Tra i bicchieri del Boccaccio. L’invenzione borghese del vino di qualità
di Giovanni Palmieri
Nel giugno del 1300 papa Bonifacio VIII invia a Firenze un’ambasceria guidata dal cardinale Matteo d’Acquasparta con lo scopo ufficiale di pacificare le fazioni rivali dei Bianchi (Cerchi) e dei Neri (Donati), i cui esponenti di spicco saranno di lì a poco esiliati. Tra questi, com’è noto, vi sarà anche Guido Cavalcanti. L’ambasceria aveva in realtà il vero scopo di favorire occultamente la fazione dei Neri, cercando una strada per l’annessione di tutta la Tuscia al Patrimonio di San Pietro, grazie anche a sapienti maneggi imperiali e ad alleanze economico-politiche in Firenze.[1]
Gli ambasciatori sono ospitati da messer Geri Spina, uno dei capi neri. Ruggero Spini[2] (? – morto già nel 1332), legato da lontana parentela coi Caetani, fu un nobile cavaliere fiorentino nonché ricchissimo banchiere al servizio di Bonifacio VIII. Che caso!
Un anno dopo (nell’ottobre del 1301) Dante partirà per Roma, per sondare i veri scopi dell’ultima missione del papa: quella militare di Carlo di Valois, il “paciaro”… Non tornerà più e nel 1302 sarà condannato all’esilio perpetuo e al rogo qualora fosse capitato tra le mani del governo cittadino ormai guidato dai Neri.
Questo l’importantissmo contesto storico della nostra novella intenzionalmente accennato dal Boccaccio per pochi tratti al solito eufemistici, sornioni e del tutto complici col lettore del tempo che (a circa sessant’anni di distanza) doveva certo conoscere la storia politica di Firenze in tutta la sua drammaticità.
Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva.[3]
Su questo scenario storico, dovremmo tornare… Per ora mi limito a dire che Palazzo Spini (1289), un vero fortino blindato, si trovava e si trova a Firenze all’imbocco di via Tornabuoni presso il ponte di Santa Trìnita. Nel 1300 un “Cisti fornaio” (Bencivenisti) figurava tra gli elenchi dei confratelli della chiesa di Santa Maria Ughi.
Cisti è un fornaio diventato ricchissimo che vive splendidamente bevendo sempre “i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado”.[4] Un giorno ha l’idea di offrire “un suo buon vino bianco”[5] a Geri Spina e al suo seguito. Perché? Il testo non lo dice ma lo lascia intuire…
Non potendo per questioni di casta invitare direttamente alla degustazione Geri e gli ambasciatori, organizza una suggestiva operazione promozionale che nasconde una precisa strategia di marketing di lungo periodo. Nei pressi della sua bottega, dove passavano tutti i giorni i dignitari della legazione papale, davanti al suo uscio, fa portare un secchio d’acqua freschissima, delle belle panche, dei bicchieri di peltro lucidato (e non di terracotta) che parevano d’argento e “un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vino bianco”.[6] Messosi poi a sedere in vista di Geri Spina e del suo seguito, dopo essersi spurgato la bocca rumorosamente, vestito con un bellissimo farsetto bianco e con un grembuilino di bucato, Cisti comincia a bere il suo vino sì ch’egli “ne avrebbe fatto venir voglia a’ morti”.[7]
La scena si ripete sino a quando, il terzo giorno, Geri non resiste e chiede a Cisti se il vino è buono e questi glielo offre. Trovatolo ottimo, l’illustre bevitore lo raccomanda ai suoi ospiti ma quando i servi fanno per lavare i bicchieri, il nostro fornaio interviene dicendo che solo a lui tocca la mescita e che essi non devono sperare di poter assaggiare il suo vino… Come a dire che il vino in questione non è un “vino da famiglia” ma un vino d’élite.
Dopo di che, lavati quattro bicchieri, Cisti dà da bere a Geri e ai suoi compagni. Il vino avendo avuto gran successo, la bevuta si ripete quasi ogni mattina.
Un bel giorno, finita la missione, Geri fa invitare Cisti al suo magnifico convito di commiato. Avendo quest’ultimo rifiutato, il signorotto nero chiede a un suo servo di andare dal fornaio per chiedere del suo vino nella misura di un solo fiasco e in ragione di un “mezzo bicchiere per uomo alle prime mense”.[8] Il servo, invece, va da Cisti con un “gran fiasco” forse “sdegnato” – come precisa il testo – “perché niuna volta bere aveva potuto del vino”.[9] A questo punto Cisti si rifiuta di dare la sua merce affermando che non poteva certo essere messer Geri il mandante d’una tale richiesta. Riferito ciò a quest’ultimo, il servo torna da Cisti con le istruzioni del suo padrone il quale gli ha detto che se il fornaio avesse ancora affermato che non era Geri a mandarlo a lui gli domandasse a chi lo mandava… Tornato da Cisti, il servo si vede nuovamente rifiutata la richiesta con la spiegazione ironica che evidentemente Geri non mandava il suo servo a lui ma al fiume Arno.
A questo punto, fattosi mostrare dal famiglio il grande fiasco da questi scelto, Geri capisce… e affida al servo un fiasco di misura “convenevole”.[10] Solo allora Cisti lo riempie di vino e lo stesso giorno si reca al palazzo di Geri. Dice infatti il testo in sede conclusiva:
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse:
– Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co’miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico.[11]
Considerazioni decisive
Diventato ricchissimo, Cisti, che continua a fare il fornaio e non diventa certo vignaiolo, decide di investire il suo capitale in un mercato che ancora non esisteva ma che cominciava ad avere una sua ragion d’essere: quello del mercante di vini e in particolare di vini di pregio che potevano provenire anche da posti lontani dalla città in cui sarebbero stati venduti.
Che Cisti si proponga a Geri Spina come mercante di vino è un dato oggettivo dato che, alla fine della novella, egli si premura di dire al suo futuro cliente che se non aveva riempito il grande fiasco non era certo perché si era spaventato per la quantità… Come a dire che lui di vino ne aveva eccome… E infatti gli porta in regalo un’intera botticella d’un altro suo vino “simile” a quello già offerto… Ed è significativo, dal nostro punto di vista, che si tratti d’un altro vino anche se, supponiamo, sempre di grande qualità.
Lo spazio commerciale specifico del mercante di vini non esisteva ancora. Non contando i doni occasionali, anche i magnati ricorrevano, infatti, o al proprio vino o a quello del monastero vicino o a quello dozzinale delle vigne di città. Insomma dal produttore al consumatore ma con tutti i vincoli e i limiti del mondo medioevale.
Grazie dunque ad una sapiente strategia di marketing, fatta di spettacolini promozionali e di riti enologici adeguati (bicchieri puliti, orcioletti nuovi di fabbricazione bolognese, mescita ecc.), Cisti propone se stesso come mercante di vini di pregio, come intermediario cioè d’una merce difficilmente raggiungibile anche dai potenti. E vince!
Vince perché c’è da supporre che dopo le varie promozioni gratuite, dopo i vari doni, la prossima volta che Geri chiederà del vino all’ “amico” Cisti lo pagherà, e lo pagherà molto salato. Insomma dietro al valore simbolico del dono, tipico dell’ideologia feudale, si sta prepotentemente affacciando nella società trecentesca il valore economico dello scambio tipico dell’ideologia moderna. I doni nascondono e preparano gli scambi.
È inutile che dica che il target di tale commercio è quello dei magnati o del populus grassus, cioè un target alto, perché ciò risulta evidente considerando le persone che Cisti sceglie per la sua efficace dimostrazione promozionale.
È questa l’invenzione borghese del vino di qualità in contrapposizione al “vino da famiglia”(cioè per la servitù), che poi sarebbe il nostro vino da pasto. Una contrapposizione esplicitamente segnalata per ben tre volte proprio dal testo. Inoltre – come dice giustamente Savelli[12] – il vino di Cisti non è più quello, tipico in Boccaccio, della festa popolare, del Carnevale o della Cuccagna… Non è più il vino col quale ubriacare gli altri e ubriacarsi per divertimento. È un vino da intenditori, da gente che sa sorseggiare orazianamente. È un vino, insomma, in cui la qualità deve prevalere sulla quantità.
Ma c’è di più. C’è sempre di più in Boccaccio: il mercante, il futuro mercante, anche se è diventato ricchissimo, rispetta ancora le forme di reverenza nei confronti dei nobili magnati, ma morde il freno e, con l’arma arguta dell’ironia, comincia a rifiutare la mediazione dei servi, imponendo di fatto trattative e rapporti diretti tra lui e il compratore. Cisti non accetta infatti l’invito al convito di Geri soltanto perché questi non lo invita direttamente ma lo fa invitare dai servi (“fecevi invitare”,[13] non lo “invitò”).
Insomma, il borghese, arricchitosi, non solo vuole contare di più nella rappresentanza politica (cosa che gli riesce già), ma vuole anche essere socialmente riconosciuto. Cosa che ancora non gli riesce. È vero che i Bianchi sono l’espressione politica degli interessi dei nascenti borghesi, gelosissimi politicamente delle autonomie comunali e avversi al potere temporale della Chiesa… Ma lo sono ancora in prospettiva e gli interessi economici della nuova classe rimangono subordinati ai valori culturali della vecchia nobiltà feudale. Cisti, che politico non è né vuole essere, desidera innanzitutto essere socialmente riconosciuto da gente come Geri Spina… gente da cui è invidiato per la ricchezza ma disprezzato per lo status.
E Boccaccio, per bocca di Pampinea, ce lo dice affermando nella moraluzza introduttiva che spesso nelle arti e nei mestieri, reputati “più vili”, si nascondono “le cose più care”.[14] Sotto al velame di questa ennesima esaltazione dei valori della nobilitas animi in opposizione a quelli della nobilitas generi si trova proprio il discorso politico del riconoscimento sociale. Del resto, la diffusissima e stucchevole rivalutazione della nobilitas animi serve solo, a parer mio, a celare il vero problema che è il riconoscimento sociale e politico delle classi non nobiliari che sono in ascesa. Non quello di una loro generica rivalutazione letteraria e morale.
Dobbiamo ora tornare per un attimo al contesto storico della missione del cardinale Matteo d’Acquasparta: Boccaccio accenna, come s’è detto, ma suggerisce anche qualcosa. Qualcosa che non deve sfuggire al lettore attento. Scrive infatti ad un certo punto che Geri Spina cede alle lusinghe bacchiche ordite da Cisti o perché vinto dalla “qualità del tempo” (cioè dal caldo) o perché il “saporito bere” di Cisti aveva ingenerato in lui per suggestione la sete. Oppure perché (badate bene) Geri “affanno più che l’usato [aveva] avuto”.[15] Già… Come andava infatti la missione di Bonifacio VIII? Andava male… molto male. La nostra fonte è al solito Dino Compagni.[16]
Il legato pontificio arriva in città ai primissimi di giugno, dopo gli scontri di Calendimaggio nei quali i Neri avevano attaccato e ferito i Bianchi. Tra gli assalitori v’era anche il figlio di Geri Spina. Qualche mese prima i Priori avevano condannato alcuni banchieri neri, accusandoli di tramare contro gli interessi del comune. Tra questi figurava anche Simone Gherardi del banco Spini. La cosa aveva fatto infuriare Bonifacio che inutilmente aveva chiesto la revoca della condanna.
I Priori bianchi del governo cittadino, giustamente sospettosi, non conferiscono al legato pontificio alcuna delega per prendere decisioni operative. Il 23 giugno, però, alla vigilia di San Giovanni scoppiano violenti tumulti, a seguito dei quali i Priori decidono di inviare al confino i capi più facinorosi delle fazioni. Tra questi per parte nera vi era anche Geri Spini che come i suoi non si recò al confino. Forse anche da qui il suo affanno…
Giova a questo punto ricordare che Boccaccio[17] aveva commentato il canto VI dell’Inferno dove si trova la famosa profezia di Ciacco (vv. 64-66): “Dopo lunga tencione / verranno al sangue, e la parte selvaggia/ caccerà l’altra con molta offensione”. Con “verranno al sangue” Dante si riferisce agli scontri armati tra Bianchi e Neri cominciati presso la Chiesa di Santa Trìnita a Calendimaggio del 1300; scontri nei quali Ricoverino de’ Cerchi ebbe a spregio il naso tagliato dai Neri, pare proprio dal figlio di Geri Spina durante una scorribanda a cavallo. Altri scontri armati poi avverranno il 23 giugno durante la festa di San Giovanni. Quanto alla “cacciata” dei soli Neri da parte dei Bianchi (“la parte selvaggia”), Dante si riferisce al giugno del 1301 quando i Bianchi, avendo scoperto l’ennesima congiura dei Neri contro i Cerchi e i loro seguaci, bandiranno i Neri più faziosi dalla città; tra questi Corso Donati, Geri Spini, Pazzino de’ Pazzi, e Rosso della Tosa.
Proprio in seguito agli scontri di San Giovanni, il 27 giugno, Matteo ottiene dal Consiglio dei Cento la “balìa” con poteri però depotenziati. Ogni “atto” da lui deciso doveva ricevere infatti l’approvazione del Consiglio. Seccante….
Non ottiene successo neanche il suo tentativo di imporre una legge elettorale che avrebbe favorito l’ingresso al governo dei Neri.
Ormai la missione di Matteo d’Acquasparta, che ha scontentato tutti, è fallita. In queste circostanze, tra il 15 e il 18 luglio, un popolano con poco cervello scaglia una freccia di balestra contro la finestra del Palazzo vescovile dove risiedeva il legato pontificio. I priori cercano di sopire le ire del cardinale, offrendogli una coppa d’argento ripiena di duemila fiorini d’oro, ma Matteo rifiuta.
Scrive velenosamente Dino Compagni da testimone diretto e riferendosi al cardinale: “I Signori, per rimediare allo sdegno che avea ricevuto, gli presentarono fiorini nuovi. E io gliel portai in una coppa d’ariento e dissi: ‘Messere, non li dísdegnate perché siano pochi, perché sanza i Consigli palesi non si può dare più moneta’. Rispose gli avea cari; e molto li guardò, e non li volle” (Cronica, I, XXI).
La reazione di Bonifacio è furiosa: egli ordina in pratica al suo delegato l’arresto di tutti i reggitori del comune con ogni mezzo possibile. Matteo si appella allora a Lucchesi, ostili a Firenze, cercando di ottenere milizie armate… I Priori, tra cui Dante, reagiscono chiamando in soccorso Bologna e si assicurano l’appoggio di Pistoia. Scongiurato lo scontro armato, l’iniziativa del cardinale non va in porto ed egli lascia la città tra il 28 e il 29 di settembre, non senza aver prima lanciato la scomunica su Firenze e “l’interdetto”.[18]
Alla scomunica, Bonifacio aggiunse inoltre la confisca dei beni di tutti i reggitori del comune. Va infine ricordato che, con ogni probabilità, l’attentato a Matteo d’Acquasparta, come anche i tumulti precedenti, furono organizzati ad arte solo per dare il pretesto a Bonifacio VIII di colpire ancora una volta i Bianchi.
Quale vino bianco?
Boccaccio non lo dice intenzionalmente ma si possono comunque fare delle ipotesi. Certamente un bianco secco, vista la stagione e il fatto che nel testo si fa espressamente riferimento alla sete. Ma quale tipo di bianco?
Nella seconda novella della decima giornata del Decameron, Ghino di Tacco, come medicamento per il mal di stomaco, serve all’abate di Cluny “un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia”[19] (nelle Cinque Terre).
Anche nella celebre novella di Calandrino e l’elitropia (terza dell’ottava giornata), Maso, descrivendo il paese del Bengodi, afferma che “ ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua”.[20] La “vernaccia” è citata infine anche nella sesta novella dell’ottava giornata.[21]
Questo vino, d’ascendenza ligure ma tanto celebre da essere diventato sinomimo d’un qualsiasi bianco, era del resto già stato ricordato da Dante (Pg, XXIV, 24) e sarà poi menzionato anche da Cecco Angiolieri, da Folgòre da San Giminiano, dal Buonarroti, dal Redi ecc.
Che la provenienza ligure della Vernaccia fosse conosciuta è testimoniato anche da Salimbene da Parma (1221-1288) nella sua Chronica, dove infatti possiamo leggere che “vinum de Vernacia […] nascitur in quadam contrata quae Vernatia appellatur” (‘il vino Vernaccia nasce in quel territorio ch’è chiamato Vernazza’).[22] Anche il Buti, l’importante glossatore di Dante Francesco di Bartolo da Buti (ca. 1324-1406), nel suo commento alla Commedia asserisce che la “Vernaccia è vino che nasce ne la riviera di Genova, millior vino bianco che si trovi”.[23] Negli Ordinamenti della Gabella del Comune di San Gimignano del XIII secolo, si trova l’imposizione di una tassa di “tre soldi” per ogni “soma” di Vernaccia fuori Comune e l’istituzione di un registro dei Provveditori comunali di quel vino, che dovevano sovraintendere alle gabelle e alla selezione delle migliori Vernacce.[24] Quindi almeno fin dal Duecento la Vernaccia aveva acquistato grande notorietà e valore presso le tavole dei nobili e dei magnati. Quelli che – appunto – riuscivano a procurarsela.
Mi piace dunque immaginare in sede conclusiva che il buon vino bianco di Cisti fosse proprio la Vernaccia ligure o quella di San Giminiano, trapiantata in terra toscana sin dal XIII secolo. Un’altra opzione? Il Trebbiano… ma è tardi e il discorso si farebbe troppo lungo.
( testo dell’intervento tenuto il 28 marzo 2015 nell’ambito del primo bookpride di Milano)
[1] Tutti i dati storici del presente studio provengono dalle fonti primarie di Dino Compagni (Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di Gino Luzzato, Einaudi, Torino 1968, c. I, 21; c. III, 19-sgg) e di Giovanni Villani (Nuova cronica, a cura di Giovanni Porta, Fond. Pietro Bembo, Guanda, Parma 1990-91, VIII, 43). Mi sono utilmente avvalso anche dello studio di Federico Canaccini, Bonifacio VIII e il tentativo di annessione della Tuscia, in “Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo”, n. 112, 2010, pp. 477-501. Sulla novella boccacciana di Cisti, vd. Giulio Savelli, La misura del privilegio: il vino di Cisti fornaio, in Soavi sapori della cultura italiana (Atti del Convegno dell’AIPI, Verona-Soave 27-29 agosto 1998), a cura di Bart Van den Bossche, Michel Bastiansen e Corinna Salvadori Lonergan, F. Cesati ed., Firenze 2000, pp. 189-195.
[2] Spini è il vero nome del casato di Geri. Non sappiamo perché Boccaccio lo chiami invece Spina.
[3] Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Cesare Segre, Mursia 1987, p. 386-387. Da questa ed. tutte le citazioni del Decameron.
[4] Ivi, p. 387.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 388.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, pp. 388-389.
[12] Giulio Savelli, La misura del privilegio: il vino di Cisti fornaio, cit., pp. 190-191.
[13] Decameron, cit., p. 388.
[14] Ivi, p. 386.
[15] Ivi, p. 387.
[16] Vd. qui n. 1.
[17] Vd. le boccacciane Esposizioni sulla Comedia, a cura di Giorgio Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, Mondadori, Milano 1967, vol. VI, 1965.
[18] L’interdetto era una misura ecclesiastica che impediva a coloro che ne erano colpiti la partecipazione alla Messa e ai sacramenti. Impediva però (e ciò scontentava i banchieri, anche quelli neri) di riscuotere i debiti.
[19] Decameron, cit., p. 598.
[20] Ivi, p. 480.
[21] Ivi, p. 493.
[22] Salimbene da Parma, Chronica, a cura di Federico Bernini, Laterza Bari 1942.
[23] Commento di Francesco da Buti sopra la Divina commedia di Dante Allighieri, Fratelli Nistri in Pisa 1860, 2 vol., p. 537.
[24] Cfr. Orazio Bacci, La vernaccia dell’abate di Clignì, in “La Fanfulla della Domenica”, a. XXIX, n. 30, 1907.