La tazzina dell’antiquario*
di Filippo Tuena
Della vecchia galleria conosci certamente qualche immagine, come quelle due gigantografie appese nel breve corridoio della casa di Roma. In quella che raffigura l’interno, si nota chiaramente il bel pavimento in listoni di parquet. Papà alla fine degli anni ’50, apportò alcune modifiche al negozio, come appunto la sostituzione del parquet con delle mattonelle di graniglia.
Una cliente, quando entrò a far visita alla nuova galleria, rimase inorridita: «Tuena – disse – che cosa ha combinato?». In effetti il parquet antico era piuttosto affascinante ma sotto l’impiantito, raccontava papà, per giustificare la sistemazione, si sentivano correre i topi che scendevano a frotte dal Pincio attraverso qualche cunicolo sotterraneo e il vecchio legno s’era marcito in più punti.
La prima macchina, una Fiat 1100 grigia e bianca, la com- prò con i profitti della nuova attività. Credo verso il 1953, quando nacqui io. Prima forse usava la macchina di nonno perché, essendo nata tua zia Maria Cristina, non credo che mamma e papà potessero più servirsi della Lambretta 125 che era stato il loro mezzo di locomozione appena sposati. Un pic- colo lusso in tempi di dopoguerra quando le autovetture erano ancora rare.
Con quella Lambretta papà andava a lavorare in banca e portava mamma a fare gite fuori porta la domenica.
Per un certo periodo fece anche altri strani lavori, come il piazzista di stoffe – flanella, lana per coperte – e raccontava spesso di viaggi nell’entroterra sardo non so se per acquistare lana o cercare di vendere i prodotti che commercializzava. Al contrario dei fratelli, che avevano frequentato il liceo classico, papà aveva compiuto studi commerciali. S’era diplomato in ragioneria e, forse per rivincita contro quella che gli sembrava una decisione sbagliata – erano stati i nonni a scegliere per lui quell’indirizzo – unico tra i fratelli, aveva proseguito gli studi fino a laurearsi in Economia e commercio. Per questo era entrato in banca, anche se penso che avesse cominciato a lavorare prima di completare gli studi. La passione per i numeri, per i conti gli era rimasta e come ti dicevo, era solito passare ore a stilare tabelle numeriche su quei fogli protocollo a quadretti che affollavano la sua scrivania anche quando forse avrebbe dovuto interessarsi di più a mobili e dipinti antichi.
Per l’arte aveva un certo gustaccio, un’intuitività non peregrina; era attratto dalle apparenze più che dalla sostanza e fu un grande decoratore piuttosto che un esperto d’arte. Amava le commodes romane barocche, intrecci di legni dorati e inta- gliati, sormontati da grandi e spessi piani di marmi colorati. Soprattutto amava le sculture antiche, i frammenti romani di statue, cornicioni e capitelli. Sempre sorretto da un prodigioso intuito piuttosto che da studi specifici, aveva sviluppato un occhio attento, quasi infallibile.
Nei primi tempi del lavoro antiquario venivano spesso a trovarlo colleghi più anziani, amici di nonno che volentieri gli confidavano i trucchi del mestiere. Raccontava gustosi aneddoti. Un giorno si presentò un vecchio antiquario, molto elegante, che si aiutava a camminare con un bastone. Prese due porcellane da una vetrina della galleria e le mise su un tavolo. Poi alzò il bastone e mandò in frantumi una delle due chicchere. Papà lo guardò sbigottito. «Era falsa», disse l’anziano collega. «E anche questa», disse indicandone un’altra dentro la vetrina. Papà pensava che avrebbe rotto anche quella ma l’antiquario la prese delicatamente e la mise accanto a quella antica.
«Guardale spesso, quella falsa e quella buona. Toccale, soppesale, osservale. Tienile sempre sulla tua scrivania. Tra qualche settimana noterai la differenza e non commetterai più errori. È un buon esercizio e vale per tutti gli oggetti: dipinti, sculture, mobili. Vale anche per le amicizie. Quelle vere e quelle false».
*estratto da Quanto lunghi i tuoi secoli – Archeologia personale (2015, PGI – ProGrigioni Italiano edizioni)