Filippo Tuena racconta i «Memoriali sul caso Schumann»

Memoriali sul caso Schumann01

Esce oggi Memoriali sul caso Schumann (il Saggiatore), il nuovo libro di Filippo Tuena. Ne pubblico un estratto per gentile concessione dell’editore. Lo precede una Lettera sullo stato del romanzo inviata dall’autore.

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LETTERA SULLO STATO DEL ROMANZO
Filippo Tuena

Caro Davide,
la scorsa estate facemmo una chiacchierata al bar della Casa del Cinema a Roma a proposito dello stato del nostro modo d’intendere la parola romanzo. Fu una conversazione teorica, basata su quel che bolliva in pentola, sulla nostra officina privata. A quattro mesi di distanza la teoria è diventata pratica e il mio ‘Memoriali sul caso Schumann’ (il Saggiatore) è in libreria. Dunque torno sull’argomento, perché questo libro è strettamente legato a quei discorsi da caffè che facemmo allora.

Parafrasando Dürrennmatt, ‘Memoriali’ è il mio requiem per il romanzo, inteso come l’ho inteso io negli ultimi quindici anni di lavoro. Chiude il discorso iniziato con ‘La grande ombra’ e proseguito, via via, con ‘Le variazioni Reinach’, ‘Ultimo parallelo’ e ‘Stranieri alla terra’. Ovvero una meditazione sulla narrativa biografica, e la ricostruzione – attraverso i meccanismi della narrazione e lo stile – di figure storiche ed eventi reali. Dopo la follia di Schumann, che qui si rappresenta, non credo che affronterò più questo genere di narrativa. Altre cose mi premono, più personali, autobiografiche, minimali. Dunque con questo libro termino un periodo lungo e, per quel che mi riguarda, fecondo. Ma lo chiudo perché credo d’aver toccato la radice del problema. E, proprio per questo motivo, il libro è molto più feroce e spietato di altri che ho scritto.

‘Memoriali’ è il mio requiem per il romanzo,
inteso come l’ho inteso io negli ultimi quindici anni

In queste pagine si dà voce a sei testimoni del precipizio nel quale scivolò Robert Schumann negli ultimi anni di vita. Come al solito ho lavorato su documenti, testimonianze dirette, ascolti musicali. Credo d’esser andato vicino alla soluzione, d’averla sfiorata, forse inconsapevolmente, forse con determinazione ma, appunto, l’ho sfiorata. Mi accorgo, a fatica terminata, sfogliando il libro fresco di stampa, che neppure le sei voci trovano la soluzione al quesito: perché Schumann si rinchiuse nella follia, e di chi era la responsabilità di quell’evento. In realtà queste voci non trovano comunicazione in alcun modo. Falliscono le situazioni affettive, falliscono le soluzioni artistiche, mancano il bersaglio anche quelle più fantastiche.

Senza rendermene conto mi sono affidato a personaggi che manifestano un’impossibilità affettiva, imperfezioni fisiche e caratteriali o, si potrebbe altrettanto bene dire, il meccanismo affabulatorio ha preteso voci balbettanti, per il ruolo di testimoni.

Questi personaggi imperfetti, incompiuti, reticenti – per impossibilità più che per volontà – informano, comunicano, forniscono al lettore le coordinate, ma non mettono la parola fine alla questione. Né dal punto di vista stilistico, né da quello storico. In breve, focalizzano il problema ma manifestano la loro impotenza.

Da dove nasce questa impotenza? Me lo son chiesto mentre lavoravo all’ultimo memoriale del libro, quello che attribuisco a un Johannes Brahms senile che, seguendo le teorie del suo medico curante, Joseph Breuer, prova a dar libero corso ai suoi ricordi, ai suoi rimorsi. L’ho scritto praticamente di getto e mi sono accorto che era in questo scrivere per associazioni che il libro trovava la sua conclusione formale e una soluzione inaspettata, ancorché parziale. E’ stato lo svolgersi della scrittura a offrirmi uno spiraglio, non la schematicità del genere romanzo.

Del romanzo tradizionale ho rinunciato agli orpelli – in questo libro c’è un solo luogo descritto più volte: il giardino del manicomio di Endenich; pochissimi discorsi diretti; e invece un frequente ricorso al genere epistolare e diaristico o al soliloquio. Dunque, è in questa direzione che sto andando, poiché mi sembra più sincera, più diretta, più efficace. L’estensore di un epistolario conosce perfettamente il destinatario dei suoi scritti. Sa quali sono i suoi punti deboli, sa come colpire, sa come blandire. Il diario o il soliloquio – chiamalo se vuoi monologo interiore – riguardano esclusivamente colui che scrive o che bisbiglia. Rinunciano a spiegare, chiudono la comunicazione col mondo esterno. In cambio, si può procedere nelle profondità. Il lettore può inserirsi in queste pagine, può osservare, ma spesso deve ammettere la propria impotenza quando si parla di cose a lui ignote. Percepisce l’accadere di eventi ‘altri’ ma ne è irrimediabilmente escluso.

Così accade sovente allo scrivente di rendersi conto che non scrive per il lettore ma per il rispetto della pagina, non altro. E quella pagina deve contenere solo quel che serve, non mai tutto quel che lo scrivente sa. Diceva Voltaire – cito a memoria – ‘Vuoi annoiare qualcuno? Raccontagli tutto.’

Il lettore che legge i diari, i memoriali, gli epistolari qui ricostruiti si trova sempre a margine. Nulla gli è veramente spiegato. Ma può ricostruire la sua versione dei fatti, mettendosi in gioco, beninteso.

Questa narrativa procede per sottrazioni; anzi, trae persino origine dalle sottrazioni. In alcuni casi è sottrazione anche dalla sintassi, dal bel periodare. Nei ‘Memoriali’ ce ne sono diversi esempi.

Ora si potrebbe obiettare: se il risultato è non arrivare alla soluzione, hai sbagliato. L’architettura che hai messo su non consente né ai personaggi, né al lettore di soddisfare la propria ricerca di verità.

E se invece fosse proprio questo l’obiettivo finale della scrittura:
NON arrivare alla verità?

Dissento. E se invece fosse proprio questo l’obiettivo finale della scrittura: NON arrivare alla verità e questo libro lo dimostrasse? Che la presa d’atto dell’impotenza e del fallimento fosse una splendida vittoria? La mia formazione di storico d’arte mi porta ad accettare anche questo come un risultato positivo. Ammetto che una soluzione del genere mi appagherebbe, vedrebbe soddisfatte le mie aspirazioni di narratore e magari dimostrerebbe che le privazioni che mi sono imposto nella stesura del libro conducono più in profondità lettore, personaggi ed autore. Toccano il nocciolo della questione.

Tempo fa, in un’altra chiacchierata, pubblica questa, mi venne spontaneo affermare che ‘lo scrittore è uno che rompe le cose’. Più specificatamente, ‘che rompe il romanzo’; più specificatamente ancora, ‘che accosta tra loro i frammenti del romanzo nel quale s’è imbattuto’. Insomma: è uno che spacca le cose per vedere come son fatte e poi racconta questo romperle e cercare di rimetterle assieme.

Ripeto, a cose fatte, mi accorgo che è successo questo. Ed è per questo motivo che il libro termina con uno sberleffo, rivolto a me, più che agli altri artefici della vicenda.

Sarà il lettore a dissentire o condividere la mia analisi, ma con tali premesse è evidente che ‘Memoriali sul caso Schumann’ porta alle conclusioni la mia riflessione sulla scrittura narrativa. Non sul mio scrivere.

Stai bene. Grazie dell’ospitalità.
Filippo

 

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schumann


MEMORIALI SUL CASO SCHUMANN
Johannes Brahms

 

Carissima signorina Leser,

da tempo ricevo lettere appassionate che mi chiedono informazioni circa la triste stagione di Düsseldorf, il mio incontro con Schumann, la reciproca esaltazione e il suo precipizio nella palude orrenda della malattia.

Per molti anni ho conservato gelosamente la memoria di quel tempo, condividendola con l’amatissima Clara e, anche dietro suo suggerimento, ho sempre mantenuto la più grande riservatezza. Ora vedo che quei giorni tornano prepotentemente alla superficie e, nonostante i miei sforzi, finiranno per emergere particolari che preferirei rimanessero nascosti. Il corso degli eventi va in una direzione opposta ai miei desideri e temo grandemente che quei tristi casi saranno maneggiati in maniera impropria da chi volesse immergervisi.

Il vostro memoriale – che mi è giunto pochi giorni dopo il mio rientro qui a Vienna – e la circostanza della malattia di Clara (che soffrirebbe terribilmente del riacutizzarsi di quella ferita) mi convincono a recedere infine dal mio intento di riservatezza e a stilare per voi la mia versione dei fatti. Che essa corrisponda alla verità non so. Ma il mio punto di vista, voi lo sapete, è quanto di più vicino agli eventi, e preferisco svelare segreti per mio conto piuttosto che lasciare siano altri ad arrogarsi questo diritto formulando illazioni o, peggio, pettegolezzi.

Mi trovo in una stagione dell’esistenza nella quale ho smesso di creare e penso piuttosto a correggere gli errori della vita che ho vissuto e della musica che ho composto. Quelli della vita mi sembrano ormai definitivi, privi di possibilità di appello. E dunque esercito il rimorso o poco di più, ed è un contrappasso terribile. Ma la musica ancora mi concede qualche possibilità. Questo desiderio si esplica soprattutto nel particolare, mi verrebbe da dire. Mai più grandi composizioni, mi sono imposto. Mai più orchestre ricche di suono. La voce umana e pochi strumenti. Miro a questo. Se fossi uno scrittore passerei il mio tempo a spostar virgole nelle molte pagine che ho scritto. E anche questa lettera – che presumo sarà lunga – sarà soltanto un migliorare la punteggiatura o, musicalmente, un mettere a posto accidenti e annotazioni di uno spartito assai complesso che è già stato quasi del tutto scritto. Non ho più la forza per esercitarmi con le strutture articolate. Non sopporterei il cimento. E, come dicevo, agli errori commessi, a quelli fatali e definitivi – se si tratta di errori e non di obbedienza al Fato –, non è possibile porre rimedio.

È strano. Sto facendo come lui. Comincio a dedicarmi agli altri. Ho piacere a rendere felici le persone che hanno talento. E cerco di farlo senza commettere errori, quegli errori che hanno segnato il suo tramonto. E forse contagiato anche la mia vanagloria. Ma la gioventù è spietata. Me ne accorgo ora. C’è così tanta energia e a volte è mal indirizzata. Correggo questa stortura, ma quel che è fatto è fatto. Non posso porvi rimedio, voi comprendete? Posso solo spiegare a me, e a voi, quel che è accaduto.

Vi avessi incontrato in questi anni forse avrei avuto il coraggio di dirvelo a voce. Ora mi trovo costretto a scrivere, a mettere in bella il flusso dei pensieri e dei ricordi. Ed è cosa dolorosa, immagino lo sappiate.

Ecco, poco sopra ho appena sfiorato l’ombra cupa sotto la quale vi scrivo. La malattia di Clara. Lo sapete, è il colpo apoplettico che l’ha ferita poche settimane fa e che, dati gli strapazzi della sua vita, le sofferenze e le ansie e i lutti, difficilmente riuscirà a superare. È nell’anticamera della morte. Non posso non accennarvi, anche se m’ero ripromesso di non parlarne, di non scriverne, tanto è il dolore che m’accompagna costantemente. Ma forse proprio per questa consuetudine costante è riapparso qui, dove l’argomento è piuttosto Robert o, meglio ancora, io visto da Robert o, se volete, Robert visto da me. Ma è certo che da qualunque parte la osserviate, la questione fu nelle mani di Clara. Fu lei a disporre i contendenti – perché uso questa parola agonistica? Molto s’è detto circa la sua apparente fuga dalle responsabilità. L’aver abbandonato Robert, l’aver abbandonato Ludwig, l’aver sovente lasciato i figli per seguire le sue tournée, i suoi impegni musicali. Posso assicurarvi che ha sofferto questi abbandoni in maniera terribile: non voleva nascondere il viso alle difficoltà, ma pensava di poter essere di maggior aiuto altrove che non accanto a loro. Ha esercitato una dolorosa volontà; credo abbia percepito il suo affetto come pernicioso e s’è risolta a tante privazioni per non aumentare il peso degli addii che inesorabilmente avrebbe dovuto affrontare, procurando dolore a sé e ai suoi cari. Altrettanta inflessibilità ha mantenuto nel silenzio circa i suoi casi più dolorosi – e voi l’avete sperimentato anche di recente.

Uno degli ultimi atti che ha compiuto è stato quello di distruggere. Mi riferisco agli ultimi brani per violoncello e pianoforte composti da Robert. Io li ho letti. E ne ho parlato a lungo con lei. Per certi versi concordo con la sua decisione, per altri me ne rammarico. È musica disarticolata. Priva di eleganza, sprezzante, violenta. Ma che altra musica avrebbe potuto scrivere nelle condizioni in cui si trovava, sull’orlo del baratro nel quale precipitò? So che Clara avrebbe voluto stracciare anche il concerto per violino scritto per Joachim, (nel secondo movimento appariva, seppur brevemente, quel tema) ma la partitura era nelle mani del violinista e Joachim, per quanto richiesto, s’è sempre rifiutato di consegnarla. So che non ha mai eseguito in pubblico quel concerto – salvo le due esecuzioni che fece allora per gli Schumann – ma dubito che lo distruggerà. Manterrà l’impegno che s’è preso con lei – ero presente io stesso – nel non eseguirlo, ma non lo distruggerà. Parlai della questione più recentemente con lei e con la figlia Eugenie, e Clara fu categorica: il concerto non dovrà mai essere pubblicato. Tuttavia è probabile che prima o poi qualche filologo finirà per riesumarlo. Forse per i nostri anni e per il nostro senso dell’equilibrio è un concerto irrisolto, ma non dubito che nel tempo a venire troverà la sua giustificazione e che gli ascoltatori del futuro sapranno apprezzarlo.

E poi, alla mia età e con la mia esperienza comincio a credere che un artista giunto a un certo punto del proprio percorso debba anche considerare l’opportunità di mandare in frantumi la bella forma. Anche soltanto per arrivare al cospetto del problema, alla sua radice. Non sto forse facendo lo stesso in queste righe? Vorrei portare in superficie il meccanismo che ha annientato il nostro amico e posso farlo soltanto rompendo la maschera che lo nasconde. Foss’anche la mia.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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