I luoghi dell’etica economica
[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la postfazione al volume L’Europa dei territori. Etica economica e sviluppo sociale nella crisi a cura di Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Orthotes, 2014]
di Stefano Lucarelli
Heidegger: Così come non si possono tradurre le poesie, non si può tradurre un pensiero. Si può tuttavia in ogni caso parafrasarlo. Ma appena si tenta una traduzione letterale, tutto viene modificato.
Spiegel: È un’idea scomoda.
Heidegger: Sarebbe bene si prendesse sul serio e su grande scala questa scomodità e si meditasse finalmente su quale trasformazione, ricca di conseguenze, abbia subito il pensiero greco attraverso la traduzione nel latino dei Romani, un evento che ancora oggi ci impedisce un sufficiente ripensamento delle parole-base del pensiero greco.
POSTFAZIONE
TRA L’ECONOMIA POLITICA E LA POLITICA ECONOMICA: I LUOGHI DELL’ETICA ECONOMICA
I luoghi dell’etica economica
Parlare di etica economica comporta innanzitutto un lavoro di comprensione non banale di questa coppia di parole – il sostantivo “etica” e l’aggettivo “economica” – parole che sorgono molti anni fa all’interno del pensiero filosofico greco, e, in particolare all’interno della riflessione di Aristotele (Stagira, 384 a.C. o 383 a.C. – Calcide, 322 a.C.). Si tratta di una coppia di parole che siamo ormai abituati ad utilizzare correntemente, senza tener conto del fatto che esse sono giunte sino a noi attraverso una lunga storia. Ciò ha comportato che la coppia di parole etica economica sia stata protagonista di passaggi successivi all’interno di contesti sociali, semantici e filosofici molto diversi. Possiamo cogliere la principale difficoltà che accompagna questi passaggi pensando con la dovuta attenzione al problema della traduzione del pensiero, un problema posto con la dovuta serietà da Martin Heidegger nel passaggio con cui si aprono queste note.
Dicevamo che etica economica è una coppia di parole che siamo abituati a pronunciare senza una dovuta accortezza, senza cioè pensare innanzitutto a come esse giungono al presente. Questa distrazione nella quale viviamo tutti produce delle conseguenze che in parte sono riconosciute in una recente enciclica papale, la Caritas in Veritate del 2009:
Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona. Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale.
Nascono Centri di studio e percorsi formativi di business ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla responsabilità sociale dell’impresa. Le banche propongono conti e fondi di investimento cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica », soprattutto mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza.
Questi processi suscitano apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire anche nelle aree meno sviluppate della terra. È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell’aggettivo « etico » che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.
Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo ‘‘ad immagine di Dio’’ (Gn1, 27), un dato da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un’etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. Bisogna, poi, non ricorrere alla parola « etica » in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi – l’osservazione è qui essenziale! – non solamente perché nascano settori o segmenti « etici » dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura. 1
Abbiamo appena letto un passo complesso che pone molti problemi. Per i nostri fini ci soffermeremo solo su due questioni: la prima è il fatto che il rapporto fra etica ed economia è posto all’interno di un’enciclica papale “sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”. Uno dei percorsi attraverso i quali l’etica economica giunge sino a noi riguarda la religione cristiano cattolica, o, meglio, la dottrina sociale della Chiesa. In questo contesto il rapporto fra etica ed economia pone agli uomini di buona volontà un compito, cioè l’adoperarsi perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura. Per spiegare cosa debba intendersi per etica economica si dà per assodato che – o quanto meno si esprime un monito, cioè un richiamo alla responsabilità degli uomini – l’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento.
La seconda questione su cui vogliamo soffermarci è il fatto che, nella enciclica Caritas in Veritate, si dà conto di una possibile confusione testimoniata e alimentata dagli abbondanti riferimenti all’etica in campo economico, finanziario e aziendale che caratterizzano il presente. L’enciclica solleva pertanto la necessità di elaborare un valido criterio di discernimento perché un certo abuso dell’aggettivo « etico », adoperato in modo generico, può far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.
Per esempio a partire dal 1997 l’organizzazione internazionale non governativa Social Accountability International (SAI) ha introdotto la certificazione SA 8000 per migliorare le condizioni di lavoro di quanti prestano la propria mano d’opera all’interno d’impianti di produzione. Questa certificazione etica è organizzata ispirandosi allo schema adottato nella concessione di altre certificazioni volte a garantire i consumatori che non sono però servite ad evitare casi di frode vera e propria come il caso Enron, il caso Wordcom, o il caso Parmalat. Come è stato già sottolineato “in questi casi il sistema delle certificazioni è stato distorto e ha, almeno in parte, fallito i propri obiettivi, danneggiando quegli stessi interessi che invece avrebbe dovuto proteggere e garantire. Il pericolo è che il sistema venga abusato anche nel caso della certificazione etica; con la differenza che questa volta la posta in gioco riguarda valori fondamentali su cui poggia la comunità internazionale: la dignità e l’intangibilità della persona umana”. 2
Nell’enciclica viene dunque riconosciuto che già di per sé la parola etica – anche senza essere posta in relazione al campo economico – presenta una chiara difficoltà di comprensione. Il richiamo all’inviolabile dignità della persona umana e al trascendente valore delle norme morali naturali servirebbero a dare un significato a questa parola. Pur riconoscendo la grande importanza che la dottrina sociale della Chiesa assume per affrontare i problemi che la coppia di parole etica economica pone, le nostre riflessioni non seguono la strada indicata dall’enciclica appena letta. Non possiamo qui preoccuparci, infatti, di definire in cosa consista l’inviolabile dignità della persona umana o il trascendente valore delle norme morali naturali. Ci limitiamo dunque al riconoscimento che l’abuso dell’aggettivo “etico” e la ricchezza delle esperienze che tirano in ballo una dimensione etica nel campo economico è possibile solo se l’espressione etica economica è ridotta ad etichetta che si presume esplicativa di per sé.
L’etica non è qualcosa di evidente, ma non è neanche qualcosa di certificabile; è tuttavia qualcosa che va preservato. Quando essa viene a riferirsi alla dimensione economica, ciò che dovrebbe aversi è la definizione di un luogo in cui le politiche economiche vengano pensate, quindi rese trasparenti, anche sopportando il rischio della critica. Questo forse è l’unico modo per far sì che il pensiero economico sia alla portata di tutti coloro che hanno a cuore il problema dell’abitare, cioè i luoghi dove gli uomini vivono in quanto uomini.
Procediamo però con ordine e cerchiamo di guadagnare coscientemente la prospettiva appena proposta prendendo sul serio il problema del significato originario che la parola etica e la parola economia assumono. In greco antico entrambe le parole indicano « l’abitare »:
economia, si compone infatti della parola oikía (che si è soliti tradurre con «casa» o con «dimora») e della parola, nòmos (che si è soliti tradurre con «legge»). Economia nomina allora l’insieme delle norme necessarie al far sì che una dimora sia tale;
la parola greca da cui proviene etica è êthos. Vedremo che essa indica un particolare abitare: quell’abitare che fa sì che l’uomo sia semplicemente uomo, in tal senso l’abitare umano più appropriato. Nelle prime pagine dell’Etica Nicomachea Aristotele afferma che l’etica è una scienza eminentemente pratica . L’agire dell’uomo deve essere improntato al sommo bene, ciò che si chiama eudaimonìa. La comprensione di una precisa modalità dell’abitare umano – l’êthos appunto – comporta che noi pensiamo cosa sia l’ eudaimonìa. Una riflessione intorno all’etica è per Aristotele una riflessione che affronta la seguente domanda: che cos’è agathòn – il bene – per l’uomo? La risposta sta nell’eudaimonia intesa come tì tò pànton akòtaton ton praktòn agathòn cioè «il più alto dei beni riguardanti l’agire umano» . 3
Tuttavia la traduzione di eudaimonìa con felicità tradisce il significato originario della parola, poiché l’espressione latina felix rinvia a ferax, cioè fertile. Siamo certi che eudaimonia rinvii alla sfera della fertilità? Felicità rinvia ad una sfera di significati che sono propri del pensiero latino, un piano che non è nominato dalla parola greca eudaimonìa.
Questa parola-guida dell’etica aristotelica designa un tratto particolare dell’abitare umano. Vediamo quale. Si tratta di una parola composta dal suffisso eu-, che segnala la buona intonazione, e dall’aggettivo daìmon il cui significato può essere compreso a partire dal verbo daíomai, che significa «assegnare», «dispensare», o ancora «misurare» nel senso di essere in grado di assegnare una misura di riferimento . Come spiega in modo mirabile Gino Zaccaria:
Il daímon è il Dio, il theós, colto e incontrato non solo in se stesso ma innanzitutto nel suo risplendere come dispensatore di misura per i mortali; è il Dio che, in quanto incorporato nel tempio anche attraverso la figura statuaria, campeggia nell’esistenza della pólis. 4
Il filosofo Martin Heidegger ci aiuta a comprendere in che senso ethos e eudaimonia rinviano l’uno all’altro, ponendo l’attenzione su un detto di Eraclito (Efeso 535 – 475 a.C.):
Un detto di Eraclito, che si compone di sole tre parole, dice qualcosa di così semplice che ne viene immediatamente in luce l’essenza dell’ethos.
Il detto di Eraclito (fr. 119) suona: ηθος ανθρωπω δαιμων. In genere si è soliti tradurre: «Il carattere proprio è per l’uomo il suo demone». Questa traduzione pensa in modo moderno e non greco. Ηθος significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò a cui l’uomo appartiene nella sua essenza. Secondo la parola di Eraclito, questo è δαιμων, il dio. Il detto, allora, significa: l’uomo, in quanto è uomo, abita nella vicinanza di Dio. Con questo detto di Eraclito concorda una storia riferita da Aristotele: […]
«Di Eraclito si riporta un detto che egli avrebbe proferito a degli stranieri che volevano incontrarlo. Avvicinandosi, lo videro mentre si riscaldava a un forno. S’arrestarono sorpresi, soprattutto perché vedendoli esitanti, egli li incoraggiò, invitandoli ad entrare, con queste parole: “Anche qui sono presenti gli dei”».
L’aneddoto parla da sé, ma vogliamo tuttavia mettere in rilievo una cosa.
Il gruppo di visitatori stranieri, nella loro invadenza curiosa nei confronti del pensatore, è in un primo momento deluso e sconcertato nel vedere la sua dimora. Questa gente crede di dover incontrare il pensatore in condizioni che, a differenza del modo abituale di vivere alla giornata degli uomini, hanno ovunque i tratti dell’eccezione, dell’insolito e quindi dell’eccitante. Questa gente spera di trovare nella sua visita al pensatore qualcosa che almeno per un certo tempo offra materia per chiacchiere interessanti. Gli stranieri che vogliono visitare il pensatore si aspettano forse di vederlo proprio nel momento in cui pensa, assorto in una meditazione profonda. I visitatori vogliono « vivere questa esperienza» non per essere colpiti dal pensiero, ma solo per poter dire di aver visto e ascoltato uno di cui daccapo soltanto «si dice» che è un pensatore.
Invece i curiosi trovano Eraclito presso un forno. Questo è un luogo del tutto ordinario e non appariscente. Certo, qui si cuoce il pane. Ma Eraclito, vicino al forno, non è occupato a cuocere il pane, è lì solo per riscaldarsi. In questo luogo di per sé quotidiano, Eraclito mostra così tutta l’indigenza della sua vita. Lo spettacolo di un pensatore infreddolito non offre molto di interessante. Di fronte a questo spettacolo deludente, i curiosi perdono subito la voglia di avvicinarsi di più. Che cosa ci fanno lì? Questa situazione quotidiana e priva di fascino, cioè che uno abbia freddo e stia vicino al fuoco, ognuno la può trovare in qualsiasi momento a casa propria. A che scopo dunque andare a far visita a un pensatore? I visitatori si accingono ad andarsene. Eraclito legge nei loro volti la curiosità delusa , si rende conto che per quella gente già il non verificarsi della sensazione attesa è sufficiente a far loro riprendere la via del ritorno, nonostante siano appena arrivati. Perciò egli fa loro coraggio e li invita espressamente ad entrare con queste parole: ειναι γαρ και ενταυθα θεους, « gli dei sono presenti anche qui».
Queste parole pongono il soggiorno (ηθος) del pensatore e il suo fare in un’altra luce. Il racconto non dice se i visitatori abbiano capito subito queste parole, o se le abbiano capite affatto, e se di conseguenza abbiano visto tutto diversamente in quest’altra luce. Ma che questa storia sia stata narrata e tramandata fino a noi dipende dal fatto che ciò che essa racconta proviene dall’atmosfera di questo pensatore e la caratterizza; και ενταυθα «anche qui», al forno, in questo luogo abituale, dove ogni cosa e ogni circostanza, ogni fare e ogni pensare è familiare e corrente, cioè solito, «persino qui», nell’ambito di ciò che è solito, ειναι θεους «gli dei sono presenti». Ηθος ανθρωπω δαιμων, dice lo stesso Eraclito: «Il soggiorno (solito) è per l’uomo l’ambito aperto per il presentarsi del dio (dell’in-solito)» 5
L’etica dunque indica un abitare che pur essendo alla portata di tutti gli uomini, presuppone costantemente un’apertura all’insolito. Che tipo di insegnamento si può trarre da queste riflessioni quando il campo d’azione dell’etica, scienza eminentemente pratica in una prospettiva aristotelica, è rappresentato dall’economico?
Innanzitutto l’etica economica presuppone un impegno nell’individuazione dei problemi economici che devono essere concretamente affrontati. In questa prospettiva ragionare di economia dovrebbe essere una cosa alla portata di tutti. Ciò che tuttavia occorre comprendere è: cosa significa “una cosa alla portata di tutti”?
In un sistema economico vitale non esistono semplicemente degli agenti economici a sé stanti, né esistono degli agenti economici che interagiscono in modo banale. Esistono dei gruppi sociali che evolvono storicamente e che rendono possibile la costituzione, la preservazione o la trasformazione dello stesso sistema economico pur facendo capo a interessi diversi e addirittura confliggenti. 6
Sarebbe auspicabile che tutti coloro che costituiscono, preservano o trasformano il sistema economico conoscano bene il ruolo che essi svolgono all’interno del sistema stesso. Detto in altri termini, sarebbe opportuno che ogni agente economico abbia coscienza delle proprie azioni. Queste considerazioni segnalano l’esigenza di tracciare un legame – un legame appropriato, non un legame qualsiasi – fra l’economia politica e la politica economica. Tutti coloro che si concepiscono come esperti di economia perseguono il fine di definire o quantomeno di influenzare con le proprie teorie, direttamente o indirettamente, la politica economica che deve essere messa a punto da chi si assume la responsabilità di governare un sistema economico.
Ciò tuttavia fa emergere un rischio enorme: cosa accade quando le politiche economiche che agiscono per definizione sulla realtà, sono giustificate ex post da un’economia politica ridotta ad un insieme di teorie astratte (prive di un vero rapporto con la realtà)? Nel migliore dei casi la realtà verrà trasformata richiedendo a coloro che la abitano di adeguarsi a delle leggi che risultano incoerenti rispetto all’evoluzione del sistema di cui essi fanno parte e che essi hanno definito.
Inoltre questo processo di trasformazione può condurre a scenari molto diversi da quelli previsti. Può persino verificarsi un’eterogenesi dei fini che non si limita a destabilizzare alcuni attori del sistema (i soggetti più deboli, o, se preferite le vittime dello sfruttamento); può infatti verificarsi una completa destabilizzazione del sistema in sé che colpirà anche i responsabili delle (cattive) politiche economiche.
Due esempi
Due esempi possono aiutare a comprendere meglio l’oggetto di questo discorso. Sono molti ormai i casi in cui l’istituzione, qui da intendersi come decisore collettivo, tende a mettere in atto delle politiche pubbliche cercando una legittimazione sui generis: essa non si preoccupa di farsi interprete delle esigenze della collettività che rappresenta, né ricorre all’analisi effettiva di un possibile piano di sviluppo economico e sociale. Le politiche sono invece costruite commissionando degli sforzi teorici ex post necessarie a giustificarle. Così facendo l’economia politica è ridotta a cattiva retorica, cioè a sofistica.
Qualche anno fa l’economista Antonio Calafati ha dedicato uno studio, agile alla lettura e svolto senza alcun pregiudizio, all’analisi delle procedure di decisione su cui si fonda il progetto del Tav in Val di Susa. 7 La discussione sulla Lione-Torino è presentata dallo studioso come un’opportunità per riflettere sul futuro economico dell’Italia. Calafati si interroga sulla pertinenza e la fondatezza di un grande progetto che modifica nel profondo la struttura economica di un territorio, nella convinzione che sia fondamentale per i cittadini di una democrazia interrogare i decisori collettivi (le istituzioni); è ancora più importante che i decisori collettivi (anche attraverso gli organi di informazione) diano risposte fondate. L’esercizio svolto dall’autore con i suoi studenti nell’ambito del corso di Analisi delle Politiche Pubbliche presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche, conduce ad una conclusione importante: l’analisi dei principali organi di informazione mostra che i giornalisti e i politici dichiarano di essere tutti a favore dell’opera ostinatamente, ma senza offrire reali spiegazioni. Nelle retoriche che si susseguono numerose sulla carta stampata manca sempre un’analisi delle politiche pubbliche. Così il chiarimento delle ragioni del sì sono affidate a passaggi rapidi in cui si suggerisce un nesso causale che andrebbe analizzato a fondo: la realizzazione dell’opera ferroviaria ad alta velocità Lione-Torino dovrebbe sostenere lo sviluppo dell’intera area del Nord-Ovest. Se ci si interroga sul senso di una politica di sviluppo economico per l’economia del Nord Ovest occorrerà chiedersi: quali vantaggi economici per questi territori possono derivare da una riduzione abbastanza limitata dei tempi di trasporto a partire dal 2020? Un economista dovrebbe ragionare con un pre-giudizio di razionalità per analizzare tanto le decisioni politiche imposte dalle istituzioni, quanto le ragioni del no sollevato dai cittadini della Val di Susa: un’opera come quella programmata in Val di Susa nella fase di attuazione (almeno 15 anni) e nella fase di funzionamento (tre generazioni a partire da ora) determinerà dei costi sociali. Nella prospettiva suggerita da Calafati il no al Tav rappresenta la conseguenza razionale di un processo di negoziazione che non è iniziato. La prima conclusione dell’esercizio proposto è che non è possibile dimostrare la razionalità del progetto Tav – come anche di tanti altri progetti che prevedono infrastrutture molto costose – senza individuare il contesto di riferimento. Quest’ultimo sta probabilmente in un’idea di sviluppo territoriale, sociale e – solo in ultima istanza – economico che tuttavia andrebbe analizzata a fondo: trasformare l’Italia nella piattaforma logistica d’Europa. Calafati comincia questo esercizio analitico dando un senso a parole che rischiano di restare oscure, o, peggio ancora, di risultare falsamente chiare di per sé, secondo la prassi infantile dell’ «è così, perché è così!». Un’Italia che divenisse la piattaforma logistica d’Europa comporterebbe la progettazione di un programma infrastrutturale imponente – concentrato prevalentemente lungo la dorsale Piemonte-Lombardia-Veneto – per vedere transitare delle le merci attraverso il territorio. Che beneficio si può pensare di trarre da questo transito? Si potrebbe davvero trattare di benefici collettivi? Emerge un terribile sospetto: forse il declino italiano nasce proprio da questa incapacità di fornire un resoconto attendibile, pertinente e fondato, degli effetti delle politiche pubbliche. Ciò che resta è – senza tirare in ballo la malafede – la diffusione disarmante di un vero e proprio blocco cognitivo che affligge le menti dei decisori pubblici tutti.
Il rapporto fra economia politica e politica economica diviene pertanto oggetto di una riflessione urgente: il decisore pubblico non pensa di costruire delle politiche economiche fondate su una vera analisi dei fatti che faccia tesoro di vari ambiti del sapere; fra questi l’economia politica (anche critica) dovrebbe svolgere un ruolo rilevante sebbene non esaustivo. Egli sembra invece innamorarsi di quelle retoriche che – sebbene frutto di ignoranza – possono garantire con più alta probabilità il riconoscimento del suo ruolo di politico; presta dunque ascolto a specifici gruppi di interesse lontani dall’interesse generale e commissiona ai tecnici (e molti di essi sono economisti) il compito di giustificare le politiche pubbliche necessarie a questo particolare consenso . 8
Il secondo esempio su cui vorrei porre l’attenzione del lettore riguarda di nuovo un importante investimento infrastrutturale: l’autostrada BreBeMi. Anche qui occorre innanzitutto chiedersi: quali sono gli obiettivi di questa opera? È stato scritto che l’opera è necessaria per ridurre i volumi di traffico che interessano l’A4. Ma è anche diffusa la speranza che questa nuova infrastruttura potrà generare una ricaduta positiva in termini di sviluppo industriale . 9 Tuttavia le variabili principali su cui agire per ridare slancio a territori colpiti gravemente dalla crisi in corso – e che presentano un traiettoria di sviluppo caratterizzata da una caduta del tasso di crescita del suo prodotto interno lordo che hanno origini precedenti al 2008 – sono altre: incrementare le infrastrutture autostradali per rilanciare l’industria manifatturiera serve a poco, se è vero che il ritardo competitivo dell’industria italiana è spiegabile soprattutto considerando la ricerca e sviluppo svolta dalle imprese (la così detta BERD), che presenta valori molto bassi . 10 Occorre inoltre tener conto della centralità di altre variabili istituzionali che diventano molto significative dopo il 2008: i cattivi incentivi che oggi caratterizzano il sistema del credito italiano, rifinanziatosi grazie alla Banca Centrale Europea a bassi tassi di interesse, ma protagonista di una stretta creditizia notevolissima sulle imprese, le quali soffrono a loro volta della mancata riscossione dei loro crediti da parte dei clienti 11 ; le politiche di austerità che si traducono in una pressione fiscale insostenibile e in costi sociali altissimi, e che conducono ad un calo della domanda. I finanziatori di un progetto come BreBeMi erogano un credito a basso rischio: i costi di costruzione (1.420 milioni di €, poi rivisti al rialzo sino a 1.600 milioni di euro cui vanno a sommarsi 800 milioni di oneri finanziari) 12 sono a carico dei privati che recupereranno i costi attraverso i pedaggi, il finanziatore in tal modo può contare sulla restituzione del principale e sugli interessi in un momento in cui prestare denaro per altre finalità presenta rischi più elevati. D’altro canto il gestore può sempre traslare sull’utente il costo sostenuto attraverso modi impropri di fissazione della tariffa. 13 Il finanziatore mette in tal modo a disposizione un credito che non è finalizzato a produrre dei ritorni derivanti dallo sviluppo economico del territorio. Non c’è una reale partecipazione al rischio di impresa. Questa è tuttavia la situazione strategica che si riscontra nella maggior parte degli istituti che compongono il sistema creditizio italiano. 14
D’altro canto ciò che qualifica l’investimento per la realizzazione della BreBeMi sono esattamente le modalità con cui è avvenuto il finanziamento. 288 milioni di euro necessari alla realizzazione sono provenienti dal project financing. Di cosa si tratta? Si tratta di un finanziamento a lungo termine in cui la garanzia del pagamento del debito è rappresentata dalle entrate di cassa previste dalla gestione dell’opera finanziata. Di fatto nel nostro Paese il project financing sta sostituendo il finanziamento pubblico volto a realizzare servizi di pubblica utilità, cioè quei servizi caratterizzati da un’alta rigidità della domanda e che, secondo il linguaggio degli economisti pubblici, sono beni meritori, cioè quei beni la cui fornitura avviene in base a un principio diverso dalla sovranità del consumatore . 15 Gli attori in gioco nel project financing sono: 1. la Pubblica Amministrazione che approva il progetto; 2. la banca che lo finanzia; 3. il privato che lo realizza, lo gestisce e che ripaga il debito attraverso le entrate derivanti dalla concessione pubblica; 4. gli utenti. Come interagiscono questi attori? La banca ha il diritto di riscuotere il capitale prestato e gli interessi, il gestore-realizzatore riscuote le tariffe che devono ripagare nel periodo prefissato il debito e i costi sopportati dallo stesso gestore. Gli utenti pagano le tariffe. Le tariffe diventano pertanto la variabile di aggiustamento dell’intero circuito. Quando il project financing è utilizzato per realizzare servizi di pubblica utilità, la meritorietà del bene viene scalfita se non minata.
Il lavoro di ricerca svolto in questi anni nel contesto di LBC negli ambiti di Treviglio e di Romano di Lombardia fa emergere con chiarezza il seguente dato: lo sviluppo economico e sociale di un territorio colpito da una grave crisi non può essere garantito dalla costruzione o dal rafforzamento delle infrastrutture tradizionali. Gli investimenti devono essere infatti “qualificati”, cioè devono essere complementari e coerenti con le altre caratteristiche che rendono possibile lo sviluppo di quel territorio particolare. Nel nostro caso questi punti di forza appaiono concentrati nella grande domanda di partecipazione alla vita sociale che è riscontrabile nella tenuta quasi incredibile delle esperienze di volontariato che faticosamente sopravvivono alla crisi – sebbene queste ultime necessitino di un maggiore coordinamento tra attori sociali molto attivi ma eccessivamente identitari.
Sugli investimenti
Come emerge dagli esempi appena illustrati, quando si ragiona di politica economica applicata ad un luogo specifico occorre ragionare in particolare sugli investimenti. Cosa sono? Cosa li determina? Cosa li qualifica? Non si tratta di comprendere soltanto se un investimento metta in moto delle risorse monetarie che in un certo lasso temporale tengono occupata una popolazione. Occorre infatti qualificare gli investimenti. Dinanzi ad un problema di sviluppo economico locale, di luoghi che vivono una crisi, occorre innanzitutto chiedersi se un investimento sia o meno in grado di determinare una traiettoria di sviluppo coerente. Perché dall’investimento possono scaturire nuove fratture fra attori sociali, nuovi disagi, magari necessari ad intraprendere un nuovo sentiero di sviluppo, ma che sono causa di costi sociali da affrontare. Forse in un momento come questo, gli investimenti dovrebbero essere finalizzati a diminuire le difficoltà che incontrano gli attori sociali più significativi sul territorio, perché da essi dipende la vitalità del sistema locale. Parlare di investimenti in una situazione di crisi sistemica significa anche porsi il fine di ricreare delle mediazioni, degli spazi istituzionali, perché in una crisi sistemica le istituzioni presenti sui territori si percepiscono come insufficienti. Ciò è emerso chiaramente anche dalla nostra ricerca, tutte le volte che abbiamo parlato con dei rappresentanti degli Enti Locali.
Quale lezione possiamo trarre, come economisti, da un’indagine sul campo come quella che ha caratterizzato le ricerche raccolte in questo volume? Si potrebbe innanzitutto rilevare che il sostegno della domanda effettiva attraverso un intervento indiscriminato – che sia l’aumento della spesa pubblica o la promozione di investimenti attraverso il project financing poco importa a questo livello del discorso – non basta, poiché nell’evoluzione del sistema economico contano anche altre variabili che fanno mutare qualitativamente tanto i consumi quanto soprattutto gli investimenti. Per quanto concerne le variabili squisitamente economiche, l’evoluzione della struttura produttiva tipica della crisi che stiamo attraversando, ha conseguenze significative sulla distribuzione dei redditi e in particolare sul livello dei salari e sui livelli di protezione del lavoro. Non è detto che un investimento infrastrutturale per quanto imponente determini di per sé una distribuzione dei redditi più adeguata alle esigenze di crescita economica del sistema locale di riferimento. Questo può dipendere dalle modalità di finanziamento messe in campo (è abbastanza evidente sul piano teorico che il project financing nel lungo periodo favorisca i gestori della public utilities incentivando in loro un comportamento da rentier a scapito degli utenti del servizio stesso), ma dipende soprattutto – ribadisco – dalla coerenza del progetto di investimento rispetto al sentiero di sviluppo che caratterizza quel sistema: in Italia sono frequentissimi gli esempi nefasti di investimenti pubblici che hanno favorito il rafforzamento di una gestione criminale delle risorse presenti su un territorio, determinando l’indebolimento degli attori sociali che costituivano la linfa vitale di quei luoghi. In un certo senso l’emergere dei non luoghi, dell’inefficienza e della bruttezza degli agglomerai urbani è figlia di questa mancanza di reale progettualità. 16
Ecco allora che in questo discorso, fra analisi delle politiche pubbliche e ripensamento di alcune categorie economiche, vengono ad emergere i temi costitutivi dell’etica: un buon investimento è un atto che è aiuta a governare il cambiamento e fa sì che venga alla luce qualcosa che sia degno di essere ricordato. Un buon investimento serve a misurarsi con la propria realtà.
Fra l’economia politica e la politica economica può aver luogo l’etica economica. Sempre che si voglia investire per creare un luogo e un tempo dove abitare.
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La postfazione è tratta da: L’Europa dei territori. Etica economica e sviluppo sociale nella crisi a cura di Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, Orthotes, 2014 (208 pp. 17 euro prezzo di copertina – Collana Studia Humaniora del cui comitato scientifico fanno parte Roberto Esposito, Pierpaolo
Marrone, Paolo Pagani, Carmelo Vigna, Gianfranco Zanetti).
Contributi di: Massimo Amato, Giancarlo Beltrame, Aldo Bonomi, Federica Burini, Patrizia Cappelletti, Federico Chicchi, Benedetta Giovanola, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, Mauro Magatti, Massimo Mamoli, Elena Musolino, CSV di Bergamo e gli studenti del corso di Etica Economica (DUECI, Università di Bergamo a.a. 2013-2014).
- Lettera Enciclica Caritas in Veritate del sommo pontefice Benedetto XVI ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, ai fedeli laici, e a tutti gli uomini di buona volontà, Sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, Libreria Editrice Vaticana 2009, pp. 75-76.↩
- M. Fasciglione, Standard etici per il mercato?, “Mosaico di Pace”, Maggio, 2004, http://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/5045.html .↩
- Posso svolgere questi ragionamenti solo grazie alle lezioni di Gino Zaccaria che ho avuto modo di apprendere in diversi seminari tra il 1995 e il 2000 tenutisi all’interno del corso di laurea in Discipline Economiche e Sociali dell’Università L. Bocconi nei corsi di Logica e Filosofia della Scienza ed Epistemologia delle scienze umane (Ermeneutica Filosofica). I corsi sono in parte pubblicati in G. Zaccaria, L’inizio greco del pensiero. Heidegger e l’essenza futura della filosofia, Christian Marinotti, Milano, 1999. Le note sull’etica greca si trovano alle pp. 88-104.↩
- Cfr. G. Zaccaria, L’inizio greco del pensiero. Heidegger e l’essenza futura della filosofia, Christian Marinotti, Milano, 1999, p. 91.↩
- Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», [1949], Adelphi, 1995, pp. 90-93.↩
- Cfr. G. Lunghini, Conflitto Crisi Incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.↩
- A. Calafati, Dove sono le ragioni del sì? La “Tav in Val di Susa” nella società della conoscenza, Seb27, Torino, 2006. Per approfondire il tema si ved anche E. Leonardi, “Il movimento No TAV in Valle di Susa: dispositivo Grandi Opere e fermento soggettivo”, in Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, a cura di Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi and Antonio Tucci, Quodlibet, Macerata, 2008, pp. 415-424.↩
- La centralità del “calcolo del consenso” è stato uno degli strumenti messi a punto per smantellare le politiche keynesiane e per rimettere in discussione la piena occupazione come obiettivo di politica economica perseguibile attraverso l’azione dei pubblici poteri. Cfr. J. Buchanan e G. Tullock, Il calcolo del consenso. Fondamenti logici della democrazia costituzionale, Il Mulino, Bologna 1998. Ciò di cui oggi probabilmente abbiamo bisogno è un’analisi in termini di calcolo del consenso volta a svelare come il sostegno alle politiche pubbliche attuali, fondate sul primato del privato sul pubblico, si fondi esattamente su giustificazioni retoriche funzionali alla riproduzione di gruppi di interesse antidemocratici.↩
- Su questo rinvio in questo volume al capitolo dedicato al caso BreBeMi a cura degli studenti del corso di Etica economica e dell’impresa da me tenuto con la collaborazione del dott. Emanuele Leonardi↩
- S. Lucarelli, D. Palma, R. Romano, Quando gli investimenti rappresentano un vincolo. Contributo alla discussione sulla crisi italiana nella crisi internazionale, “Moneta e Credito”, vol. 66, n. 262, pp. 167-203.↩
- È ciò che emerge dall’indagine condotta dalla Banca d’Italia su un campione di circa 400 banche e pubblicata per la prima volta con il seguente titolo, La domanda e l’offerta di credito a livello territoriale, nel Gennaio 2012. L’indagine è stata poi aggiornata varie volte. Cfr. per esempio https://www.bancaditalia.it/media/notizie/domanda_credito_0714 . ↩
- Cfr. P. Marelli, Debutta l’autostrada BreBeMi. Ma quanto è cara?, milano.corriere.it/notizie/cronaca, 24 Luglio 2014.↩
- Sul modo in cui vengono calcolate le tariffe autostradali cfr. G. Ragazzi, I Signori delle autostrade, il Mulino, Bologna 2008. Ragazzi dimostra che rivalutazioni monetarie, proroghe delle concessioni e regolazione delle tariffe possono generare alti profitti senza che l’opinione pubblica ne percepisca in nessun modo i costi. Insomma si tratta di un businness drogato.↩
- Cfr. quanto emerge dal contributo di Giancarlo Beltrame pubblicato in questo libro. ↩
- Il concetto di bene meritorio ha natura trasversale rispetto alla distinzione tra beni privati e beni pubblici, scaturisce dalle cosiddette preferenze di comunità, che nascono dall’accettazione di valori comuni intesi come il risultato di un processo storico. A mio modo di vedere si tratta di un concetto molto prossimo a quello di bene comune, oggi tanto diffuso. ↩
- Cfr. S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi, Torino 2012. Cfr. anche M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009. ↩
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