Della Serie: Narcos

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NARCOS: l’efficienza della forma narrativa.

di

Tiziano Colombi

 

Narcos è una serie trasmessa e prodotta da Netflix, il servizio di streaming americano che presto arriverà anche in Italia. Le dieci puntate che la compongono sono state rilasciate il 28 agosto e dovrebbero essere disponibili da noi nel mese di ottobre.

Narcos nasce da un’idea del regista e produttore brasiliano José Padilha, documentarista di lungo corso e regista di Tropa de Elite – Gli squadroni della morte, film premiato con l’Orso d’oro al Festiva di Berlino del 2008 (ha anche diretto il reboot di RoboCop).

 Alla fine degli anni ’70 i primi laboratori per la produzione di cocaina si trovavano in Cile. Poi arrivò il generale Pinochet e il fiorente commercio terminò rapidamente. Il prodotto però era eccellente e qualcuno pensò di proporlo ai contrabbandieri colombiani. Tra questi il più lesto a fiutare l’affare fu un certo Pablo Escobar, la cui intuizione principale fu quella di trovare un mercato alternativo e più ricco per la polvere bianca: gli USA.

Qui la faccenda si complica e diventa epica.

Il linguaggio scelto da José Padilha per dare corpo al racconto è un abile (e furbo) mix di fiction e materiale di repertorio conditi con telecamera a mano, voce off e un paio di prove attoriali eccellenti (Wagner Moura/ Pablo Escobar su tutti).

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Narcos non è solo la storia di Pablo Escobar, non è una biografia e nemmeno un documentario sulla vita del colombiano più famoso del globo (con tanti cari saluti a Garcia Marquez e Renè Higuita). E’ un racconto complesso perché complessa è la materia che prova a plasmare: il narcotraffico. Ci sono la geopolitica e la politica, l’epica e l’economia criminale, le storie personali di protagonisti e comprimari, i morti, il sangue, i palazzi del governo (dei governi), le strade di Medellin e Miami, la CIA, la DEA, i militari e i paramilitari.

C’è tutto quell’intrico di vita e morte che sta ai confini tra la realtà e la follia sudamericana.

Nell’incipit della serie gli autori ci infilano anche un bel riferimento al “realismo magico” che non fa mai male e tranquillizza tutti. Vabbè, concesso, passiamo oltre.

Se proprio però vi va di trovare un riferimento letterario siamo più dalle parti di 35 morti di Sergio Alvarez.

L’ibridazione (la chiamiamo sistematica e ci infiliamo anche Hieronymus Bosch?) è il tratto distintivo di Narcos, che poi è l’unico modo per tenere insieme una storia come questa, che è poi uno (non il solo certo) dei modi di maneggiare la varietà e la generosità degli attrezzi propri della narrazione, che poi è l’oggi, il presente, e anche un po’ già il passato.

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I tempi cambiano, i media evolvono, il linguaggio anche…e sì…”la convergenza è una tendenza al meticciato che coinvolge sia le tecnologie e i device che i linguaggi e le forme testuali” e bla bla bla… l’hanno già detto e scritto Franzen (Ops!) e un sacco di altri tizi.

Per cui a chi in rete si lamenta dell’uso invadente della voce fuori campo, quella dell’agente della DEA Steve Murphy (interpretato da Boyd Holbrook), novello Virgilio, che prende per le orecchie lo spettatore per le dieci puntate della serie e lo conduce in giro tra nord e Sudamerica, mi vien da dire che forse ha ragione il critico di The Hollywood Reporter quando scrive che “with 10 hours to play with, Narcos; with its loping narrative cadence, often feels like it’s narrative a book, not a movie”.

 Ohibò! Abbiamo fatto il giro dal romanzo alle serie, dalle serie al romanzo.

Il fantomatico feuilleton del XXI secolo. Sarà.

41bMEt2ATEL._SX344_BO1,204,203,200_Io però mi spingerei a guardare altrove, più precisamente all’introduzione di un libro del giornalista messicano Diego Enrique Osorno, Z La guerra dei narcos, nella quale Osorno stesso racconta la sua decisione di abbandonare “l’informazione nuda e cruda” a favore del giornalismo narrativo secondo la lezione di Alma Guillermoprieto, dice lui, e anche un po’ secondo quella di Rodolfo Walsh, dico io (e anche qui un caro saluto al Truman Capote di A sangue freddo).

Lo chiama, con una certa dose di autoironia, “giornalismo infrarealista”, perché questo gli pare l’unico mezzo efficace per comprendere (e far comprendere) la realtà allucinata e violenta del narcotraffico (nel suo caso si tratta nel nord est del Messico).

Osorno arriva a questa conclusione passando attraverso la lettura di un romanzo, 2666 di Roberto Bolano: “che è riuscito a far capire, al giornalista che sono, l’importanza di una narrazione esaustiva, quasi una maratona narrativa, quando si fa quello che sembra impossibile: parlare del narcotraffico”.

 E qui torniamo alla forma. Quale forma? Il romanzo, il documentario, la serie tv, il reportage giornalistico? E se la forma giusta fosse quella più efficace? Dove per efficace intendiamo tecnicamente ben congeniata, economicamente sostenibile e soprattutto in grado di raccontare e coinvolgere il maggior numero di persone possibili?

 Ecco, Narcos è un prodotto apprezzabile soprattutto per la sua efficienza narrativa. A qualcuno potrà piacere ad altri meno, non è privo di difetti e il suo impianto drammaturgico non sempre schiva la retorica. Però funziona, veste la storia, quella di Pablo Escobar (oltre la sua icona pop) e del salto di qualità del narcotraffico (dalla marijuana alla cocaina) che non è solo una vicenda di sangue e morte, ma una porzione di mondo articolato e infinitamente complesso.

Il nostro.

 

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2 Commenti

  1. Beh, in effetti leggendo Carlotto mi sono fatto un’idea della mafia del nordest e dell’intreccio tra criminalità e affari molto più chiara che leggendo un sacco di articoli di giornale… il che, per uno che viene dal giornalismo dovrebbe essere triste. Ma invece, anche io, nel mio piccolo, quando scrivo discorsi cerco di azzerare la spinta che ricevo da tutti per una esposizione ingegneristica (punto uno punto due punto tre) per cercare di coinvolgere in un “racconto”. Perché il racconto si ricorda, i punti elenco non. Poi, certo, il racconto dovrebbe magari essere vero.

  2. Forse lo guarderò quando arriverà in Italia Netflix, e me ne farà un’idea; ad ogni modo mi colpisce tanta attenzione per una serie di un genere affollatisimo: in America le serie narco sono molte, seguitissime, di qualità altalenante, violentissime e attuali anche quando parlano del passato (Pablo Escobar), come si addice a chi nella narcosocietà ci vive e rischia di non ritornare a casa una sera semplicemente per essere passato al momento sbagliato in qualche posto sbagliato.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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