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Giorgio Manganelli, Lettere senza risposta

Lettere senza risposta, Giorgio Manganelli, Viola Papetti, ritratti nottetempo, Roma 2015
Lettere senza risposta, Giorgio Manganelli, Viola Papetti, ritratti nottetempo, Roma 2015

(Un Manganelli inedito, che per lavorare bene ha bisogno di essere interrotto “con tenere molestie”, che si macera dolorosamente nell’attesa di una cartolina, e che inaspettatamente esperisce la supremazia della voce sulla parola scritta. Nottetempo raccoglie le lettere d’amore inedite di Giorgio alla sua Viola, Viola Papetti, “Viola infine, che altro posso dire, Viola”, scritte fra il 1966 e il 1973, e la corrispondenza della Papetti con Maria Corti, dal 1990 al 1996, dopo la morte di quello che resta, indubbiamente, uno dei maggiori autori italiani del Novecento. F.F.)

“Nulla per lui era indifferente, purché fosse vero; così i suoi discorsi erano singolari”

Lettere a Viola Papetti (1966-1973)

di Giorgio Manganelli

Roma, 26 luglio ’69

Viola, Viola carissima, carissima Viola, Viola infine, che altro posso dire, Viola,
ho ricevuto ora in data ventuno, e sono un altro uomo. Mi sei mancata, mi sei mancata, il tuo silenzio, il tuo ritardo mi hanno angustiato assai più di quello che tu possa immaginare. Ti scrivo subito, scendo subito a spedire, perché se non vieni domani, come spero con tutta l’anima, possa ricevere questa mia, lunedì. Voglio dirti che se ti ho salutato affettuosamente alla partenza, ti accoglierò al ritorno – la dirò quella parola amara e squisita, quella parola diffidente e fantastica, ti accoglierò con amore. Non amo questo telefono vedovo della tua voce. La tua voce blesa e inesatta, una adolescente Viola d’amore. Per lavorare bene, ho bisogno che tu interrompi spesso il mio lavoro con parole, domande, tenere molestie. Il tuo corpo ha popolato questa casa; la tua voce è appesa al mio orecchio; la tua pazienza e insieme – come dirò? – il tuo Dasein, il tuo-essere-lì, insieme sommessa e inevitabile, ha colmato i miei labirinti di tappeti e di segni, sotto i quali forse non c’è più traccia di pareti. Non ti avevo mai scritto in questo modo, non ti avevo mai parlato in questo modo, mai sentito così bruciante, insinuante, magra e languida abitatrice di un cervello che volta a volta ha forma di forca, di letto, di casa, di pianoforte a coda, di acqua, di giardino. Tutto ciò è lievemente risibile, vero? No, non lo è. Ho passato giorni istoriati di solitudine, di assenza; ora leggo il precipitoso riaffiorare di segni densi, intricati, allusivi e fitti. Sono i segni, gli ierogrammi con cui, lentamente, colmo il bianco della tua assenza coi primi indizi del tuo ritorno. Ti abbraccio.

[…]

Roma, ferragosto ’72

Carissima Viola,
ho finito or ora di godere dell’insperato regalo della tua telefonata, che ha cambiato di molto il mio umore. Di molto, e non del tutto perché speravo in un supplemento, perché la telefonata è caduta mentre ti strillavo “ti voglio bene” e non ho avuto risposta, perché non mi hai detto se continuo a mancarti come in quei tuoi primi esili ma languidi biglietti. Ho ripetutamente e vanamente cercato di telefonarti – la teleselezione da Roma l’hanno messa, neanche a farlo apposta, da domenica scorsa. Fino a quattro ore fa ero angustiato dalla tua distanza, dal tuo silenzio, dalla tua mancanza, dalla tua non esistenza, dalla tua assenza, dalla tua reticenza; ma era una tenera angustia da far mettere in sonetto a Pietro Bembo, o volendo dar nell’enfasi al Marino; poi all’angustia lirica è seguito il cruccio; che non riuscissi a parlarti, che tu non mi chiamassi, mi esasperava; che nemmeno mi scrivessi almeno per facilitare una telefonata da parte mia; insomma, ero embittered, e alle due e mezzo ti avrei scritto una lettera lamentosa e rancorosa. Mi hai telefonato con mira femminile un’ora prima ed ora sono lietamente abbattuto. Non mi hai detto nulla di privato, ma dal cruccio che era anche nella tua voce mi permetto di dedurre un rimprovero, e se è rimprovero sarà per aver fatto io men di quello che ti aspettavi, e se a tuo avviso ho fatto meno di quel che ti aspettavi vorrà dire che ti aspettavi di più, e in tal caso il tuo rimprovero verrà per mia deficienza, dunque per inadeguate provviste affettive, dunque per esigenza delle medesime. Avvocatesco come che sia, sillogistico anche, mi racconsola e lusinga codesto razionamento; e ne farò tesoro. Non so quante volte ti ho telefonato in sogno; quante volte ti ho sognato: almeno sei volte. In uno di questi sogni eri una negretta romantica: bizzarra immagine che ho interpretato come una repressione mia di una immagine di te tenera; come per te, il sesso si scioglie in sentimento: dunque una bene amministrata distanza può giovare – juvat absentia, ma ho molto desiderato di vederti e mi manca la tua voce. Per questo la tua telefonata mi ha infinitamente rallegrato: la tua voce sei “tu”, come non riesce ad essere la parola scritta ed affrancata.
Non ho voglia di darti notizie di me, perché ho una voglia gretta e invadente di tenerti chiusa in un breve e trascritto monologo a due; nel quale sarai silenziosa, ma riecheggerai con la tua voce silenziosa di poco fa; certo domani cercherò di telefonarti, ma non spero di ottenere nulla; nella furia affamata della nostra telefonata mi sono dimenticato di chiederti se ti si può telefonare la sera, e fino a che ora. Abbiamo usato male la telefonata, ma contava la voce, il fatto che tu potevi dire cose inutili ma con la tua voce, il resto era caoticamente silenzioso; e poi io non avevo capito che stavi telefonando con le monete, altrimenti avrei cominciato subito con l’orchestra degli archi amorosi, entrati in azione invece a sipario abbassato, in mezzo alla disperazione del pubblico. Comunque, posso pensare che le nostre voci si siano baciate? la mia è tutta sporca di rossetto e ha un’aria di conquistatrice che mi è insopportabile; ma insomma non è più lagnosa e con le scarpe psichiche slacciate. Mi tengo afferrata la tua voce, l’abbraccio e stringo.

Giorgio

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