Al nostro gruppo toccherebbe il Nevada. Sto pensando di comprarmi un telefonino usa e getta con la scheda prepagata (uno di quelli che chiamano burner e che vengono usati soprattutto dagli spacciatori, perché non sono rintracciabili) da utilizzare per l’occasione. Mi sembra che ne valga la pena, per chiedere agli abitanti del Nevada se vogliono votare per Bernie.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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