CAMPING
di Paolo Sperandio
[ con il nickname di niky lismo commenta spesso su Nazione Indiana – questo è un suo racconto – obliquo e deponente di disarmo autunnale – malinconico per accumulo di domande senza risposta – reticente sulla crudelta e su quella distrazione inspiegabile dei destini che sempre sfiora il consumarsi delle stagioni del tempo e delle vite ] |
[ Giorgio De Chirico (1888 -1978), L’enigma dell’oracolo ]
“L’altra sera, mentre riponevamo la nostra roba e sistemavamo le provviste comprate a Saint-Pierre, abbiamo sentito le voci delle persone che occupano l’altra ala del bungalow”
J.Cortazar, “Storia con ragni” |
Siamo venuti qui perché è squallido abbastanza per le nostre colpe. Gli alberi radi e gli arbusti coperti di polvere attestano in immagini la nostra desolazione, le poche tende sparpagliate illustrano una mappa di rimpianti che siamo chiamati a percorrere.
Siamo in due, in un bungalow che è un cumulo di assi erette ad abitazione solo dal riparo del tetto. E che è un riparo soprattutto per i vermi del legno, e per le cimici che abbiamo trovato nello zucchero. Le perdite che si avvertono in bagno, specialmente di notte, sono connesse alla nostra idea di eternità. Eterno è l’impulso al male che di volta in volta ci prende, e che rende futile il computo delle nostre vittime. Di fronte al bungalow scorre una fila di piazzole spelacchiate, dove il vuoto prevale sopra i campeggiatori occasionali e sulle auto che transitano alla ricerca asfissiata dell’uscita. Il paesaggio fa perno su pochi elementi centrali che abbiamo imparato già a focalizzare: un traliccio dell’alta tensione, la piscina coperta di foglie secche, lunghe pile di sedie di plastica in disuso. Alla nostra destra un bungalow gemello provvede la contiguità di una coppia con cane: la donna è morbida e bionda, lui tende allo scuro, anche per i capelli crespi e gli occhiali che si toglie di rado. Dalle piazzole laterali arrivano i richiami di bambini che vediamo sfrecciare verso i camper, o musichette che nessuno ascolta. Le docce sono quasi sempre libere.
Il suono che più ci incuriosisce viene dalla catena che il cane si trascina appresso nel suo circoscritto andirivieni, e che serve da metafora banale. In realtà è un cane buonissimo, che anche senza catena non devierebbe dalla parca topografia che i suoi padroni hanno tracciato per lui. Scodinzola appena sente i passi dell’uomo, alla donna lecca la mano quando gli va vicino. Non scappa mai, non salta. Al guinzaglio non tira, una lingua gocciolante gli barcolla dentro quello che ci pare un sorriso, e che deve apparire tale a tutti perché quando passano i campeggiatori, da soli o in gruppetti sparuti, sempre lo accarezzano, lo chiamano, gli strofinano il muso come se in qualche modo vi fossero tenuti.
Il cane li lascia fare, non recrimina neppure ai bambini che gli tirano la coda: l’attesa dei padroni lo esime da qualunque diversivo, la sua devozione da ogni aggiuntiva incombenza.
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Solo da qualche ora si è alzato il vento, ma già abbiamo scordato quando non c’era. Consideriamo che il vento non possa non illividire i tronchi spogli e gelare la luce dei lampioni. I lampioni per metà sono spenti, l’altra metà sembra che insegua dei fuggitivi cui non è dato riparo. Nuvole nere, di sabbia o di moscerini, li oscurano brevemente, non avvertiamo quasi differenza tra il giorno e la sera.
Siamo in due, così come la vittima e il carnefice. Il secondo di noi gioca con il cane dei vicini, gli porta pezzetti di pane intinti nei residui del pasto. Quando rientrano, i vicini sorridono con un certo automatismo, lei borbotta in una lingua zeppa di gutturali scuotendo il codino biondo, mentre lui ci spiega con difficoltà ma amabilmente che il cane non può mangiare fuori orario. Gli danno dei cubetti aromatizzati, gli danno acqua con dentro delle gocce vischiose. Gli spalmano un liquido bruno all’attacco di una zampa, lungo una striscia di pelle piagata.
I giochi che il secondo di noi pretende di imporre al cane fanno da preliminare ai bocconcini: lui accetta di giocare ma con scarso entusiasmo, la sua attenzione si appunta sul cibo e sul ritorno dei proprietari. Non li abbiamo mai incontrati alle docce. E tuttavia paiono sempre freschi, mai una maglietta intrisa, mai una peluria eccessiva. Non alzano la voce. Non litigano. Cucinano nel bungalow con le finestre aperte, sul terrazzino mangiano senza sporcare. Poi lui si carica le stoviglie ai lavatoi, se incontra qualcuno scambia qualche battuta ardua ma cordiale, conosce quasi tutti. Pensiamo che sia per via del cane.
Il secondo di noi tiene il conto delle carezze impartite dai passanti, anche sommersi di panni da lavare, anche in accappatoio e coi capelli bagnati, nel corso di sbiaditi pomeriggi. Quelle rivolte al cane o al padrone dai frequentatori del camping sono le sole parole che sentiamo, e sempre in tono basso. Tra di loro i vicini non pronunciano che frasi sporadiche, di cui nemmeno comprendiamo il senso, lei a volte accompagna una sillaba con un gesto delle dita. Capita pure che si accosti all’uomo quando riempie il suo piatto, allora le si vede un tratto profondo di pelle, noi percepiamo un sentore che viene da tanto tempo fa, ed è così languido e opprimente che dobbiamo chiuderci dentro a occhi chiusi.
Di notte il vento si snoda simile a un interminabile dolore. Lo immaginiamo penetrare tra le assi schiodate, sotto gli infissi, non ci opponiamo al pensiero di ciò che smuove nei bungalow accanto al nostro. Solamente ci sforziamo di rimanere immobili. In qualche caso il secondo di noi singhiozza piano, allora gli diamo un fazzoletto perché possa asciugarsi.
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Pure se il silenzio è uno, di notte ne cogliamo tonalità variegate, inesauribili in numero e sfumature. Il silenzio che persiste nell’intercapedine tra le pareti esterne degli alloggi ha natura di vibrazione, proviene da un movimento così regolare e incessante da rasentare l’immobilità. Tremiamo nel sentirlo.
Siamo in tre in questo sconsiderato rifugio, dato che un aguzzino tende fatalmente alla replica. Il terzo di noi provvede alla cucina e ad una pulizia che non giova, specialmente perché ci rammenta la pulizia innata dei vicini. Il cane ultimamente appare fiacco, ha smesso di compiacere il secondo di noi nei giochetti, mangia di meno e con minore ingordigia. I campeggiatori sono sempre più rari. Ora le tende sono diminuite al punto che il panorama include la base del traliccio elettrico, che prima non vedevamo, e che schiaccia il peso congiunto dei massi di pietra e del ferro. Non significa nulla, però ci fa male guardarla.
Il terzo di noi ha assistito a un congiungimento della coppia. Salva una certa attitudine a soffrire, fa male anche quello, a guardarlo. Prevedibilmente, i loro incontri sono fatti di tocchi rigorosi, di movimenti asciutti, non sudano, non emettono che pochi sospiri controllati. La scansione dei tempi è progressiva, e presumibilmente appagante. I loro corpi mostrano peli radi, che non si staccano a deturpare le lenzuola. Quello che non abbiamo avuto modo di appurare è se in tali occasioni il cane viene lasciato nella stanza. Se è così, se ne sta probabilmente accucciato presso un fianco del letto, inerte ai colpi che non lo scuotono dalla sua atonia.
Quando hanno terminato si occupano di lui. Uno dei due lo accompagna in una passeggiata da cui ritorna ogni volta più stanco. Beve piano, scodinzola debolmente. Al terzo di noi è venuto il sospetto che allunghino ogni volta di un po’ la passeggiata. Di queste crudeltà abbiamo pratica. Fatto sta che il cane non gioca più con nessuno, a chi gli liscia il pelo rivolge appena un’occhiata e si rimette giù steso.
Ogni giorno fa scuro più presto, il blocco uniforme della sera adegua il nostro rimorso al transito dei nuvoloni e dei pochi ospiti che si affrettano non comprendiamo dove né perché. Vagano intorno spossati, hanno palpebre arrossate dai fumi e itinerari girovaghi. Ora che siamo in cinque qui dentro, nella proporzione che si instaura in un carcere tra prigionieri e custode, osserviamo i loro vestiti ogni giorno più lisi, analoghi alla magrezza che non riescono a occultare. Osserviamo pure i grumi freddi dietro le nuche o sulle tempie, dove più duri picchiano solitamente i manganelli.
Il quarto e il quinto di noi dormono insieme, si abbracciano in una comune convulsione, è possibile che sognino di quando il cane uggiolava a ciascuna carezza. Solamente per i due stranieri la dimensione semplificata del campeggio seguita a restare fissa sui pasti, su una detersione personale tuttora misteriosa e sulle cure che di continuo ostentano di prodigare al loro animale. Adesso sta quasi tutto il tempo disteso, non mangia quasi più nulla. Gli praticano delle iniezioni cui non dà nessun segno di reagire. Quelli non hanno smesso di sorridere. Senza esibirla espongono una pelle soda, dietro abiti casuali ma avvolgenti. Sorridono ancora, mentre al cane disinfettano le ulcere.
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Il quarto di noi ha la febbre, forse perché è rimasto fuori stanotte. Gironzolava intorno alla casa vicina, deve avere cercato di guardare all’interno. Il cane lo ha ignorato. Un altro di noi ha provato a domandare alla donna qualche medicina, lei faceva un’aria smarrita, poi ci ha portato del sapone liquido. Nel metterlo sul davanzale abbiamo visto il suo polso, il suo avambraccio rotondo. Così abbiamo deciso di digiunare per tutta la giornata, di starcene in veranda con una coperta addosso.
Il cane non apre quasi più gli occhi. Ha il pelo intirizzito, le chiazze di disinfettante gli si sono rapprese dappertutto. Ci sembra di condividere la sua agonia, quando è uscito l’uomo con le pentole ha appena allargato le narici. L’uomo ci ha salutato affabilmente ed è sparito.
Più tardi è venuto il titolare del campeggio. E’ un vecchietto senza capelli che si sposta in bicicletta, è possibile individuarlo dal cigolio dei pedali. Era un po’ affaticato, ansimando ci ha informato che da giovedì prossimo la struttura chiude. Senza aggiungere altro è andato via. Siamo rimasti seduti, ma confessiamo di avere fatto uno sforzo per non metterci a seguirlo. Ai vicini non ha detto niente, né ha accarezzato il cane. Le ruote della bicicletta hanno traballato fino a un cumulo di rami spezzati, non immaginiamo il motivo per cui vengono accatastati in quel modo. L’ultimo gruppo di frequentatori si stava avviando a testa in giù verso l’uscita. Quando non c’è stato più nulla in movimento, abbiamo percepito il respiro aritmico del cane.
Siamo in undici in questo villino inospitale, poiché a nessun persecutore è concesso di rimanere da solo. L’ottavo di noi soffre d’asma, la sua respirazione si sovrappone a quella della bestia, ci impedisce anche un minimo di sonno. Da uno soltanto degli ultimi due bungalow occupati trapela un poco di luce, a indicare che è notte.
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Ci laviamo di frequente usando il sapone liquido della ragazza. Le mani, il collo, a volte le pieghe dell’inguine. E’ un flacone azzurro, intonato al pullover con cui di solito spalanca le finestre al mattino. E’ pure quello un gesto che ferisce la memoria. Non riusciamo a stare per molto senza pulirci. Tuttavia ci preoccupa la quantità limitata del sapone, che scema miseramente a ogni lavaggio. Per fortuna siamo soltanto in tre, nel nostro angusto rifugio.
In bagno facciamo turni comodi, la dose a disposizione di ognuno tutto sommato è accettabile. Il terzo di noi riesce a lavarsi anche i piedi. Dividiamo il tempo che rimane tra l’osservazione del cane e la conta delle nostre colpe. Due operazioni retrospettive ed inutili: alla colpa non è data espiazione, ed il cane è già morto. Si trattava, dice il secondo di noi, di un testimone: addestrato per scrutare tutto, soppresso perché non riveli nulla. Il male cui siamo propensi ci fa ritenere che i vicini lo abbiano coscientemente avvelenato, è plausibile con quelle viscide fialette, così simili al contenuto del flacone.
Sta lì lungo per terra come prima, non sbuffa, il vento gli arruffa il pelo in piccoli intrichi nodosi. Domani è giovedì, per una concordanza inquietante la bottiglietta azzurra è quasi vuota. Non ci chiediamo dove andranno a stare, come tratteranno il cadavere per poterlo trasportare, né dove andremo noi. I lampioni ora si accendono prestissimo, la luce bianca investe di silenzio tutta l’area, di cui non si vede più la recinzione. Ciò di cui dubitiamo è se le loro infamie basteranno ad alleviare le nostre.
Il terzo di noi non si alza più dalla sedia. Rimane lì a occhi stretti e pare che non respiri, ci aspettiamo che il vento gli intrichi fra i capelli piccoli nodi arruffati. Devono tenersi anche loro al riparo delle finestre, spiano la nostra inerzia già assuefatti a quella del cane, probabilmente sgranocchiano biscotti senza lasciar sfuggire una briciola. Da subito siamo stati consapevoli della loro inflessibilità. Dato che, se il cane era un teste, essi non possono essere che giudici. Domani è giovedì, passeremo la notte in veranda, senza osservare e senza respirare, esposti al loro controllo. A una certa ora ci volgeremo verso il loro abitacolo, aspetteremo che la febbre ci salga e che si spenga la luce.
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Immobili sulla panca qui fuori, assistiamo alla partenza della coppia. C’è una foschia bruna, il consueto maglione di lei ci è sembrato macchiato. Caricando il furgone usavano gesti misurati, si scambiavano frasi indifferenti alla nostra sorveglianza. Abbiamo ritenuto che fosse l’equivalente di un bacio, o di un resoconto segreto. La piscina cade ancora nel nostro campo visivo, ma è ormai lontanissima. Abbiamo dovuto constatare che tutto si è dilatato, i tralicci si perdono simili a escursionisti nella nebbia.
Quando sono stati pronti non hanno fatto che montare su ed avviarsi, il sibilo delle gomme ha tagliato il campeggio isolando il nostro villino all’abbandono. Li vedevamo ancora, da una distanza che ignoriamo se misuri la nostra condanna oppure sia la condanna. Uno di noi gemeva, come per una sofferenza che non è chiaro se è già iniziata e se avrà fine.
Le nostre teste sono rimaste rigide, non possiamo altro che ruotare i globi oculari emettendo qualche lamento fioco. Nell’angolo più estremo del campo visivo abbiamo scorto il furgone arrestarsi e lasciarsi avvicinare da un’auto. Sul portabagagli c’era una bicicletta, dentro il padrone calvo. Lui e il nostro ex vicino sono scesi a scambiarsi qualcosa, forse delle chiavi, uno di noi ha urlato poi sono andati via tutti. Della cancellata che delimita il campeggio, se c’è, avvertiamo la costrizione blanda, tutto sommato superflua. Mai come adesso la miseria del posto ha costituito, più che rispecchiare, il peccato. Siamo venuti per questo. Ciascun albero è la putrefazione di se stesso, e in ogni zolla risiede la sostanza di un’anima rinsecchita. Ci è negato di dare un’occhiata ancora al cane, al corpo infossato nel terriccio, trafitto dal pentimento e dalla ghiaia, e che è al contempo l’ultima nostra vittima ed il boia.
Ci appare, ora, penosamente chiaro l’uso dei rami accatastati: è tale il senso di una palizzata, o di un falò. E’ chiaro pure che, oltre al cane e a quei due (tre, col proprietario), il camping stesso ci ha riconosciuti. E’ destinato a permanere, può darsi, o a imputridire col resto. Anche se, con il freddo che già sopraggiunge, qualsiasi macerazione andrà a rilento.
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Diminuiscono i giorni a disposizione per la permanenza e in folla si assiepano sempre più le colpe nel nostro corpo baraccato.
Un impossibile trapianto dell’encefalo potrebbe, forse, sterilizzarle.
Invece ci offrono del sapone liquido. L’unico innocente muore sempre con una catena al collo, mentre assistiamo alla dipartita dei nostri rimpianti. Neanche il favore di qualcuno che ci stacca la spina.
Bè, sì. Bello e possibile, nichilista a pieni voti.
L’ho visto così.
Bello e concordo con Plessus “Nikilista”. Un saluto Niki/Paolo.
c’è un passaggio in Ritratto in piedi di Gianna Manzini che parla di un cane e di una catena. di quanto una bambina abbia protestato per sciogliere la catena e di quanto il cane, a collo libero, sia rimasto dov’era.
ecco perché io mi faccio puntuta quando leggo di cani e catene.
questo racconto pare una pellicola senza sonoro e a velocità rallentata, tagliente e suadente. mi ha tramortito. tempo dilatato, pilastri immanenti e la piscina che forse è solo una lontana pozzanghera.
bello e attonito. e forse la tristezza e solo mia.
bravo sperandio.
Racconto bellissimo.
P.s.
C’è una breve narrazione di W. Hilbig, Il sonno dei giusti, contenuto nel prossimo numero di SUD, che forse dialoga a distanza con Sperandio.
Pochi hanno il dono di una scrittura avvincente, che gli permette di parlare di tutto con efficacia, il dono della genialità nel trovare le parole esatte per comporre frasi essenziali. Bella la storia-metafora di un’umanità spersonalizzata, volgare e abietta condannata a marcire e forse immeritevole di salvezza? Ok, bella. Ma che dire della scrittura magistrale che la racconta? (che non ce n’è tanta in giro).
L’obliquità, appunto, la visione laterale, la prospettiva sfalsata. Spostando l’angolo visuale si accetta di spostare se stessi, di incontrare un sé e un mondo diversi: dietro la realtà c’è un’altra, più sfuggente realtà. E’ lusinghiero che non manchi chi condivide ed apprezza questo rischio: grazie a tutti i lettori. Di quello che questo racconto riesce (se vi riesce) a trasmettere, la responsabilità è di Orsola Puecher quanto mia. Ad Orsola sono sinceramente grato, di questo e di tutto ciò che fa.
Scrivere e leggere è quasi, dico quasi, sempre condividere ed apprezzare e quindi accettare un rischio. Scambiare ioni. Nella attuale stanchezza di parola per troppe parole forse è proprio questo il senso che spinge a scrivere e leggere ancora.
Grazie della gratitudine, ovviamente.
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