Parkinson
di
Sonia Lambertini
Parkinson
Parkinson. Non è una città né una strada. È un luogo in cui si accende la scossa. Attraversa veloce il corpo, scuote anche il cuore. Trema anche quando non è una lepre. Non è un bosco per animali selvatici. I lamponi sono spariti e il rosso intenso è lavatura di carne. Una notte li ho cercati. Ho smarrito il sentiero e il loro profumo. Le gambe erano inquiete. Mi ordinavano di camminare e non fermarmi. Nemmeno davanti alla lepre che mangiava i lamponi sono potuta restare con il mio stupore. Un tempo mi guidava, era trasparente e ora lui l’ha inghiottito. Parkinson. È una terra desolata, un cimitero di cellule morte. Ognuna è stesa senza lapide, rigida e bruciata dal sole battente. Troppa luce non fa bene. L’ombra protegge, l’umido nutre. Il corpo vuole mangiare. La mano non arriva alla bocca. Tento un confronto, una pace momentanea. Per oggi non chiamo le braccia anarchiche, questa loro stupida idea di autonomia. Complice le spalle, alzano i tacchi e se ne vanno ognuna per proprio conto. Provo a parlare. Oggi il viso è una maschera di fango e non è piovuto. È una terra rigida bruciata dal sole, quella stesa senza lapide. Un calco. Provo a toglierlo. Lo metto sul comodino e giuro che domani lo indosso. Sembri un giudice, Parkinson. Questa notte fammi respirare. L’aria me la potresti regalare. Ho fatto ciò che volevi. Parlo poco e lentamente. Ho deciso di fare una cosa alla volta. Vedo poca gente. Tu la chiami depressione, io salvezza. Una sera erano tutti stranamente ubbidienti e abbiamo deciso di uscire. Qualcosa è andato storto. Ho il cuore senza scossa e un ricordo tondo: il fresco dell’erba tra le scapole, la luce della sera negli occhi e la bocca rossa di lamponi. No. Non è sangue. Il colore è lavatura di carne. Si chiama così tra i muri bianchi del labirinto. Credo sia stata la lepre insieme al bosco a farmi trovare il sentiero e a nutrirmi. Arriva il giorno e indosso la divisa da bravo soldatino della Dopa. Controllo i bottoni e indosso il calco. Combatto la mia battaglia. Aspetto l’armistizio della sera.
* * *
Distanza
La giusta distanza. Si tratta di prendere la giusta distanza. La misura. Un respiro, pausa. Ripetere. La distanza si raggiunge con i piedi, con l’indice e il medio. Una camminata. Battendo il tempo. Ti affacci alla finestra, appoggi i gomiti e vedi un oggetto. È la distanza. Lo vedi piccolo e pensi sì, se ne può parlare. Un attimo prima era vicino. No, così non andava bene. Unisci le mani davanti al petto, formi una culla, strappi l’oggetto e lo riponi davanti a te. La distanza. Un passo indietro, due finché non servirà più avere gli occhi. Lei, la cosa è fuori. Si può nominare. L’uno ha un solo occhio e guarda se stesso. Un tempo era felice. Nulla esisteva, non c’era la culla e forse nemmeno la distanza Un giorno decise di aprire la finestra chiusa. Toglieva il respiro. Cosa è successo fuori nessuno lo sa. Si parla di emozioni fuggite e mai più tornate. Pare ne abbiano viste due partire per un viaggio sul ciglio della strada. Hanno incontrato il mondo, l’ombra e la cosa fuori, davanti al petto. Non si tratta di cuore o forse sì. Si rigira come un pesce tra le mani. Se lo tieni troppo stretto perde lucentezza, il suo argento. Mi guardo dalla roccia più alta e nel pozzo nero. Inizia la danza per tornare all’uno. Esiste un momento, la nostra ora perfetta. Numero venticinque. Rotonda. Un cerchio al collo. Una caduta verticale in cui perdiamo gli abiti. Dimentica ciò che sei nell’abbandono.
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bene, prosa asciutta ma non artefatta, quasi essenziale….bene
Grazie per la lettura Carlo.
[…] https://www.nazioneindiana.com/2015/10/01/parkinson/ […]
Originale. Seguirò le tue pagine. Rossanoo
Grazie per l’attenzione Rossano.
Chi conosce il Parkinson sa che si tratta di un male inspiegabile. Nel senso che è difficile per chi ne è affetto spiegare agli altri cosa e come si sente. Anche al medico. Spesso i dialoghi con esso hanno del surreale, col paziente che non sa esprimere bene le sue sensazioni. Quella “terra desolata” quel “cimitero di cellule morte”… Quando si scrive di malattia, di malati, è facile essere scontati, scadere nella pietà, anche nella condiscendenza. Sonia Lambertini, con questo suo testo, dimostra di esserne lontana. Intanto c’è da notare la bellezza asciutta, cruda direi, della sua scrittura: prosa poetica, a volte spiazzante, mai banale: “Parkinson. Non è una città né una strada”. Già basterebbe l’incipit per capire che non è la solita storia. “Sembri un giudice, Parkinson.” Vero. “Dimentica ciò che sei nell’abbandono.” Sonia sa di cosa parla. E sa come parlarne. Dono dei poeti.
Grazie Diego per le parole che hai speso. Questo è un tema delicato e la tua lettura mi ha dato forza.
appunto…dono dei poeti….e qui colgo l’occasione..pubblicate meno, ma pubblicate ciò che vale…la poesia, la scrittura vera non nasce dalla testa, non ha periodi lunghi, intersecati dalle tante subordinate ‘intelligenti’, i libri d’oggi non sono quelli di ‘successo’, basta coi noir (di successo), coi polpettoni infarciti di ‘intelligenza’….ricordiamoci che le parole quasi sempre non sono qui per dirlo, cioè per sparare le cazzate ‘intelligenti’…appunto…’dimentica ciò che sei nell’abbandono…’ il resto è silenzio
Mi piace ricordare queste parole di Ingeborg Bachmann” Non è niente, non è un merito, vivere, scrivere, tirar fuori dal sacco delle parole le noci e le mandorle”. Credo che il linguaggio custodisca gelosamente il suo mistero, le sue ombre. Ci si avvicina alle parole. Qualcosa di loro sfugge sempre.