In articulo mortis
Il dattiloscritto rifiutato
di
Luca Ricci
Ai fini di questa storia- che forse non vuol dire nulla, tranne che siamo tutti miserabili, nessuno escluso, buoni e cattivi, vittime e carnefici- il mio nome conta molto meno della mia occupazione. Sono un editor, cioè un redattore editoriale che, tra le altre sue mansioni, si occupa di tanto in tanto di leggere e valutare i dattiloscritti che giungono in casa editrice. Non ricordo come venni in possesso del libro di cui voglio parlare (oggigiorno poi quasi tutti inviano tramite e-mail), forse qualcuno l’aveva prelevato dalla portineria e l’aveva poggiato sulla mia scrivania per errore. A ogni modo si trattava del dattiloscritto di un ignoto, nessuna raccomandazione ne aveva preceduto l’arrivo.
Una lettera trascurabile scritta a biro- calligrafia dozzinale, senza dubbio maschile, un po’ incerta- accompagnava il plico. In calce, subito prima della firma dell’autore, campeggiavano due numeri telefonici: un fisso e un mobile. La vista di quei numeri m’irritò immediatamente, era un tentativo di farsi rintracciare che sembrava già una supplica. Sì, fu per la vista di quei numeri, credo. Afferrai il dattiloscritto, ne sfogliai qualche pagina distrattamente e poi sbuffando lo misi sotto a una pila di lavori più interessanti e urgenti. In quella posizione, cioè da ultimissimo, il manoscritto passò almeno un paio di mesi. Poi, del tutto casualmente, presi io la telefonata che il suo autore aveva osato fare alla casa editrice, ignorando la prassi che è quella di aspettare una risposta scritta che nella maggior parte dei casi suona più o meno così: “Abbiamo letto con vivo interesse il suo romanzo ma non rientra nella nostra linea editoriale…”.
– Posso esserle utile?- domandai scocciato, appena collegai quel nome al dattiloscritto.
– Volevo solo sapere se avevate letto il mio libro.
– Non ancora, non ancora.
A quel punto l’autore prese un tono lamentoso che lo fece definitivamente approdare nella categoria degli scocciatori: – Ma sono già passati più di due mesi da quando ve l’ho spedito.
Attaccai e per un momento ebbi chiaro l’impulso di afferrare il manoscritto e buttarlo nel cestino che era proprio lì, a due passi dalle mie gambe distese sotto la scrivania. Mi trattenne solo uno stupido senso del dovere, stupido perché in cuor mio sapevo benissimo che per quel libro era finita, il suo autore con quell’atteggiamento respingente ne aveva decretato l’insindacabile morte prematura.
Richiamò una settimana dopo, chiedendo esplicitamente di me a chi gli aveva risposto, perché ero stato talmente ingenuo da dirgli come mi chiamavo.
– Ci siamo sentiti una settimana fa,- mi disse.
– Mi ricordo perfettamente di lei, ma deve capire che le tempistiche editoriali sono lunghe, molto lunghe.
– Potrò richiamarla quando crede, mi dica solo una data.
Deglutii a fatica, quasi spezzai il lapis che stringevo tra le dita: – Non funziona così, guardi. Le spiego: la casa editrice legge con i tempi e i modi che le sembrano più consoni, e poi invia una risposta scritta. E questo è tutto.
Credevo di essermi spiegato, erano cose semplici da capire, ci sarebbe voluto solo un po’ di buon senso, invece dopo una settimana esatta da quel discorsetto l’autore era di nuovo alla cornetta.
– Ha capito che cosa le ho detto la scorsa settimana?- domandai, ormai fuori di me.
– Sì,- ammise l’autore, e poi raddolcì la voce in modo davvero subdolo. – Volevo solo sapere se avevate iniziato a leggerlo, magari anche solo una sbirciatina alle prime pagine.
Disse proprio così: sbirciatina. Con tutto quello che avevo da fare- la ridda di incontri, autori e testi che mi frullavano per la testa-, lui aveva il dubbio che io avessi potuto dare una sbirciatina, così, di sfuggita, al suo libro. Lo ammetto, fui molto scortese e gli attaccai quasi il telefono in faccia. Una settimana dopo richiamava, per quello che ormai era diventato una specie di appuntamento fisso tra noi: si andava di lunedì in lunedì, e non c’era modo che sgarrasse, non ne saltava neanche uno.
– Ha letto?- mi diceva, con un intercalare atono, difficilmente attaccabile.
Rispondevo secco: – Non ancora.
Passato qualche mese i nostri rapporti settimanali presero una piega bizzarra. Attraverso le nostre brevi frasi di servizio capii che l’autore non voleva avere effettivamente un giudizio, ma si crogiolava nell’attesa. Quel supplizio in fondo era un limbo rassicurante, fatto di speranza, prima che un sì o un no giungesse a modificare la situazione in modo permanente.
– Neanche questa settimana siete riusciti a leggere il mio libro, vero?- chiedeva l’autore, sapendo perfettamente quale sarebbe stata la risposta.
Dal canto mio ormai avevo recuperato il controllo della situazione, aveva capito che quelle telefonate non erano frutto di un’insistenza, avevo compreso che avrei potuto anche non leggerlo mai, quel dannato libro.
– Purtroppo neanche questa settimana ce l’abbiamo fatta,- gli dicevo, con un rammarico un po’ sadico di cui avrei dovuto vergognarmi.
– Oh, che peccato- diceva l’autore. – Magari sarà per la settimana prossima, altri sette giorni d’attesa in fondo cosa mai potranno essere?
– Infatti,- rincaravo la dose io. – Un altro po’ di pazienza e poi forse sapremo…
Quanto durò? Sette, otto mesi. Poi le telefonate cessarono di colpo. Per un paio di settimane mi sentii sollevato, poi cominciai a preoccuparmi. Che l’autore si fosse stancato di quel giochino? Che alla fine avesse perso la pazienza prima di me? Che- ed era l’ipotesi peggiore, quella che mi faceva letteralmente impazzire- qualche altro editore gli avesse dato la risposta che attendeva? Il terzo lunedì senza chiamate recuperai la lettera d’accompagnamento, che era ancora dentro la busta insieme al dattiloscritto. Composi il numero del telefono fisso col cuore in subbuglio e le mani che mi tremavano.
– Pronto?- domandò l’autore.
– Non si è fatto più sentire,- lo incalzai.
– Mi scusi,- farfugliò lui, un po’ in difficoltà. – Sono stato occupato in altre faccende, ma non voglio annoiarla.
Altre faccende? Ma come si permetteva di lasciare in secondo piano la valutazione del suo dattiloscritto, la cosa più importante della sua vita (che immaginavo in fondo assai grama e priva di altre attrattive che non fossero quelle assai vaghe di aspirare a una qualche gloria letteraria)?
– Lei non deve più permettersi di saltare neanche un lunedì!- urlai. – Sono stato sufficientemente chiaro?
Mi disse che avrebbe senz’altro ripreso a chiamarmi eppure il lunedì successivo il telefono rimase muto. Provai a fregarmene, in fondo mi ero liberato di un peso, non sarei dovuto certo essere io a provare la sua mancanza, era lui che dipendeva da me, nella Sindrome di Stoccolma è la vittima che ama il carnefice! Strano a dirsi, ma resistetti solo un’altra settimana. Cercai di nuovo i suoi numeri. Non mi rispose né al fisso né al mobile. Non so per quanti minuti ascoltai quegli squilli, ma di certo un numero sufficiente per attestare uno squilibrio. Sulla busta che conteneva il dattiloscritto c’era anche l’indirizzo dell’autore. Mi ricordavo che abitavamo nella stessa città, così appena terminato il lavoro andai sotto casa sua. Mi attaccai al citofono come un disperato. Venne avanti la portinaia indispettita e allora chiesi di lui.
Fece una faccia greve: – Un cancro, signore.
– E’ morto?
– Gliel’ho detto, signore. E’ morto.
Mi precipitai in casa editrice a leggere, con le lacrime agli occhi.