l’uomo che forse faceva finta di dormire (1/2)

di Marino Magliani

Marino_Mannenafdeling, jaren '20 of '30

 

 

 

 

 

 

Il 29 dicembre scorso ho fatto una piccola vacanza nella regione della Gheldria, che si trova al centro dell’Olanda, ai confini con la Germania. L’albergo dove ho alloggiato si chiama Ehzerwold, è situato ai margini del villaggio di Almen, ed è immerso nei boschi e nei campi. Alla signorina che mi ha accolto ho chiesto qualche informazione. Lei mi ha invitato a uscire e mi ha mostrato la vecchia scritta di ceramica sulla facciata di mattoni, sopra il portone centrale. Ziekenhuis P.W. Janssen. Ziekenhuis naturalmente significa ospedale. La signorina mi ha fatto notare alcuni foretti e chiodini. Ai tempi in cui era un sanatorio, sopra la scritta Ziekenhuis c’erano appesi vasi di fiori, piccoli rampicanti, per nascondere che si trattava di un ospedale. Il luogo doveva sembrare piuttosto una casa di convalescenza e riposo, e in effetti lo era, anche se contava su una sala raggi, l’infermeria specializzata, e i malati soffrivano tutti quanti di tubercolosi. Dentro il salone, su un paio di muri, ci sono parecchie foto che ricordano ciò che è stato il luogo. Una mostra il porticato dove mi trovo, ora ci sono file di tavoli fino all’ultima arcata, mentre una volta era una riga di lettini con i pazienti. Con me, davanti alla foto, si è fermata la signorina che mi sta accompagnando alle camere. Che ora sarà stata, chiedo. È l’ora dell’aria buona, dice la signorina, i pazienti se ne stavano qui distesi a respirare, come predisponeva la cura del dottor P.W. Janssen. Ho capito, signorina, ma che ora sarà, dopopranzo, mattina? La signorina non ne ha proprio idea.

Riprendiamo a camminare sotto le arcate, poi usciamo nel parco e imbocchiamo un sentiero che da solo mi sarei perso. Poso la borsa sulla sedia, tiro fuori le poche cose e i quattro libri che mi sono portato e ho già iniziato a leggere sul treno. Faccio le cose che si fanno quando si entra in camera in albergo. In ordine: provo il letto, guardo il bagno, la tv funziona, mi accerto che nell’armadio ci sia il cuscino extra, tiro la tendina e guardo fuori. Fa presto buio e io devo ancora camminare almeno un’ora nel bosco per non sprecare la giornata. Ho tutto, la torcia elettrica, la giacca col cappuccio, doppio berretto, guanti. Il sentiero costeggia un campo di patate, poi ne attraversa uno appena arato, poi un antico ponticello di ferro e legno passa sopra un canale, e in quel mentre il campetto appresso si popola di anatre che planano tra me e i residui del tramonto. Oltre la radura ci sono un paio di pagliai e si entra nel bosco. Ogni tanto incrocio qualche camminatore e ci restituiamo un saluto muto, la specie di mezzo inchino pattuito tra chi ha deciso che nel bosco non si debba parlare. Ma io, che provengo da mesi di silenzio, qualcosa, qualsiasi cosa, anche se in nederlandese, la scambierei volentieri. C’è un piccolo cimitero, mi fermo di qua del recinto, e mi segno. Le lapidi sono tutte del secolo scorso minimo, alcune fasciate dal muschio. Fa buio.

Cayo Antonio Flovo, alle Ninfe.

Non lo vedo scritto da nessuna parte, ma mi viene in mente perché da qualche parte ho letto che i Romani sono stati qui, e gli anni scorsi un archeologo ha trovato delle tombe. Cocci. Muri. Cosa c’entrano tuttavia i cimiteri del Nord con le acqueforti galiziane di Roberto Arlt? Forse i boschi associano rovine. E poi c’è quella fotografia, i lettini e la morte dei pazienti. Nell’ottobre del ’35 Arlt visita i sepolcri pagani e cattolici di Compostela. Sulla tomba di un militare romano ha letto: Cayo Antonio Flovo, alle Ninfe. Il giorno stesso Arlt scrive l’acquaforte per El Mundo. Si chiede chi è Cayo? Un giovane ufficiale, un patrizio? Anche la foto coi pazienti è datata 1935.

Al rientro le papere si svegliano e mi insultano, fanno finta di alzarsi e appena passo tornano a planare sull’erba. Dal canale sale un freddo di vapori, acque separate da scie di argento, alle cui estremità lontane vanno un paio di gallinelle disturbate. Si alzano in un volo a mezz’aria verso il punto in cui poco fa moriva il sole.

La doccia è calda, e l’abitacolo non chiuso da una tenda o da una vetrata, se non per i tre lati, mi mette a disagio, perché ho sempre paura di bagnare il pavimento. Su un cartello accanto allo specchio c’è scritto che se il cliente non cambia gli asciugamani ogni giorno contribuisce alla cura dell’ambiente e riceve un caffè gratis. Occorre ritirare il gettone alla Receptie. Anche se non ci si fa rifare la camera ogni giorno c’è un doppio buono per il caffè. Il caffè olandese mi piace. Ho prenotato col Vakantie Veilingen, l’asta delle vacanze, immagino esista anche in Italia, vendono mini-pacchetti a prezzi stracciati, io per i due giorni ho pagato 36 euro, colazione compresa.

Mi infilo sotto il piumone. Occhiali, libri sul comodino. Taccuino per appuntare qualche parola e la biro sul letto.

Neve, cane, piede. L’autore è Claudio Morandini. L’editore Exorma. In effetti è un libro di orme lasciate da un vecchio sulla neve. Sono belli i libri di personaggi anziani che abitano luoghi sperduti e selvaggi: montagne, gole, boschi. Questi uomini col tempo diventano saggi, ti raccontano le cose senza forzare, senza spiegarti la vita, ti parlano di albe ancora buie fuori del loro rifugio, di tempi morti in attesa della luce, e della vita che passa e delle domande e anche delle consolazioni. Anche di quelle. Nella vita è successo loro di tutto, come al vecchio Tönle di Rigoni Stern, o ai vecchi mineralizzati e soli di Biamonti. Anche al vecchio Adelmo Farandola di Morandini è successo di tutto, i cavi elettrici da scorrere da bambini perché è il gioco del coraggio e poi le scariche dei cavi elettrici che devastano popolazioni, e poi la solitudine. Ma Adelmo Farandola non assomiglia ai vecchi saggi montanari, coraggiosi e malinconici, della nostra letteratura. E questo non è perché Adelmo Farandola si possa dire speciale, ma solo per un fatto: Adelmo Farandola è impazzito.

Adelmo è un vecchio puzzolente che non sa neanche più che la settimana scorsa è sceso in paese per provviste e quando ci torna, in negozio, tengono le porte aperte. Adelmo Farandola picchia le bestie e le uccide, parla con un cane e gli dà la parola perché non ha neanche un cane cui parlare. Ogni tanto gli tira un calcio nel costato. Adelmo potrebbe essere diventato un assassino. Vive monitorato da un guardiaboschi. Morandini non ci racconta la luce delle montagne, non ci mostra la montagna di Cezanne, ma quella che esplode dall’interno, quella che si vedrebbe da dentro, e allora da dentro scopriamo cose inedite, o impensabili, la sorpresa è lo stupendo giallo del muretto della veduta di Delft di Vermeer, davanti al quale Bergotte di Proust è riuscito a morire. Adelmo ci racconta l’interno della sua baracca, la lingua muta della montagna, il catalogo degli scricchiolii, il mondo di fuori guardato dal dentro, davanti al quale Adelmo non è riuscito a morire, ma è impazzito per sempre.

L’altro libro è Humus, ma dovrei alzarmi, andare a chiedere a che ora si cena. Sottotitolo Diario di terra. L’autrice si chiama Bianca Bonavita. Non so altro di lei. L’editore è Pentagora, una piccola casa ligure che progetta libri sulla terra, sostanzialmente di terra. Ha pubblicato i racconti splendidi di Zena Roncada sui margini e gli argini del Po, le montagne e i lupi di Giacomo Revelli, e narratori di vernici e motocarri come Alessandro Marenco e Renato Bergonzi. E ora Humus. Storia di una terra divisa in sei blocchi. Terra, autunno, inverno, primavera, estate e di nuovo terra. La protagonista racconta la vita nei campi, le pianure e le colline emiliane, le semine, le raccolte. <<Un diario di terra è ciò scrivo. Null’altro…>> .

Ho telefonato per chiedere gli orari del ristorante. C’è un servizio buffet aperto fino alle dieci e trenta. Costa 27 euro. Non me lo posso permettere. O sì? Forse riesco ancora a rimediare un panino o una zuppa. Ma non mi alzo. Dopo Morandini, Humus ti consola, è come passeggiare con Walser ma essere minuscoli, non superare l’altezza delle piante di patate e vivere là sotto con l’io narrante e farsi raccontare che si può sparire sulla terra, prima di sparirci. Ma la consolazione dura poco, fin quando non entra in scena il Grande Pescatore, anche Humus a quel punto finisce per raccontare la follia umana, la desolazione.

Confini senza frontiere, è di Giacomo Revelli, l’editore si chiama Ultima spiaggia, pubblica cose che riguardano l’isoletta di Ventotene. Lo sto leggendo perché seguo Revelli da tempo. Quando sento parlare di confine e frontiera mi viene in mente il povero Giorgio Bertone (la parola povero tradisce la data di trascrizione di queste righe: primi giorni di gennaio del 2016): il dentro o fuori o la zona pulsante e vasta che prende una terra di qua e di là. Anche Revelli ci racconta un mondo, in questo caso la Ventotene isola-carcere ai tempi del Ventennio, vista da dentro. A un giornalista, Amedeo Dalmasso, viene chiesto di scrivere un reportage. Viene traghettato in mezzo ai confinati, senza sapere che anch’egli è uno di loro, e quando terminato il suo lavoro si appresta a riprendere il traghetto gli viene impedito di allontanarsi dall’isola. Diventa così, a tutti gli effetti, un confinato, e da quel dentro guarda il dentro e il fuori. Il mare e il cibo, le passeggiate proibite e i soprusi, le categorie, anarchici, comunisti, i manciuriani, che sono quelli privi di fede politica ma che possono essere lì per una singola frase contro il fascio. E lui? Lui è K. e passerà tutto il periodo della guerra a cercare la sua colpa. In realtà qualcosa ha commesso, ma non ha mai subìto un processo, e la beffa alla fine sarà di scoprire che neppure quello è il vero motivo per cui egli è rimasto là dentro tutto quel tempo. Mi fermo. Mi alzo, guardo in direzione del bosco. Il cimitero. Ma non si vede. Non si vede niente. Neanche il buio, ciò che ho davanti assomiglia a un muro d’edera. Non ritorno a letto.

Fuori non fa freddo. Ci sono le luci delle fattorie al fondo dei campi, non dalla parte del bosco.

 

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4 Commenti

  1. Io non so se sono il solo ad apprezzare questo tipo di storie. Ho l’impressione di essere rimasto soltanto io a immedesimarmi in queste vite di solitudine. Meno male che c’è Magliani, con la sua capacità di entrare dentro agli stati d’animo e di farli vivere a chi legge. Perché quando si dice qualcosa di importante senza dirlo, anzi, apparentemente parlando d’altro, quello è il segno dell’arte e anche la solitudine della cameretta a buon mercato o del bosco al calar del sole diventano vita, fantasia, meditazione.

  2. Nel suo camminare di notte nel bosco, ha seminato dietro di sè alcuni sassolini che ho riconosciuto appartenere a una mia cosmografia interiore: Rigoni Stern, Biamonti, il Revelli de “Nel tempo dei lupi” che ho amato molto, Dalmasso (cognome della mia nonna materna) ai quali aggiungerei “Quella notte a Dolcedo” , Tiziano Fratus “Ogni albero è un poeta ” e “Lo sguardo del lupo” di Giancarlo Ferron edizioni Biblioteca dell’immagine, quest’ultimo recensito in dicembre da Davide Sapienza su Doppiozero.com.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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