Scrittori e storia, una conversazione
di Daniele Giglioli e Davide Orecchio
Questo dialogo via mail tra Daniele Giglioli e Davide Orecchio si è svolto fra il 20 dicembre 2014 e il 14 gennaio 2015*
D.O. – Caro Daniele, in una giornata d’inverno romano che invece sembra portegno – con l’umidità, la pioggia, quindici gradi di temperatura media, il cielo basso da fine (geografica) del mondo (finis terrae; fatta salva, io spero, l’umanità) – la mia compagna mi passa una pagina del Domenicale e commenta: “Forse t’interessa”, senza aggiungere altro. Da questo episodio nasce, qui e ora, il mio tentativo di conversare con te. La pagina ospita un articolo di Sergio Luzzatto. È un’invettiva. Lo storico accusa. Tutti. Scrittori, registi di film, documentari e serie tv, persino i musei: costoro – argomenta Luzzatto – hanno ridotto la storia a una “maionese impazzita” dove gli elementi didattici e cognitivi della disciplina, e i suoi valori che Cicerone riassunse nella formula della magistra vitae, sono ora “mischiati e rimischiati senza criterio, come in un cocktail dell’assurdo”. La scienza cede il passo alla testimonianza, la storia alla memoria, il sapere alla rappresentazione, alla sceneggiatura, allo storytelling. Scrive Luzzatto: “Non c’è oggi testimonianza che non venga contrabbandata come verità; non c’è messaggio che non venga spacciato per magistero; non c’è memoria che non venga confusa con la storia”.
Anche tra gli scrittori, salvo alcune eccezioni (il collettivo Wu Ming, Javier Cercas, Emmanuel Carrère), Luzzatto non salva nessuno, e condanna ogni “narratore travestito nei panni di un buono o di un cattivo del passato”. Né risparmia i critici letterari, che non provano “davvero a distinguere, se non l’olio dall’uovo, il grano dal loglio”. Va detto che Luzzatto sceglie la solitudine, visto che anche nella sua disciplina non vede che “libri illeggibili” per chiunque non sia uno storico di professione, monografie destinate a poche decine di lettori, un “fossato” che si allarga tra lo scrivere e il farsi leggere, il sapere e la sua trasmissione. Ciascuno, a suo modo, sbaglia: per dilettantismo, per troppo spettacolo, per eccesso di specialismo. Le parti lese sono due: la storia stessa e i giovani (i “figli”) che la vorrebbero, e dovrebbero, apprendere.
Tu questo pezzo l’hai letto? Sono quasi certo di sì. Per questo m’è venuto in mente di coinvolgerti. Anzi, credo che tu sia già coinvolto. Affiorano, mi pare, i temi di Senza trauma e Critica della vittima. I sintomi che hai segnalato stanno anche nella diagnosi di Luzzatto, o no? Sul Corriere della Sera, un paio d’anni fa (vado a memoria), pubblicasti un articolo che, seppure a un grado minore di polemica rispetto a Luzzatto, esponeva perplessità simili rispetto all’ossessione per la storia di certi narratori, alla patologia delle fonti, degli archivi, della documentazione esorbitante. Luzzatto, dalla prospettiva dello storico, mi pare voglia mettere in guardia dalla narratività; per lui la maionese impazzisce a causa di uno “storytelling spendibile alla fiera della creatività letteraria”. Tu, dalla prospettiva della “critica letteraria e sintomatica”, segnalavi la patologia del documento, l’acribia comunque e sempre imperfetta, perché lo scrittore non sarà mai uno storico e, insomma, dove vuole arrivare, perché lo fa? Vorrei farti una domanda diretta: pensi che sia il momento di smetterla? Solo l’astinenza può guarire dalla malattia storica? Ma, anche se volessimo, potremmo davvero disintossicarci dall’ossessione per la storia?
D.G. – Caro Davide, nel frattempo è arrivato l’inverno, come se la nostra conversazione seguisse i ritmi dei carteggi di una volta: il freddo atlantico e ora il Burian siberiano. Faremo fronte, come abbiamo fatto fronte un po’ inquieti un po’ contenti al calduccio anomalo di un lungo autunno riottoso ai suoi doveri di stagione. Riscaldamento globale a parte, non ha senso prendersela col clima. Come mi sembra faccia invece Luzzatto nell’articolo che citi: piove, governo ladro, tanto per rovistare nello stesso registro delle frasi fatte della maionese impazzita (come mai ti è piaciuta tanto?). Per quanto ne so, la maggior parte degli storici sono più preoccupati da internet, dal cinema Blockbuster e dalle playstation, e non vedono nella letteratura un pericolo mortale: chi legge un libro ha in sé già tutti gli anticorpi della ricezione critica – e ricezione critica, a pensarci bene, poi, di cosa? Del passato “per come veramente è stato”? Del suo uso inevitabilmente ideologico, della sua appropriazione da parte del presente a fini non conoscitivi ma vitali? Nella rampogna di Luzzatto si coglie del resto l’eco di una contrapposizione antichissima: Michel De Certeau ha scritto una volta che la storiografia “scientifica” nasce sempre, fin dai greci, come gesto polemico contro il mito, la leggenda fondativa, la diceria incontrollata, proponendosi come spazio di sapere non contaminato da interessi che non siano l’accertamento della verità. In questo stanno la sua forza (ciò che la spinge ad affinare continuamente le sue tecniche, i suoi metodi, i suoi riscontri e i suoi dispositivi di controllo), e insieme la cecità che le impedisce di vedersi appunto come un discorso rivale, un discorso tra i discorsi, che trae forma e senso proprio perché si colloca in un orizzonte dove i discorsi sul passato sono tanti. Tra Berta filava e la storiografia scientifica odierna ci sono innumerevoli stadi intermedi; ma la storiografia tutta non esisterebbe senza Berta, grazie a Berta e contro Berta. Nell’articolo di Luzzatto si rinnova in fondo quel gesto originario, addizionato però a una certa malmostosità che forse deriva, più che dalla preoccupazione per la rovina della patria, dall’inquietudine di certi suoi tentativi recenti (per esempio il libro su Primo Levi), che in effetti non sono né storiografia né letteratura.
D.O. – Daniele, mi chiedi perché mi sia piaciuta la metafora della maionese impazzita. Non è che mi sia piaciuta, è che ho paura di far impazzire la maionese! Immagino succeda a chiunque affronti imprese domestiche, a lungo solitarie. Per coincidenza, poi, proprio mentre usciva l’articolo di Luzzatto un’amica ha paragonato un mio libro alla maionese fatta in casa che “all’inizio allappa – sostiene lei – e ti chiedi come possa uscirci qualcosa di buono. Ma continui a girare e il limone profuma ed è aspro, però ci sta proprio bene e non puoi smettere di mangiarla”. Lieto fine a parte (perlomeno nel giudizio dell’amica), il timore resta e ho l’impressione che troppe maionesi mi circondino.
Tu, per nulla convinto dall’articolo di Luzzatto, accenni, tra gli altri temi, a un presente che cerca di appropriarsi del passato “a fini non conoscitivi ma vitali”: temo di essere costretto a parlare ancora un po’ di me. Sebbene Luzzatto non abbia probabilmente idea di chi sono e polemizzasse con (o elogiasse) altri scrittori, mi sento coinvolto. Sto nel mezzo. Quando studiavo storia e frequentavo gli archivi, le pratiche di narrativizzazione alla Hayden White erano l’avversario (dei miei maestri e, di conseguenza, il mio). Adesso che mi sono messo a scrivere libri che adoperano la storia per raccontare storie, mi chiedo: sono forse diventato il nemico? Eppure ho cercato di essere onesto, ho provato a rendere evidente al lettore il gioco col mestiere di storico, la manipolazione letteraria delle fonti, l’invenzione stessa delle fonti. Per evitare d’essere fuorviante, sono arrivato ad adottare gerarchie di virgolette che consentissero di orientarsi tra le citazioni fittizie e quelle vere. Insomma ho esposto la strumentazione dello storico in un organismo però letterario, senza pretese cognitive o “scientifiche”. Ma forse tutto questo, caro Daniele, non basta a mantenere il controllo della maionese.
Perché lo faccio? Me l’ha chiesto, qualche mese fa, la rivista Lo Straniero, che ha aperto le sue pagine al contributo di oltre sessanta scrittori chiamandoli a spiegare le ragioni del loro interesse per la storia recente, per i “nostri ieri”. I testi saranno raccolti in un libro curato da Goffredo Fofi, in uscita in questi mesi per Contrasto, che dovrebbe intitolarsi Il racconto onesto. Come vedi, torna il tema dell’onestà: nella peggiore delle ipotesi siamo animati da buone intenzioni. Quanto a me, per spiegarti riprendo il ragionamento che facevo su Lo Straniero: forse ho una carenza di orientamento, forse ho perso la coscienza di una direzione nel presente e verso il futuro. Quanto più il mio oggi è (o mi appare) privo di storicità, tanto più cerco rifugio nei trascorsi alla ricerca ostinata di un senso. Mi sembra che dalla paralisi odierna (molto occidentale, molto italiana) fiotti una pesca nei depositi della storia accaduta. In genere una società dinamica e storicamente protagonista s’impossessa del passato per volgerlo, anche distorcerlo, ai fini non sempre commendevoli del presente. Ma se l’epoca s’impaluda nella stasi, o peggio ancora nel regresso, può accadere al contrario che il passato assuma il dominio e i viventi gli si affidino così da prendere una loro rincorsa, e che si guardino indietro per non stare fermi, per darsi slancio, superare l’ostacolo e riprendere il cammino. Più di un indizio mi dice che “lo faccio” per questo motivo. Il “come” lo faccio credo dipenda da un’ulteriore difficoltà autobiografica che il Novecento mi crea. Nei miei studi universitari scelsi di occuparmi di secoli leggermente distanti: il Settecento, l’Ottocento. Il passato prossimo, la contemporaneità, invece m’intimoriva. Solo dopo, abbandonati da tempo aule e archivi, ho trovato il coraggio di (provare a) narrare epoche più recenti e decisive per me. È curioso, insomma, che giusto in un’operazione letteraria e di tradimento del metodo io sia riuscito a occuparmi della storia contemporanea. Ma perché ho dovuto inventarmela, questa storia, e in parte tradirla? Forse – molto banalmente, penserai, più a fini vitali che conoscitivi – perché l’ho avuta in casa, incarnata in una figura paterna dalla quale ero distante, anagraficamente, più di mezzo secolo. Un uomo che aveva attraversato il fascismo da giovane, che poi era stato partigiano, infine giornalista comunista nell’Italia democratica e repubblicana; ma che a me non raccontava nulla. Quasi una sfinge. La fonte primaria era muta. Persona del secolo breve, e colui che mi aveva generato: rifiutava di spiegarmi quel secolo; a volte lo sussurrava con un tono di fondo da Poltergeist, altre volte lo formulava in aforismi e teoremi orfani della dimostrazione. Questo è il mio ieri: un discreto silenzio. Dunque ho dovuto inventare.
Vorrei aggiungere che da giorni, caro Daniele, ho messo in un cassetto col clima portegno anche l’articolo di Luzzatto, dal quale ero partito per dialogare con te, e ho ripreso in mano tutti i contributi pubblicati su Lo Straniero. Non so se tu abbia trovato il tempo di leggerli. Penso che la raccolta ti potrebbe incuriosire. Questi scrittori (escludo me dal giudizio) mi sembrano tutti molto seri, responsabili, ‘onesti’ appunto nell’enunciare le ragioni del loro volgersi alla storia. I contributi possono offrire spunti nuovi, e anche conferme, alla tua critica letteraria e sintomatica. Credo che la maggior parte degli autori condivida con te la presa d’atto che “mai, nel corso della sua storia, l’umanità si è trovata a vivere un tempo così radicalmente controrivoluzionario” (cito da Critica della vittima). E molti di loro cercano nei “nostri ieri” quella spinta cui accennavo sopra, quanto serve per ‘andare avanti’ e superare l’ostacolo.
Penso ad esempio a Helena Janeczek, che spiega di avere avvertito, “negli anni successivi a Lezioni di tenebra”, “il bisogno sempre più chiaro di passare dalla Memoria alla Storia”. “Ricordare com’erano gli uomini e le donne di oltre mezzo secolo o qualche decennio addietro, forse significa anche proiettare delle diverse possibilità di esistere sul nostro futuro”. Alessandro Leogrande invece scorge “un paesaggio di orfani”; e per lui “rivolgersi al passato” serve a trovare “ciò che in una data epoca inferno non era, nel mezzo di un inferno più vasto, ed è stato poi soppresso”. Vittorio Giacopini ragiona sul romanziere “come storico degli ‘atti mancati’”, perché – spiega – “chi voglia parlare dell’Italia (…) dovrà fare i conti col carattere guasto del tempo storico sfalsato di un paese ‘incompiuto’ e ‘irrisolto’ proprio in essenza”. La crisi di orientamento pragmatico nel presente storico, che è poi una crisi di identità politica, la vedo nitida anche nelle pagine di Francesco Pecoraro. Al suo riguardo in Senza trauma scrivevi di una “vulnerabilità preventiva” rispetto alla sconfitta. Ti cito solo questo passaggio dal suo testo uscito su Lo Straniero: “È esattamente nel momento in cui, non ostanti gli sforzi compiuti per restare al passo, percepisci una diversità tra quello che sei e ciò che prevalentemente ti circonda, che capisci che per tutto il corso della tua esistenza sei vissuto nella Storia, inzuppato di Storia, trascinato dalla Storia. E capisci anche che proprio in quel momento lì, tremendo, di percezione dell’estraneità totale del contemporaneo, la Storia ti ha abbandonato ed è andata in una direzione talmente diversa da quella che ti aspettavi”.
Credo anche che alcuni testi pubblicati da Lo Straniero confermino quel “forte impulso risarcitorio” rispetto alla storia che tu stesso riconoscevi in Senza trauma. Forse – ma qui vorrei sapere cosa ne pensi – non solo per “giustificare i fallimenti e l’impotenza del presente”, il “non è colpa nostra” che individuavi, ma anche per capire. Una “controstoria dell’Italia contemporanea” – sempre tua la formula – che però in questi autori (penso a Igiaba Scego e Wu Ming 1) si spoglia dell’abito paranoico (il complotto a tutti i costi) e sceglie di vestire un esercizio cognitivo, certamente un progetto meno emotivo rispetto al sentimento della sconfitta e della perdita, e con una sua radicale lucidità. Emergono letture alternative e forse più veritiere, senz’altro più oneste delle vulgate, dei miti, dei discorsi pubblici. Affiorano a volte dall’ignoranza forzata. Scego ad esempio ammette di aver “imparato proprio poco” dalla scuola, di storia. “Quello che sapevo mi veniva dalla famiglia e dalla curiosità personale”. Dev’essere per questo che, con Roma negata (Ediesse 2014), la scrittrice italo-somala ha voluto rivelare la topografia coloniale (monumenti, piazze, persino cinema) che i romani hanno dimenticato.
“Roma negata – spiega Scego – è un libro nato per colmare delle lacune. Riempire di senso una storia che non ci è stata tramandata”. I luoghi del colonialismo italiano a Roma sono “poco conosciuti, luoghi spesso nel degrado e nell’abbandono. Luoghi che però ci parlano di una relazione tra l’Italia e il Corno D’Africa. Era importante far capire che la presenza di somali, eritrei, etiopi in Italia non era casuale”. Non diversamente Wu Ming 1 spiega che il suo collettivo (tra i pochi a convincere Luzzatto, ti ricordo) pesca le storie “dai ‘luoghi oscuri’, dai coni d’ombra e dai rimossi della storia”. Per loro si tratta di “stare tra l’archivio e la strada”. “Su quel materiale ci sforziamo di esercitare uno sguardo il più possibile ‘obliquo’, sghembo, spiazzato”. Il progetto narrativo, anche per loro, parte spesso dal togliere la maschera al monumento bolso, tronfio, ridondante se non del tutto bugiardo. Il monumento è la storia come impresa soggettiva di pubblica menzogna, lettura fuorviante. Il libro, la letteratura secondo Wu Ming 1, si prende il compito di offrire un altro sguardo: “Se un monumento lo aggiriamo, può capitarci di scoprire una storia diversissima, una storia alternativa. Non la consueta, banalissima, ‘storia nascosta’, esoterica, occulta, quella che piace ai complottisti, ma la storia del conflitto che viene ogni volta rimosso, del molteplice ricondotto a forza all’Uno”.
Sono solo alcuni, pochi qui per ragioni di spazio, degli autori che riesco a citare; ma quasi tutti mi hanno convinto (per il fatto di assumere una postura che entra nel ritratto collettivo, che non discorda; ciascun punto si ficca nel tragitto di una parabola geometricamente raffigurabile). Certo enunciano, mentre sono le opere che dobbiamo valutare, non gli enunciati. Ma su questo lascio a te l’ultima parola.
D.G. – Forse siamo d’accordo su questo: che gli scrittori di romanzi si volgano alla storia è un fatto, un indizio, un sintomo da interpretare. Di che cosa sia sintomo è la cosa che interessa. Tu mi dirai che il sintomo rimanda immediatamente al tema della malattia, ed è vero. Ma non si tratta certo di una malattia squisitamente letteraria, come tu stesso hai scritto qui sopra. E’ vero che anche io mi ero interrogato sul fenomeno; ma per capirlo, non per deplorarlo. Come che sia, non sono certo i sintomi ma le cause che ci si deve sforzare di curare. Il sintomo è un segnalatore d’allarme, e in quanto tale parte essenziale di una possibile guarigione.
Guarigione da cosa? Ti sei già risposto, e con te tanti scrittori interpellati da Lo Straniero. Anche io ho trovato molto oneste nel complesso le risposte che hanno dato. Anche troppo, sinceramente. Buone intenzioni, buoni sentimenti, scrupoli morali, pensose preoccupazioni civiche. Ottime cose, quelle che sempre ci si augura di trovare in qualcuno quando bisogna farci assieme la dichiarazione amichevole di sinistro dopo un tamponamento. Ma confesso, dammi pure del romantico o dell’ingenuo, che da uno scrittore io mi aspetto che sia almeno ogni tanto anche un po’ predone, pirata, mistificatore: scrivo di storia perché mi piace, perché lo so fare, perché lo fanno anche altri e vedo che funziona, perché sono poi alla fin fine fatti miei. Un po’ più infantile, insomma, per non perdere del tutto quello stupore che ci faceva guardare da bambini i film in costume. Un eccesso di responsabilità raffredda i muscoli.
Ma sto divagando, e non è giusto ciò che dico: quelle preoccupazioni ci sono, anch’io le condivido e anch’io voglio mostrarmi altrettanto educato nel porgere la zampa alle interrogazioni, alle lodi e alle eventuali rampogne: perché lo fate? Bravi, è utile (o inutile, o dannoso). Accantono il senso di ribellione che non so perché mi sorge e provo a risponderti.
Di cosa è sintomo questo volgersi alla storia lo hai già detto tu benissimo. Senso di paralisi, atrofia del presente, panico da isolamento, sospetto lievemente paranoico di aver passato tutta la vita dietro ad uno schermo, reculer pour mieux sauter, recuperare i conflitti e i rimossi, dar voce agli esclusi, cercare alternative a un presente che si presenta appunto come monolitico, inscalfibile, infessurabile. Più profondi delle intenzioni politiche mi sembrano però due moti passionali, opposti ma affini: la paura e la speranza. Entrambi hanno a che fare con il tempo, generano una miscela sempre diversa di presente e di futuro: in che senso li si può declinare al passato?
Vediamo prima la paura. Paura del presente, più forte di quella del futuro. Paura che il presente non ci basti, ci imprigioni in una finzione di realtà che ci sottrae qualcosa che non mi riesce di chiamare altro che “la vera vita”. Quella vera vita che viene a torto o a ragione attribuita al passato. Quelli sì erano tempi, lì sì che c’era qualche cosa da narrare. Non importa che gli eventi di cui ci si occupa siano in genere tragici, luttuosi, sanguinari (pensa alle tante narrazioni che si esercitano sul Novecento delle stragi, delle guerre, delle deportazioni; lo sai meglio di me). Anche il dolore più feroce aveva senso, quel senso che oggi sembra evaporato. L’effetto nostalgia è secondo Fredric Jameson una componente fondamentale della postmodernità: si può aderire o no alle sue spiegazioni, ma il fenomeno è innegabile. Agli uomini e alle donne è stato dato un tempo di vivere di meglio, dovesse anche quel meglio essere stato una catena di lutti: il vero lutto è quello di oggi, è la paralisi di cui tu hai messo a fuoco i tratti. In questo senso, prendendo a prestito una espressione di San Paolo che Carl Schmitt ha messo al centro della sua teologia politica, ho l’impressione che il passato venga convocato in scena come katechon, ovvero come ciò che ritarda, che trattiene, che contiene lo scatenarsi di qualcosa. Di che cosa? Dell’anticristo, pare volesse dire Paolo (o i suoi interpreti, che variamente vedevano il katechon come figura della chiesa, o dell’impero). E come definiva Paolo l’anticristo? Lo definiva il figlio dell’“anomia”, dell’assenza di nomos, legge, norma, senso. È l’anomia contemporanea che ci fa paura, il mondo e le vite interamente in preda all’insensata irrazionalità mercantile e finanziaria, una forza sterminata, una deriva inarrestabile che nessuna morale (la chiesa, ovvero l’ideologia) e nessuna spada (l’impero, ovvero la politica) riesce più a trattenere. Nel Novecento dei conflitti (e nei secoli precedenti che gli fanno da allegoria) si lottava ancora. Oggi la lotta è persa, l’anticristo è arrivato. Ti pare che esageri? Va bene, si tratta di metafore. Ma il senso di spavento senza fine (e senza nemmeno quella promessa della fine che era la paura dell’apocalissi nucleare, cui nessuno pensa più), quello è vero e reale. Che ci si volga al passato, che si trattenga il passato, ci si trattenga (e ci si intrattenga) al passato, è da questo punto di vista perfettamente comprensibile. Come se si sospettasse che dar forma coi materiali del presente a quella che a metà Ottocento Marx e Baudelaire avevano chiamato la poesia della vita moderna sia un’operazione già battuta in breccia, un autoinganno colpevole (salvo poi adorare le serie televisive americane, che a quanto pare ci riescono).
Qui si vede del resto come la paura sia strettamente legata al secondo moto passionale di cui ti dicevo, la speranza. Molti degli autori interpellati da Lo Straniero hanno citato Benjamin e la sua idea che la ricostruzione di un frammento di passato andato sommerso (la storia degli sconfitti senza storia, affidata unicamente a una memoria soggettiva sempre rimossa dalla narrazione ufficiale) sia in realtà qualcosa che redime insieme il passato da conoscere e il presente che conosce: lo Jetztzeit, il “tempo ora”, il “tempo-che-è-ora”, il famoso balzo di tigre nel passato, il ricordo che balena nel momento del pericolo. Forse non tutti i conti sono chiusi. Forse il nemico non ha ancora vinto. Forse in quello che è andato storto si annida una potenzialità ancora vitale, un bivio a cui è possibile tornare. Ma pur sempre di tornare, come si vedi, si tratta. Non è mica un caso se Spinoza diceva che paura e speranza sono tutte e due passioni tristi. Un tempo contro il tempo, dunque, risentito, che non accetta che il passato sia andato come è andato perché non riesce a modificare il presente che gli ha fatto seguito.
Non so quanto tu condivida ciò che dico, e quanto lo sottoscriverebbero i tuoi colleghi. Forse è solo una proiezione soggettiva. In ogni caso, ora che l’ho detta mi si chiarisce meglio il fastidio per il modo virtuoso e fin troppo perbene con cui mi sembra che molti scrittori affrontino la questione. Ci sono in gioco cose enormi. Di queste cose enormi avvertiamo tutti la presenza nella nostra vita quotidiana. Perché non essere allora un po’ più radicali? Se la letteratura ha un vantaggio (anche produttivo!; nel senso che la si fa a costi contenuti) è quello di poter guardare in faccia l’abisso. Non varrebbe la pena provarci?
D.O. – Guardare l’abisso. Hai ragione, varrebbe la pena di provarci ad averne la capacità e la forza. Ma di cosa abbiamo davvero paura? Ti avverto: dove scrivo c’è il pieno dominio dello choc. Poche ore fa, nella redazione di un giornale parigino, dodici persone sono state assassinate. Anche questo è il presente: la strage dei satiristi di Charlie Hebdo; è senz’altro vero, come segnali anche tu, che non mi basta e che m’imprigiona (preferisco parlare solo a mio nome), ma non sembra incapace di ferocia e lutto, di morte, di fattualità; quello che gli manca è la facoltà di lasciarsi comprendere. Ossia manca a me. Ossia: nonostante me, un’altra storia sta accadendo ma, a differenza di quanto poterono i miei nonni e i miei padri con la loro storia, io non solo non la agisco, non solo la subisco, ma la subisco senza mappe ideologiche né navigatori satellitari. Sono dunque ammalato di una Orientierungskrise che sembra aggravarsi: è questa la mia autodiagnosi, che già ti citavo sopra con una formula di Koselleck. Allora l’abisso (che potrebbe anche essere l’ostacolo), nell’indigenza del codice per decrittarlo, induce a rinculare nel territorio conosciuto, nel Novecento degli schemi e dei conflitti trasparenti e ormai tradotti; attitudine e medicina di cui non mi sfugge la natura palliativa, visto che il presente (e più che mai il futuro) lo si conosce solo nella misura in cui lo si fa.
C’è un altro aspetto che rilevi, quando scrivi: “Tutta la vita dietro a uno schermo”. È un sintomo grave, secondo me, della mia (della nostra) emarginazione dall’accadere. Lo schermo non è solo il monitor nel quale guardiamo, è lo scudo che ci tiene al riparo dalla realtà. In un incontro pubblico recente, Giorgio Vasta (scrittore cui non manca il coraggio di guardare l’abisso) ragionava sul fatto che sempre più va radicandosi in alcuni di noi una condizione psichica ed esistenziale di claustrofilia, di benessere nel chiuso, nell’angusto, nel non andare fuori. Non è casuale che il tema intercetti un passo di Luca Ricci, l’ultimo che ti cito dall’inchiesta de Lo Straniero: “Sembrerebbe che la Storia – se non proprio la realtà – sia estromessa dalla mia letteratura, e forse è vero, eppure mi pare che indirettamente questo modo di procedere dica moltissime cose della mia generazione, di chi è nato nei settanta, è cresciuto negli ottanta e si è poi formato o deformato nei novanta del secolo scorso: siamo gente che è rimasta al chiuso, console (Intellivision o Atari), computer (Spectrum o Commodore 64, e poi Amiga 500), telefonino, note-book, tablet, smartphone”. Siamo gente che è rimasta al chiuso. Surroghiamo l’esperienza googlando un divenire storico dal quale distiamo sempre più, avendo noi scelto di abitare un luogo e un tempo di conoscenze mediate, ossia multi e massmediali, iperreali, spettacolari che ci fanno sia inermi, sia illesi. Siamo entrati in un campo di concentramento, e nel Ghetto di Varsavia, grazie a un film di Spielberg o Polanski. Videogame e playstation ci portano nei territori della guerra. Ogni accadere, che sia odierno o passato, è per noi disponibile previo il filtro dello schermo. Persino nei musei che visitiamo la storia è tutta una resurrezione digitale e materiale di fossili: immagini, suoni, oggetti, memorabilia. Fingendo di riviverla, anche fisicamente, apprendiamo la storia. Ma è davvero questo il metodo giusto? Davvero dobbiamo far finta? E quanto influisce tutto questo sulla nostra letteratura, sulla sua timidezza oppure sul suo coraggio?
D.G. – Caro Davide, in effetti gli appelli al radicalismo ti si gelano in gola non appena vedi con la bruciante concretezza di questi giorni cosa succede quando si arriva ad una stretta; e siamo solo all’inizio, purtroppo. Ho passato come immagino anche tu un sacco di ore incollato a internet a leggere articoli e commenti, patisco la tua stessa difficoltà di orientamento, e la cosa che più mi accora è il fatto che, se si dovesse tracciare un diagramma dei discorsi in campo, tutto sarebbe riconducibile a un’opposizione tra opinioni ottuse e opinioni decaffeinate. Queste ultime faranno senz’altro meno male al cuore, ma non lo curano di certo.
Mi chiedi se, alla resa dei conti, questo rapporto con la storia sempre un po’ difensivo, regressivo, rinunciatario (visto che non facciamo la storia di oggi, raccontiamoci almeno la storia di ieri, che aveva una forma e un senso, a differenza della nostra), non sia insidiato dal rischio della simulazione più o meno consapevole: far finta. Io penso di no. Io penso che l’impulso che lo muove sia fondamentalmente sincero, e veritiero. Un’ammissione di debolezza presuppone sempre un rapporto con la realtà (a far finta è chi si pretende forte quando non lo è). Ma forse, a sgomberare del tutto il campo dal sospetto, varrebbe la pena di recuperare almeno un assunto del tanto vituperato storicismo.
Noi siamo cresciuti tutti sotto la costellazione di Benjamin, e lo storicismo era la sua bestia nera: il tempo omogeneo e vuoto, la storia aggregata al carro dei vincitori, eccetera. Aveva ragione. Ma c’era una cosa implicita nella concezione storicistica che io credo sia male vada perduta, e cioè l’idea di una relativa inconfrontabilità dei tempi storici. Gli uomini e le donne del passato non erano come noi; possiamo paragonarci ma non identificarci, comprenderli (alla fin fine, diceva Vico, si tratta sempre di modificazioni della stessa mente) ma non conoscerli interamente, pena il fraintendimento, la mistificazione, l’uso allegorico più piatto e sempre in qualche modo violento: la storia in maschera. Dal sospetto di spianare l’eterogeneo non esce mondo nemmeno il metodo allegorico benjaminiano, anche nel caso in cui lo si eserciti dalla parte degli oppressi. Gli altri non sono noi. Le singolarità non sono sovrapponibili. E’ impossibile accostarsi al passato senza far intervenire un principio di analogia (altrimenti ci resterebbe interamente alieno). Ma altrettanto forte deve essere il gioco della differenza. Continuità e discontinuità devono essere tenute in una dialettica costante, altrimenti sì che dal “balzo di tigre nel passato” si arriva inevitabilmente alle playstation.
Gli altri non sono noi, d’altra parte, è un assunto purtroppo o per fortuna valido non solo nel tempo ma anche nello spazio, nella nostra stessa contemporaneità. Ci sono in giro, qui e ora, a casa nostra e altrove, molti altri che non vogliono essere come noi. Prova ad applicare il criterio delle analogie e delle differenze agli attentatori di Parigi. Da una parte vedrai dei classici emarginati di periferia; dall’altra delle persone che in nome di una idea sono disposti a fare una cosa feroce e stupida come uccidere e farsi uccidere. Tu lo faresti? No. Puoi comprenderli (il che non vuol dire giustificarli; ma smettiamola anche con questa perenne aura di tribunale)? Probabilmente sì, almeno in parte. Puoi pensare di fare qualcosa insieme a loro? Chi lo sa. Questo è il problema, no? Ma questo vorrebbe dire oggi fare la storia. Se la guardiamo così, la storia finisce davvero per apparirci il grande ballo delle differenze – differenze con cui, tra l’altro, è molto più facile scontrarsi che incontrarsi.
Se questo è vero, bisogna dire che la letteratura, in quanto discorso esente da un’immediata verifica fattuale, ha una bella carta da giocare. Può sperimentare l’alterità sapendo bene che una componente di finzione è inevitabile nel rappresentarsi l’altro, il che implica sempre in parte anche il rappresentarsi come altro. Finzione consapevole non equivale però a discorso menzognero. Il pericolo comincia quando il principio di analogia domina incontrastato e si rappresenta tutta la realtà, presente e passata, alla luce delle categorie etiche e affettive di chi la conosce oggi. Abbandonata a se stessa, l’analogia si riduce a tautologia: vediamo solo noi stessi, immaginiamo solo quello che sappiamo già, riformattiamo l’alterità che ci provoca, ci sfida e ci seduce insieme, negli schematismi del Blockbuster hollywoodiano (chi più gore, chi più eroico, chi più piagnone). Siamo monolinguistici. Ma a me viene in mente che secondo Proust i bei libri sono scritti sempre in una sorta di lingua straniera. E’ una cosa di cui abbiamo davvero un estremo bisogno, oggi più che mai, e dunque un bel compito che ti sta davanti, visto il mestiere che ti sei scelto. Tanti auguri allora, e un abbraccio.
* Pubblicato su Nuovi Argomenti (69, 2015), col titolo Gli altri non sono noi.
(nella foto in copertina: partigiani, Archivio Storico Cgil Nazionale)