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Da Via Ripetta 155 al futuro. Il nuovo romanzo di Clara Sereni

via ripetta 155
di Giacomo Verri

Stile che ammassa e punge, e che aggancia all’uno l’altro argomento come un treno in corsa, o come i fogli del ciclostile. Frasi che da un particolare quasi lì gettato, con studiata noncuranza, compongono una scena, generano un microcosmo. Quello sconnesso dell’appartamento romano di Via Ripetta 155, “in quel tratto di strada che perfino molti autisti provetti ritenevano appartenesse già a via della Scrofa”, tra pavimenti a losanghe nere e rosse (ove dormiva chiunque arrivasse, purché in possesso di un sacco a pelo) e uno scaldabagno sghembo, in cui Clara Sereni ha vissuto per dieci anni, tra il 1968 e il 1977. Non un decennio qualunque, ma il doppio lustro dell’“orda d’oro” che cambiò il volto delle generazioni, segnando lo iato più caldo che la Storia abbia conosciuto dopo i conflitti mondiali.

“In cima a quattro piani di scale a chiocciola”, quella di Via Ripetta è una casa lungamente cercata e scelta, infine, tra una e una, perché forte di una propria ‘voce’, coincidente con quella di una ventenne inquieta che, mentre si proietta verso utopie di là da venire, avviandosi verso un che di indefinito, cerca di liberarsi da qualcos’altro, un cognome ingombrante, un padre dal profilo gigantesco (Emilio Sereni, ebreo antifascista, poliglotta e comunista della vecchia guardia, dalle mostruose “capacità dialettiche”), una casa troppo pulita e ordinata, un guardaroba eccessivamente ricco, un amore regolare. Nel suo nuovo romanzo autobiografico (Via Ripetta 155, Giunti 2015), Clara Sereni racconta una generazione edificata sui tentativi, a partire da quello di cancellare quel pudore che, secondo Kundera, rende nostalgici; finendo, però, a esserlo ancora di più, persi in una terra di nessuno, lontani da dove si è partiti e ignoranti della meta futura.

Eppure quella fiorita dal Sessantotto è una generazione irripetibile, per la prima volta in contrasto con tutto e per tutto ciò che c’era stato prima, e non solo in campo politico e sociale; gli slogan d’allora, come pure ha scritto Hobsbawm, lungi dall’essere affermazioni politiche nel senso tradizionale, furono addirittura “pubbliche proclamazioni di desideri e sentimenti privati”. Pubblico e privato, sì: il contrasto narrato da Sereni è proprio quello tra la generazione dei padri, devoti al partito (come Bastianazzo a padron ‘Ntoni) e alla dimensione pubblica delle loro gesta, e questa generazione di giovani che tentano di edificare sull’internazionalismo proletario i loro brividi, senza avvedersi che il mondo non è più quello dei partigiani combattenti.

Una generazione ‘dei tentativi’, dunque: quello di portare i giovani alla ribalta di tutto, di guidare i canti popolari e di lotta dalle feste dell’Unità agli scantinati di Via Garibaldi a Trastevere, di mettersi alla testa dei cortei per “piangere Pinelli e difendere Valpreda”, di fare cervellotiche analisi politiche e di raccogliere fondi “vendendo anellini fatti con il metallo dei B-52 abbattuti dai vietcong”. Eppure le grandi manifestazioni di piazza, i gruppi di discussione, la partecipazione collettiva portano con sé una forza intima e sprofondante nel privato che la generazione anteriore non avrebbe mai concepito (e di lì, forse, anche il fallimento politico della classe dirigente del PCI, fatta pure di rivoluzionari professionali, inadatta però a comprendere le ‘questioni private’ che stavano di là dal ‘discorso’ del partito).

Generazione ‘di tentativi e di fraintendimenti’, allora: la casa di Via Ripetta registra il mutamento della sensibilità storica; lì non si organizza la lotta di classe, ma si vive, si parla (tanto anche di politica, ma pure di lotte suppletive, per le donne, per il divorzio, per l’aborto, e poi di cinema, di libri, di scrittura), si dorme, si fa l’amore, per plasmare gli uomini e le donne nuove, per far sì che quest’ultime, soprattutto, siano emancipate e padrone di vivere il sesso e la coppia nella maniera più libera (sebbene a tratti deludente). Per questo, tra il lavoro di dattilografa, le esperienze al Folkstudio e gli impegni con la federazione italiana dei circoli del cinema, l’amore con e per Stefano, le migliorie alla casa, la vita di Clara Sereni sperimenta, oltre all’impegno sociale, un che di nuovo, e forse di inaspettato: il bisogno di attaccarsi a un corpo “per non affogare”, la libertà, una volta tanto, di “vivere senza sentirsi in colpa per tutti i diseredati, gli oppressi, i bombardati”. Non un ripiegamento egoista, ma l’invenzione, forse inconsapevole, di una dimensione inedita, di una nicchia calda, di un tono “lontano da ogni enfasi” com’era quello delle canzoni di Francesco De Gregori.

Ci dice questo, Clara Sereni, piegando la parabola di Via Ripetta; ci racconta che la casa finisce per cambiare di segno: non più simbolo del contrasto, insanabile, tra il prima e il dopo, tra la ‘prigionia famigliare’ e l’emancipazione, ma figura della bonifica di un equivoco, che passa però attraverso medicamenti faticosi, invisi, gretti a volte (per chi leggerà, significativo è il racconto della gita fuori porta, poche provviste, il miraggio di una pianta di ciliegie da saccheggiare, per la divisione del bottino becere discussioni che sostituiscono la politica), laceranti e gremiti d’insidie.

Si giunge al 1977, la casa ha resistito a quel decennio: ma adesso c’è lo sfaldamento, ormai completo, della sinistra, ci sono i rapporti difficili con i sindacati, ci sono le violenze dei gruppi extraparlamentari che si sono voltati in nuclei terroristici, e l’aria delle manifestazioni è “sempre più irrespirabile per i lacrimogeni, e per i dubbi”.

Ci si sente soli. La casa che doveva essere di tutti e che lentamente è diventato il nido d’amore di Clara e di Stefano non basta più. È come se terminasse una fiaba, si scorgono gli spazi vuoti, a tratti malinconici, da riempire con la vita intima, famigliare, di una coppia, anche sui generis.

Scorrendo le ultime battute del libro, che non chiudono ma aprono al futuro, incerto, eppure appassionato, comprendiamo allora quanto il nostro oggi, ancorché alieno alla partecipazione impegnata, e a volte disumano, derivi proprio dal quel decennio fatale che ha cambiato, indelebilmente, ogni angolo di mondo. A partire da quello lì, di Via Ripetta.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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