Una rosa incendiata alla fiamma della forma.

( una lettura del testo inaugurale dell’Inferno minore di Claudia Ruggeri)

di Giovanni Palmieri

Marie_Spartali_Stillman_-_Beatrice_(1895)

Abstract

 

Poesia d’apertura della raccolta Inferno minore, il Matto I (del buco in figura) Beatrice è un ermetico manifesto della nuova poetica inaugurata da Claudia Ruggeri proprio con questa poesia. Il nuovo stile si mostra qui per la prima volta celebrando se stesso e giustificandosi in forma di barocca apoteosi. Si tratta, però, di un “manifesto” in cui è obbligatorio leggere, sovrainciso e cifrato, anche il decisivo discorso del male e del dolore di chi scrive. Leggiamo infatti subito che è dalla “dispersione” di questo male profondo che nasce la nuova maniera poetica e solo il male, giunto al culmine, potrà rendere al poeta la sua “rosa”…

Del resto se un poeta – come è occorso alla Ruggeri – si identifica (o è venuto identificandosi) totalmente nel suo scrivere, se tra sé e il tempo ha messo una barriera di libri e quaderni, parlare di se stessi e parlare della propria poesia nel testo poetico diventano la stessa cosa. Invocare allora sic et simpliciter la consueta nozione di metapoesia è certamente un errore.

La figura dedicataria del testo è, non a caso, la Beatrice del Purgatorio, cioè colei che agli occhi di Dante ha superato la prima Beatrice, quella stilnovistica. Dunque nel Matto I il livello poetico e quello metapoetico s’intrecciano in modo indirimibile come le facce del nastro di Möbius, venendo a costituire due piani che il critico, per virtù esegetica, dovrà distinguere nella loro simbiosi isotopica, ma che il lettore dovrà infine riunire… dimenticando il critico. Ma questo, il lettore, dovrebbe sempre farlo.

 

 

Il testo

 

il Matto I (del buco in figura)
Beatrice[1]

 

“vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa…” (Pg. XXX-64)

 

come se avesse un male a disperdersi
a volte torna, a tratti
ridiscende a mostra, dalla caverna risorge
dal settentrion, e scaccia
per la capienza d’ogni nome (e più distratto                                    5
ché sempre più semplice si segna ai teatri,
che tace per rima certe parole…).
Ma è soprattutto a vetta, quando buca,
dove mette la tenda e la veglia
tra noi e l’accusa, se ci rende la rosa                                               10
quando ormai tutto è diverso che fu
il naso amato l’intenzione, che era
la pazienza delle stazioni e la rivolta… e la beccaccia
sta e sta sforma il destino desta l’attacco l’ingresso disserta
la Donna che entra e fa divino ed una luce forsennata                    15
e nuda, e la mente s’ammuta ne la cima
e la distanza è sette volte semplice e il diavolo
dell’apertura; ecco, chiediti, come il pensiero sia colpa

 

ma cammina cammina il Matto sceglie voce
sa voce, e sempre più semplice chiama, dove l’immagine              20
si plachi sul tappeto, se dura, se pure trattiene
stranieri nuovi e quanto altro
s’inoltrerà nella carta fughe falaschi lussi
Ordine innanzi tutto o la necessaria Evidenza che si di
verte nella memoria al margine ambulante alla soglia                    25
acrobata, che si consuma; ché infine
veramente il Carro
avanza, che sia sponda manca porge
il volto antico, che si commette (non la cosa
è mutata ma il suo chiarore; ma a voi che vale,                              30
come si conclude la Figura
dove pare e non usa parole né gesti né impulsi;
come, smisurata, passa, dove l’altro richiamo
nel viluppo della palude festina; e come
per tutto si slarga e frastorna e nulla è mite                                    35

 

(ma voi li turereste mai li nostri fori ?)

 

 

Il soggetti grammaticali e logici del testo

 

I primi due versi della poesia presentano un’ingannevole anastrofe, cioè una figura retorica tipicamente barocca molto amata dalla Ruggeri. Bisognerà perciò leggere: “come se avesse a disperdersi, un male a volte torna”, con “male” soggetto e anticipazione sintattica. Non c’è dunque alcun “lei”, soggetto sottinteso del verbo “avesse” come sembra ad una prima lettura. Il “male” rimane soggetto sottinteso sino al v. 10. Si tratta di un inganno retorico che, però, cela la verità: è infatti davvero il poeta che è vittima d’un male che ritorna… ecc. Per nessuno come per Claudia Ruggeri, del resto, valgono i celebri versi dell’Autopsicografia di Pessoa:

 

Il poeta è un fingitore.

Finge così completamente

che arriva a fingere anche

il dolore che veramente sente.[2]

 

Al v. 10 compare per la prima volta come soggetto logico l’autore in terza persona (“tra noi e l’accusa, se ci rende”). Compare cioè la voce narrante, da identificarsi in chi scrive, che ritroveremo in dialogo col lettore al v. 18 (“chiediti”) e poi ai vv. 30 (“a voi”) e 36 (“voi”) dove il lettore diventa collettivo.

Altri soggetti logici o grammaticali, tra quelli animati e semanticamente decisivi, sono poi “la beccaccia” (v. 13) e la “Donna”.  Un simbolo, la prima, e un’allegoria, la seconda, da identificarsi entrambi nella nuova maniera poetica.

Alla fine della prima strofa compare “il Matto” (v. 19), la carta dei tarocchi simbolo in questo caso del destino incognito e imprevedibile che può assumere tutte le forme. Auspicio o speranza.

 

Il male e lo stile

 

Nei versi d’esordio si può leggere che per disperdersi, cioè per attenuare i suoi effetti perniciosi, un male talvolta ritorna per mostrarsi (in poesia). Ma “a mostra” vale anche latinamente “per prodigi” e “a tratti” è in evidente simmetria paronomastica col successivo “a mostra”. Il male risorge da dove era stato sepolto (la “caverna”, voce dantesca con significato freudiano) grazie ad una luminosa guida celeste. Con “settentrion” (septmen triones) Dante intende infatti (Pg, XXX, 1-sgg) l’insieme dei sette candelabri che aprono la processione sacra che introdurrà Beatrice. I candelabri hanno però anche il valore simbolico della costellazione guida dell’Empireo: le sette stelle dell’Orsa.

Questo male, convertito e disperso catarticamente in un nuovo stile poetico, respinge da sé (“scaccia”) i lettori per eccesso di polisemia (“capienza d’ogni nome”). Claudia Ruggeri era ben consapevole del proprio ermetismo e certamente doveva soffrire per le accuse d’illeggibilità che le venivano mosse da più parti. Il fatto, poi, che spesso recitasse i propri testi a teatro spiega i versi successivi in parentesi: il male poetico/stile viene spesso vòlto ad altro uso (“distratto”) e si semplifica maggiormente quando viene messo in scena dove il gesto e il tono vocale possono aiutare la comprensione del senso. Curatissima come sempre la tessitura sonora: segnalo solo l’assonanza triadica tra “sempre“, “semplice” e “segna” (v. 6).

Che poi questo stile taccia certe parole, fa riferimento alle frequenti ellissi che la Ruggeri segnala graficamente nei suoi testi con evidenti spazi bianchi. La nota d’autore riferita a questi “blank” testuali recita: “Nella Vita Nuova Amore dice a Dante: ‘Voglio che tu dichi certe parole per rima, … come tu fosti suo tostamente da la puerizia’.”[3]

Dunque quello che Dante afferma di dover dire per volere di Amore dittatore è proprio ciò che la Ruggeri, con spostamento semantico metapoetico, tace. Non dice cioè che sin dalla prima giovinezza le era appartenuto quel nuovo stile (ma pure quel male!) che solo ora si è pienamente manifestato. Ciò viene confermato anche dall’epigrafe dantesca preposta al testo che fuori dal significato allegorico prestatogli significa tel quel: adesso mi appare chiaramente quella maniera poetica (la “donna”) che m’era apparsa anche prima ma soltanto velata…

 

Il male, il vertice e la Donna

 

Il male/stile si manifesta (“è”) soprattutto al suo culmine, quando sfora, dove si accampa come nomade solitario (non si accasa) e dove mantiene viva l’accusa (di illeggibilità) rivolta all’io narrante (vv. 8-10). Ma si manifesta solo “se” effettivamente restituisce al poeta la “rosa”, cioè il massimo esito poetico. Dopo “tenda” (v. 9) si trova la seguente nota d’autore: “E Dio più volte nella Bibbia ‘si attenda’ sulla terra”. Effettivamente nel Libro secondo di Samuele (VII, 5-6), rivolto al profeta Natan e in merito al progetto di re David di costruire un tempio, Dio afferma: “Non ho certo abitato in una casa dal tempo in cui feci uscire i figli d’Israele dall’Egitto sino al giorno d’oggi. Invece sono andato sempre errando sotto una tenda e sotto un padiglione”.

Del resto tutto è ormai cambiato nella vita di chi scrive: l’uomo amato (il “naso” sarà il simbolo freudiano del fallo e poi per metonimia l’uomo), il desiderio di fuga, la coazione ai viaggi compulsivi (“la pazienza delle stazioni”) e lo spirito di “rivolta” (vv. 10-13). Tutti temi della passata maniera poetica… va osservato.

Si notino le antitesi baroccheggianti quali “vetta” vs “buca” ed “è” vs “fu”. In felice rapporto paronomastico “tenda”, “veglia” e “rende”. E poi “intenzione” e “stazioni” in quasi rima interna.

In seguito (vv. 13-18) i nuovi soggetti, che però tendono ad identificarsi, sono la “beccaccia” e la “Donna”. In antitesi verbale – a distinguere il passato dal presente – “era” (v. 12) e “sta” (v. 14). Quest’ultimo verbo reiterato per significare la definitiva fissazione d’un orizzonte poetico. La beccaccia, che sa penetrare il terreno in cerca di cibo sino al punto di dilatare il becco anche sotto terra, sarà qui l’emblema, il simbolo, del nuovo stile che sa scavare sino a raggiungere le più assolute profondità. Ecco che il “buco” diventa allegoria della vetta poetica, del vertice artistico.

La beccaccia, cioè la nuova maniera poetica, è anche in grado di opporsi al destino (“sforma”) e risvegliare così un nuovo inizio (“attacco”), o l’inizio di una nuova vita, mentre la Donna, cioè un’allegorica Beatrice, discute (“disserta”) qui del suo “ingresso” nel nuovo mondo poetico. In una precedente redazione letta in pubblico e poi trascritta, in luogo di “disserta” si leggeva “disserra”.[4] Anche qui si osservino le allitterazioni presenti in “destino”, “desta”, “disserta” (v. 14), e “ingresso” (v. 14).

Al suo ingresso, in un’apoteosi iperbolica, la Donna (Beatrice domina cioè “padrona”) divinizza e illumina tutto con una luce fortissima e chiara (“nuda”). Si noti però che “forsennata” (v. 15) in senso etimologico significa “fuori di senno” e qui l’aggettivo mantiene certamente anche questo significato. In conformità col topos dantesco dell’incomunicabilità dell’esperienza mistica, la mente, a tali altezze poetiche,  si smarrisce e ammutolisce (“ammuta” è voce dantesca in Pg, XXVI, 68). Il sintagma “nella cima” (v. 16), cioè nell’ascesi poetica, riprende poi sotto altre forme la dura salita di Dante al monte del Purgatorio, l’antico Eden, e da lì all’Empireo. Sette sono i gironi del Purgatorio che portano alla sua sommità e sette sono i doni del “settemplice” spirito divino (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio), richiamato qui dal sintagma “sette volte semplice” (v. 17).

All’ascesi poetica servono dunque sia i sette doni dello Spirito santo, prima citati, sia, in antitesi, il “diavolo”, cioè quel male che consente l’apertura, il buco, l’al di là del nuovo stile. Come, del resto, era stato detto sin dall’inizio.

Al v. 18 troviamo un appello al lettore e un’orgogliosa rivendicazione del proprio ermetismo che per la Ruggeri altro non è che pensiero concentrato (confronta i vv. 4-5) come, del resto, intende dimostrare la presente analisi.

 

 

Il Matto, i temi e il Trionfo di Beatrice

 

 

Nella seconda strofa del testo (vv. 19-26), il Matto, cioè la carta del destino e del destino poetico, avanza e chiama il poeta perché ormai sa cosa dire e come dirlo in un modo sempre più essenziale (“semplice”). Il Matto chiama nel luogo in cui l’immagine (poetica) può finalmente placarsi sulla carta. E qui l’isotopia chiama in causa anche il gioco cartomantico dei tarocchi dove realmente si allineano le carte su un tavolo o su un tappetino. Il destino poetico, inoltre, coinvolgerà nuovi lettori (“stranieri nuovi”) e tutto quanto avverrà sarà anticipato dalle carte di cui il Matto stesso (o il fato) determinerà la comparsa. Come appunto nella pratica d’interrogazione dei tarocchi.

Ma cosa comparirà nelle nuove carte ? Quale mosaico narrativo esse andranno a comporre, quale destino? Fughe (la nevrosi dei viaggi di cui soffrì la Ruggeri), paludi,[5] cioè, more simbolico, stati depressivi, e infine lussuose distrazioni, forse gli eccentrici e costosi vestiti che la Ruggeri tanto amò e sfoggiò. La triade “fughe falaschi lussi” (v. 23) evoca da vicino, ma senza edonismo e anzi con confesssione “bipolare”, quella presente nell’Invitation au voyage di Baudelaire: “Luxe, calme et volupté”.

Tra ciò che “si inoltrerà” nelle carte, cioè nel discorso poetico ma anche nella vita della poetessa, vi sarà una logica ferrea (“Ordine”)  ma anche la “necessaria Evidenza” che poi sarebbe, con bella e indiscutibile metafora, la Morte. E qui si ricorderanno le gravi perdite subite dalla Ruggeri: dalla scomparsa prematura del padre, alla morte di tanti giovani amici. La morte entrerà nel discorso poetico anche perché tale pensiero si allontana (“si di verte”)  e si “consuma” nel ricordo danzando da acrobata su un margine e su un confine mobile. Le immagini – che sono quelle dell’orlo di un precipizio e della corda sospesa del funambolo – ricordano visivamente la scena della danza macabra nel capolavoro di Bergman Settimo sigillo.

Insomma: il nuovo esercizio poetico, il nuovo stile, come elaborazione del lutto ma con qualche profetico dubbio sulla sua riuscita.

Come accade nel Purgatorio, Beatrice arriva infine alla vista di Dante “in su la sponda del carro sinistra” (Pg, XXX, 61), cioè sul lato sinistro del carro, come del resto ricorda al lettore una nota che la Ruggeri appone dopo “sponda manca” (v. 28). Si ricorderà che il “lato manco” di Cavalcanti e in genere la sinistra simboleggiavano nel Medioevo l’esiziale sindrome melanconica. Il Carro, però, è anche uno degli arcani maggiori dei tarocchi e precisamente (guarda caso) il settimo. Nella simbologia cartomantica, esso rappresenta il mutamento, la trasformazione della realtà e l’azione; oppure la vittoria, come risulta evidente nella figura del re condottiero che lo guida. Simboleggia anche la stabilità emotiva e il successo determinato dall’azione individuale che vince il fato. Un auspicio, per la Ruggeri, limitato dal fatto che la sponda del carro da cui si affaccia il nuovo stile, cioè la Beatrice di questo testo, è una sponda “manca”. Di più: il testo non afferma, come in Dante, che Beatrice appare dalla sponda manca del carro, ma afferma che è Beatrice, cioè il nuovo stile, quella sponda manchevole. Dice infatti: “che sia sponda manca” e cioè “pur se è, benché sia, un sostegno debole”, ecc. A questo proposito si notino le ossessive iterazioni anaforiche della struttura pronominale “che si” e “che sia” ai vv. 24, 26, 28 e 29. Un vera invocazione ad essere… Si noti anche la quasi rima interna (“avanza… manca”) del v. 28 che dal punto di vista semantico rappresenta un imperfetto ossimoro. Prezioso segnale formale delle antinomie strutturali (male vs bene, purgatorio vs inferno, esaltazione vs depressione, successo vs fallimento, colpa vs redenzione, parola vs silenzio, Matto vs ordine, vita vs morte ecc.) sulle quali è articolato tutto questo straordinario testo che definirei ciclotimico.

Tornando ora alla guida dantesca della poesia, il “volto antico” di Beatrice (il vecchio stile) si congiunge (“si commette”) proprio dove appare (“pare”) cioè sulla superfice testuale della stessa poesia. Prima però c’è una parentesi non chiusa in cui, rivolgendosi ancora al lettore, l’io della Ruggeri afferma che nel nuovo stile non sono i referenti poetici, (la “cosa”) a essere cambiati ma è solo la loro intensità (“chiarore”). Del resto – prosegue cifrando il proprio dramma – a voi lettori che importa conoscere quale sia la mia vera realtà, cioè la “cosa” nascosta sotto alla mia allegoria (“come si conclude la Figura”)?

La nostra Beatrice si mostra ma non dice nulla, non grida, non compie gesti eclatanti né si agita. Semplicemente nella sua enormità accade e passa (vv. 32-33). Qui, esegeticamente, si potrebbe decifrare, decrittare molto di più, ma si correrebbe il rischio di distruggere con effetti di luce troppo violenti l’affresco poetico. Non vale la pena, non va fatto. La macchina di Turing non è per la poesia.

Dunque Beatrice accade e passa ma si dirige, ahimè, anche “dove l’altro richiamo / nel viluppo della palude fèstina”. Se c’è infatti un richiamo alla vita, testimoniato proprio dall’esaltata parusia e dal “trionfo” barocco del nuovo stile, purgatoriale e dunque potenzialmente salvifico, v’è però anche “un altro richiamo”, un’altra pulsione che si muove velocemente (!) (“fèstina”) nel groviglio del “male” e cioè nel viluppo di quella “palude” che è evidente emblema della depressione melanconica. Quest’altro richiamo è senza mezzi termini una consapevole pulsione di morte ed è perciò che la Figura si espanderà dappertutto, ridonderà addirittura e nulla in lei ormai sarà “mite”.

 

Epilogo “a parte”

 

Il verso finale ricorre in realtà quando la poesia è già finita ed infatti è messo tra parentesi. Si tratta dunque di una “coda” costituita da un’ultima domanda retorica rivolta “a parte” ai lettori… A quei lettori che la poetessa aveva già ammonito chiedendo loro al v. 18 di domandarsi in qual modo nei suoi testi il pensiero potesse essere una colpa.

Per comprendere il significato di quest’ultima frase, dobbiamo però ricorrerere alla sua fonte. Nella Coscienza di Zeno, il protagonista scrive verso la fine del suo “memoriale” che se considerassismo la vita e i suoi disagi una malattia (il che, peraltro, è nicianamente verissimo), non potremmo in alcun modo curarla: “Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati”.[6]

Analogamente, la Ruggeri, attraverso un’interrogativa retorica a risposta negativa, afferma che non si devono “turare” i suoi “fori”, i suoi profondi squilibri, perché è da quelli,  cioè dal suo male, che provengono quei risultati poetici che sono la sua stessa vita. Curarli vorrebbe dire dunque uccidere lei. Lei che – come ha scritto in un folgorante e consapevole distico – “a la fiamma della forma ha incendiato / la forma della rosa”…[7]

 

 

[1] Claudia Ruggeri, Inferno minore, a cura di Mario Desiati, peQuod, Ancona 2006, pp. 85-86.

[2] Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, a cura di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre, Adelphi, Milano 1979, vol. 1 , p. 165. Tr. it. modificata.

[3] Gli esatti versi di Dante (Vita nuova, XII, 7) sono i seguenti: “voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia”.

[4] Vedi: htpp://www.musicaos.it/testi/maggio/matto2.htm.

[5] Per metonimia da “falaschi” (v. 23).

[6] Italo Svevo, La coscienza di Zeno, ed. rivista sull’originale a stampa a cura di Giovanni Palmieri, Giunti, Firenze 1994, p. 417.

[7] Claudia Ruggeri, Inferno minore, cit., p. 127.

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2 Commenti

  1. Quest’estate ho riletto (non so il numero totale delle riletture) la Divina Commedia, da Luglio a Settembre. Un Canto al giorno. Agosto, dedicato dunque al Purgatorio, è stato realmente il mese della ripulitura – e insieme all’ascesa dantesca sono asceso anch’io a un finale di stagione meno *infernale*. Beatrice è e resta quella.
    Ma ben venga un esercizio di stile come questo a farcela ricordare. Così pure l’indagine retorica, stilistica, metrica ecc ecc in questa disamina dovrebbe lasciare il posto al gusto del versificare, come in Dante è bene, prima di usare il bisturi, avere la mano salda per incisioni del genere.

    Ho apprezzato in questo articolo la parola *inderimibile* che è un neologismo, anche se a me non piace. Altri neologismi mi piacciono. Questo meno ma sono contento di averlo individuato.

    E sono anche molto più contento per il fatto che *(…) Buona parte dei manoscritti della poetessa si trova a Firenze, presso il “Gabinetto G.P. Vieusseux”, dietro richiesta del suo Direttore Prof. Giovanni Gozzini.*
    Del poet(ess)a Ruggeri invece non voglio dire in questa sede, e per il fatto che la sua scrittura gronda qualcosa che mi infastidisce (salve alcune, mirabili prove) ma questo fastidio, per ora, è troppo legato a una idiosincrasia personale che dovrei sciogliere e siccome sto raccogliendo anch’io i fogli manoscritti per futura consultazione, ho veramente poco tempo. :)
    C’è sempre speranza per chi scrive.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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