Bici
di
Azra Nuhefendic
Editing:Patrizia Bevilacqua
immagine trovata qui
Il primo ad accorgersi dell’abbandono di una bici è il ragno. Tesse in fretta la tela sotto i due steli del manubrio. Poi capita che un ubriaco le si addossa di peso, deformandola, o che qualcuno, arrabbiato con se stesso e con il resto del mondo, si sfoga assestandole un colpo.
Ora la bicicletta è visibilmente storta. Passano alcuni giorni senza che nessuno ne se occupi. Ormai è evidente che è stata abbandonata. E con la pioggia fa la sua comparsa la ruggine, il sigillo dell’abbandono.
E’ il segnale per gli sciacalli della città. Per cominciare si fanno avanti quelli che asportano i pezzi più piccoli: le leve dei freni, un fanale… Poi è la volta di quelli che staccano i pezzi più grossi: una ruota, l’ingranaggio della catena, la sella ancora nuova…
Alla fine resta lo scheletro nudo. Due, tre pezzi di metallo attaccati. Qualcuno potrebbe vederci un frammento d’arte minimalista. Anche se bisogna essere un tantino cinici a vederla così.
Difficile dire cosa sia meno doloroso. Se essere abbandonata assieme ad altre decine di biciclette nei parcheggi limitrofi alle stazioni ferroviarie, o da sola, legata a un recinto, a un cartello stradale o a una stanga in un punto qualsiasi della città.
Comunque sia, l’abbandono resta un dolore profondo, una sofferenza intollerabile. Non a caso è il tema centrale di molti libri. C’è un esercito di terapeuti che lucra sulla cosiddetta “sindrome del nido vuoto”.
Di punto in bianco ti ritrovi là, incatenata ai ricordi che pesano. La domanda, perpetua, è perché? Fino a ieri tutto andava bene. Passavate ogni giorno insieme, inseparabili, nel bene e nel male. E adesso, tutto è finito… Perché?
La bicicletta entra molto presto nelle nostre vite. In qualche modo, ci accompagna per tutta la vita. Ha la sua parte a ogni età. Come l’amore. La desideriamo, la scopriamo, ci affezioniamo a lei, la molliamo e la riprendiamo, la dimentichiamo e la riscopriamo ancora.
Prova a chiedere a qualcuno se è mai andato in bici: ti guarderà come se gli avessi chiesto se ha mai respirato, se ha mai camminato. E’ una domanda inutile, perché andare in bici è una cosa ovvia.
In genere uno non ricorda quando ha cominciato a camminare. Ma la magia della prima volta in bici, quella non si dimentica mai.
La prima ad affascinarci è stata la bici di papà. Era la cosa che lo rendeva più importante, più grande, più di qualsiasi cosa. Come dimenticare quel sabato mattina, quando ti fece sedere davanti a lui, sulla stanga della sua bicicletta, per portarti dagli amici? Eri convinta di vivere in una favola in cui si diventa adulti da un giorno all’altro. Col vestitino rosa e con quel fiocco simile a un elicottero appena atterrato sulla tua testa, così eccitata che avresti voluto gridare al mondo: Guardateci, questo è il mio papà!
Passano gli anni e la bici è sempre in cima alla lista dei tuoi sogni. Ti sembra di avere tutto. Manca soltanto una bici. E proprio quando hai ormai perso ogni speranza, un giorno come un altro, al solito, tornando da scuola, entri in salotto e trovi l’oggetto dei tuoi desideri: la tua prima bici! Subito la porti fuori, a fare un giretto, specialmente per mostrarla agli amici. Sono tutti intorno a te. Ti senti importante, sei al centro dell’attenzione, e dell’invidia. Gli amici ti pregano di fare un giro. Rispondi con un secco niet!, più perentorio di quello del compagno Stalin.
Dopo un po’ gli amici si stancano di guardare e basta. Ti lasciano col tuo bene prezioso. Tu tieni duro, ma presto capisci quanto è triste e noioso stare da soli. Così hai imparato la prima importante lezione della vita: la pena della solitudine.
Il primo giro lo concedi al tuo migliore amico. Gli altri, dopo. Un giro in due, un altro in cinque, sulla tua piccola bici… A un certo punto uno annuncia che qualcosa si è rotto. All’improvviso tutti si rivelano dei meccanici. E va a finire che la tanto desiderata bici è ormai smontata, a pezzi.
Per gli adolescenti la bici è un mezzo per mettere alla prova le proprie capacità, oltreché quelle della stessa bici. La sfruttano al massimo, come sanno fare solo i giovani pieni di vigore e di voglia di vivere subito e appieno. In bici compiono spericolate acrobazie, sfidando il destino, se stessi, la forza di gravità, le leggi naturali.
I primi passi per esplorare il mondo fuori del cortile li compiono in bici. La sensazione di libertà la conquistano in bici. Li fa sentire grandi, importanti, rafforza il loro ego.
Tracce di questo spirito restano talvolta anche nell’età adulta. Con la differenza che le pericolose sfide di un adolescente assumono un carattere eccentrico.
Nell’affollata Tokio, un gruppo di personaggi costituito da ambasciatori, imprenditori e grandi manager si dà convegno ogni sabato per percorrere in bicicletta le stradine e i vicoli della megalopoli. Attrezzati di tutto punto, pedalano per le viuzze della capitale, quelle che non si vedono quando l’autista li porta in giro in limousine.
Queste stravaganze fanno sorridere il signor Berto. Magari avessi avuto una bici come quelle di oggi! sospira. Il signor Berto è un saggio e tranquillo maestro. Quando lo si ascolta è difficile vedere in lui il giovanotto che nell’immediato dopoguerra pedalò per tutto lo Stivale, con una bici scassata e il suo migliore amico, percorrendo le strade bianche di cui cinquant’anni addietro era fatta quasi tutta l’Italia. I due procedevano, ignari delle proprie capacità. Il giovane Berto si addormentò in groppa alla bici e si risvegliò fuori strada, in mezzo all’erbaccia.
Da adulti torniamo alla bici per ritrovare noi stessi, per curarci dallo stress, per depurarci dalla carriera che ci ha presso troppo, per sanarci da una delusione, per avvicinarci alla natura o magari a un’altra persona, ma soprattutto per rallentare il ritmo della vita e per riconciliarci con il tempo.
Spesso questo bisogno di rallentare si manifesta dopo che ci hanno regalato una bici. Perché una bici è più di un regalo. E’ un invito a cambiare, a modificare lo stile di vita, è uno spunto per sperimentare il diverso, è una dichiarazione.
Sembra paradossale ma è vero: in bici si vive di più. Non necessariamente più a lungo, ma in senso qualitativo. La bici migliora il contenuto della nostra vita quotidiana. Impone altri ritmi. Con lei non si corre, neanche quando si pedala in fretta.
Già nel 1965 Iris Murdoch scriveva nel suo libro Il rosso e il verde (The red and the green): la bicicletta è il mezzo di trasporto più civilizzato. Tutti gli altri diventano ogni giorno sempre più alienanti. La bici, invece, sta sempre nel cuore.
In bici si vincono le gare, non necessariamente quelle sportive. Il celebre ciclista americano Lance Armstrong, ammalatosi di cancro, si dedicò con ancor più passione alla bici. Vinse il Tour de France e la malattia. Tutto è scritto nel suo libro Non è sulla bici: il mio ritorno alla vita (It’s not about the bike: my journey back to life).
Non è mai troppo presto per andare in bici, e non è mai troppo tardi per montarla di nuovo. Per le bici, ogni età è quella giusta.
Eppure le abbandoniamo.
Perché?
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Mi ricordo che avevo una aquiletta bianchi, pieghevole, pesante, di ferro. Quando me la regalarono, non ricordo chi, era già vecchia perchè avevano inventato le antesignane della mountain-bike, con le ruote tassellate e i sellini lunghi a punta, perfetti per due ragazzini.
Non fui affatto invidiato, anzi, provai io un po’ di invidia per i possessori del nuovo modello. Mi divertii lo stesso come un matto per tre-quattro anni. Fino a quando, un tardo pomeriggio estivo, al rientro in garage quel bastardo di dik e uno sconosciuto mi fecero passare la voglia di andare in bici. Uno perchè, appostato dietro una colonna, balzò fuori digrignante e mi azzannò un polpaccio. L’altro perchè me la rubò.
Da allora, molte voglie sono nate, cresciute, morte e resuscitate. Ma quella di pedalare è rimasta sepolta sotto a quei due episodi.
Ora, espello tossine nuotando regolarmente o correndo in pineta saltuariamente.
E trovo piuttosto stupidi i ciclisti cittadini alla ricerca di polveri sottili da inalare a pieni polmoni.
Cheppalle di pasquetta tra vento freddo e pioggia.
Cordiali saluti
Plessus, probabilmente a causa del trauma primario che racconti, manchi totalmente il punto del muoversi in bici in città. Che, eoni prima dell’espulsione delle tossine, riguarda molto più seplicemente il piacere per la libertà di tempo e movimento e un certo talent scouting per le tecnologie superiori.
Ah, poi c’è la brutta notizia: le polveri sottili, se ci sono, te le ciucci comunque. O meglio, se sei fermo imbottigliato nel traffico, te le ciucci di più.
Io mi sposto quotidianamente in bicicletta in città, carico di prole, borsa dell’ufficio e spesso della spesa fatta al mercato. E’ un modo semplice ed economico per muoversi. E divertente.
Le bici abbandonate mi hanno sempre messo tristezza, un segno della rinuncia a riparare, ad opporsi al degrado del tempo e degli uomini.
Chiedo scusa per aver appellato come stupidi i ciclisti cittadini.
Ma rimango dell’opinione che i rischi per la salute per chi usa la bici in mezzo al traffico cittadino sono maggiori per chi, invece, della bici non ne fa quell’uso. Ovviamente condivido l’idea di rigenerare spazi per l’uomo all’interno delle città – più giardini, più piste ciclabili, palazzi meno alti, più zone pedonali e culturali.
L’ultima domanda del post merita però un tentativo di risposta.
Confermo, abbandoniamo le bici per traumi. Per problemi di spazio. Perché in bici, sull’asfalto, siamo come hobbit, piccoli ed esposti, ed abbiamo paura dei gigabus e dei troll schizzati al volante. Perché siamo troppo lontani da tutto, e la bici avvicina troppo lentamente, meglio lo scooter. Per la patina di lieve fatica che si espande sull’epidermide dopo qualche minuto di pedalate, e che, trattenuta troppo a lungo sotto i vestiti, può dar luogo a qualche forma di imbarazzo di fronte a terzi. Perché non siamo noi a doverci far spazio tra le auto, ma sono le amministrazioni comunali che ce lo dovrebbero concedere.
Come è stato concesso, con successo, in alcuni paesi e medi insediamenti urbani, ove spostamenti e distanze sono brevi e leggere.
Mi capitò non molto tempo fa, da pedone che passeggia ignaro e ignorante su una ciclabile, di essere investito da una bicicletta arrabbiata e donna. Che figuraccia. Però ero a Ferrara, ove probabilmente un solo mezzo motorizzato ben sovrintende ai bisogni di spostamento di un nucleo familiare, e, al contrario che per Roma, spesso risulta superfluo ed ingombrante per quelli individuali.
Ho molto gustato il brano. In bici vedo meglio la mia infanzia, il sentimento di rubare il tempo e lo spazio. Ma lo dico, la sella à troppo dura. Non voglio pensare alla salita che non puo fare, anche a piede con il soffio malato. Voglio pensare al vento nella natura, perché in bici in città è troppo pericoloso. Mi rammento che fare il giro del giardino con la bici per piccola me dava l’impressione di viaggiare in un paese straniero e nello stesso tempo vedevo le lucertole filare. Che piacere di sentire il corpo nell’infanzia, perché nell ‘età adulta, il corpo pesa come un dolore.
Mi è venuta la canzone ” à bicyclette.” leggendo il pezzo.
Ouf: un vrai bol frais dans cette journée pénible.
Segnalo qui questo mio libretto in tema, “Versi ciclabili”:
http://www.orientexpress.na.it/libro.asp?LibroID=11&AutoreID=81
“L’uomo in bicicletta può andare tre o quattro volte più svelto del pedone, consumando però un quinto dell’energia (…). La bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l’energia metabolica dell’uomo all’impedenza della locomozione. Munito di questo strumento, l’uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali (…).
Le biciclette permettono di spostarsi più velocemente senza assorbire quantità significative di spazio, energia o tempo scarseggianti. Si può impiegare meno tempoi a chilometro e tuttavia percorrere più chilometri ogni anno. Si possono godere i vantaggi delle conquiste tecnologiche senza porre indebite ipoteche sopra gli orari, le energie e lo spazio altrui. Si diventa padroni dei propri movimenti senza impedire quelli dei propri simili. Si tratta di uno strumento che crea soltanto domande che è in grado di soddisfare. Ogni incremento di velocità dei veicoli a motore determina nuove esigenze di spazio e di tempo: l’uso della biciletta ha invece in sé i propri limiti. Essa permette alla gente di creare un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza distruggere l’equilibrio ereditario.”
Ivan Illich, Energie et equité (trad. it.: Elogio della Bicicletta, Bollati Boringhieri collana “Incipit”, 2006 – vedasi anche l’annesso e condivisibilissimo saggetto “Per una critica delle automobili” del curatore Franco La Cecla)
Ah sì, scordavo: il testo originale è del 1973.
@plessus
meno male che ti sei emendato, stavo per dirti: stupido sarai tu!
Non commento poi l’idea, questa sì stupida, di sostituire le bici con i motorini, ti dico soltanto che visti gli aggeggi che circolano senza regola alcuna, lungo le ciclabili, contromano, sui marciapiedi, con marmitte rumorosissime, ed emissioni delle più inquinanti, beh non ti basterebbero 100 vasche o dieci kilometri al giorno in pineta, per smaltire le cosiddette tossine. Senza contare che pur facendo danni ne possono subire anche di peggiori visto il mare di automobili in cui si muovono.
Nella città in cui vivo ci sono centinaia di migliaia di motorini,
che la rendono caotica , puzzolente, rumorosa e più pericolosa e credo, nella maggioranza dei casi, per pochissimi kilometri che potrebbero essere fatti tranquillamente in bici. Non credo che quei ragazzotti scalmanati che sfrecciano in motorino temano molto il lieve afrore che le pedalate darebbero loro. Naturalmente parlo di distanze piccole o medie.
La bicicletta è uno strumento favoloso e se fosse usata di più le nostre città sarebbero più belle, più pulite e meno rumorose.
R.
bello questo articolo. Mi ha fatto venire in mente la mia prima bicicletta, una “Bianchi 20” (anche se io avevo chiesto quella un po’ più grande) quando avevo 9 anni. Era blu ed era tutta mia, trovata sotto l’albero di Natale. Uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto. Già da allora significava “libertà”. In casa avevamo una bici ciascuno (io e i miei fratelli) e bici di tutte le misure per tutte le età, da quella piccolissima con le ruote di cuoio, a cui le rotelle venivano aggiunte e tolte continuamente, a quella da corsa dei miei fratelli grandi, e anche una bici da cross.
Oggi sono una ciclista cittadina accanita. Solo la neve mi ferma. Ma qui in Scandinavia siamo viziati, piste ciclabili quasi ovunque e grande rispetto dai motorizzati.