Viaggio in Argentina # 14
di Antonio Moresco
Ritorno a Buenos Aires.
Incontro con Roberto Raschella, nel solito caffè all’interno della libreria. Laura lo intervista, per un libro che deve fare assieme a Giovanni. Arriva un’altra scrittrice, uno studioso di qualcosa, poi una che lavora nel cinema. Altri scrittori sono anche oggi seduti qua e là nel caffè della libreria. Tirano fuori come sempre il loro quadernetto, cominciano a scrivere. Dopo un po’ arriva qualcuno, uno che passa e li riconosce, un amico, cominciano a chiacchierare con lui, chiudono il quadernetto, lo riaprono il giorno dopo… Che tristezza tutti questi scrittori che passano il loro tempo nei caffè! Ma pare che lavorassero così anche a Parigi, nel dopoguerra, nei loro caffè diventati poi celebri, Sartre, molti altri…
Sarò io che sono fatto male, ma mi sento così lontano da questa idea delle letteratura e della scrittura e da questo ruolo e funzione della letteratura, quasi come un’isola in mezzo a tutto questo scatenamento di forze e a questo orrore, qualcosa che comunque difende, un linguaggio comune, un’appartenenza comune, quasi come un galateo, un’arcadia, un immenso marinismo o gongorismo tropicale e subtropicale: il labirinto, il realismo magico, la letteratura come eterna variazione su tema e ornamento, gioco di specchi, il retaggio spagnolo, italiano eccetera, oppure la condanna alla resa speculare della realtà socio-politica spaventosa. Invece che creare una cosa mai vista prima in questo drammatico continente antico e nuovo, non presa a prestito dall’Europa, dagli Stati Uniti, e con cui vivere poi in un rapporto di sudditanza culturale e inferiorità e frustrazione e rivalsa e vendere la propria chincaglieria e il proprio folklore ai vecchi padroni, in un meccanismo di riconoscimento e gratificazione coloniale ora globalizzato. Com’è possibile che – con poche eccezioni – gli scrittori di un intero continente si siano messi tutti quanti a scrivere pressappoco nello stesso modo? Paesi diversi, realtà terribilmente diverse, foreste, cordigliere, deserti, enormi e disperate megalopoli miserabili, satrapie economiche, politiche, caste armate coperte che si scatenano di tanto in tanto con un furore criminale da far impallidire le tragedie di Shakespeare, cieli enormi, spropositati, nuvole di bambagia e di piombo, interminabili strade rette che portano fuori dallo spazio e dal tempo. Anche in Russia, nell’Ottocento, c’è stata un’esplosione di letteratura. Ma non scrivevano tutti allo stesso modo! Certo, c’erano anche là degli elementi fissi derivati dal paesaggio, dal clima, il disgelo, la neve, le slitte ecc… ma Tolstoj era una cosa, Dostoevskij un’altra, Puškin un’altra, e un’altra ancora Gogol’, e Gonc¤arov, Lermontov… e poi ancora C¤echov, Majakovskij, Bulgakov, Mandel’štam, Šalamov… Non è scontato, non è un destino che tutti gli scrittori di un paese, di un continente, debbano scrivere e sentire pressappoco nello stesso modo, che debbano vendere tutti la stessa merce gradita ai grandi stampatori di libri e ai lettori di Europa e America, perché questi ultimi ci ritrovino dentro se stessi e siano gratificati dal vedersi tornare indietro le proprie mitologie culturali solo diversamente addobbate. Gli scrittori sudamericani non dovrebbero stare al loro posto, al posto che è stato loro assegnato nello scacchiere culturale internazionale predisposto. Come può sorgere, risorgere un intero continente se non si libera nello stesso tempo da se stessa una nuova spinta sentimentale e mentale originale, potente, mai vista prima?
Camminando per le vie della Buenos Aires di questi anni, in questo brulicante splendore e in questo sfacelo, mi dico che sarebbe ora che nascesse una letteratura sudamericana in grado di rompere con le sue meravigliose coazioni e maniere e ci mettesse di fronte agli occhi lo squarcio da cui si prepara a nascere un continente.
Usciamo su Corrientes. Il fiume di macchine. Attraversiamo la grande strada. «Qualcosa di utile l’ho comunque fatto anch’io, nel mio piccolo, qui in Argentina!» mi dico reggendo il disco del riflesso, mentre Giovanni fotografa Raschella.
«… sopraffammi, tendi / la tua forza: spezza, esplodi, brucia me, / fammi una nuova creatura».
Penso ancora, continuo a pensare che se non ci fosse la molla dell’attrazione carnale tutta questa città non starebbe assieme, imploderebbe completamente. La vita cesserebbe in poco tempo in un orrore terminale, nel sangue. Non basterebbero il nazionalismo, il peronismo, il calcio, il tango a tenere insieme tutto questo marasma di popoli. Invece le strade sono piene di donne gravide dalle pance ostentatamente scoperte e di bambini, magari scalzi, magari che frugano nelle immondizie, magari criminali, ma questo vuol dire che la gente continua a scopare, gli spaventosi governanti di questo paese possono ancora governare e rubare e scappare via in elicottero di fronte alla folla inferocita solo perché gli uomini e le donne scopano, continuano a dispetto di tutto a scopare, mettono al mondo dei figli, oppure stanno attaccati tra di loro in altro modo, si inculano, si leccano, esiste ancora questa attrazione centripeta nel movimento centrifugo di questo immenso cratere.
«… Divorziami, slegami, / spezza di nuovo il nodo, prendimi con te, / imprigionami. Se non mi incateni, non sarò mai libero. / Puro mai, se non mi violenti».
Ultimo incontro con Dal Masetto alla Recoleta, il giorno prima della partenza. I grandi viali, il verde, le piante fiorite nella giornata calda e asciutta, i grattacieli e i palazzi delle ambasciate, le statue di Evita e di Giovanni Paolo II, le grandi nuvole grigie e bianche, la luce che non sembra mai declinare nella bella giornata ventosa. Da qui, non sembrerebbe neanche che in vaste zone di Buenos Aires ci sia l’inferno.
Andiamo a bere un paio di cerveze, all’aperto, su un marciapiede. Ci salutiamo. Ci baciamo. E stavolta mi ricordo che qui cominciano dalla guancia opposta a quella da cui cominciamo a baciarci noi, non come l’altra volta che giravamo tutti e due le teste da una parte e dall’altra come marionette prima di riuscire a capirci. Chissà se ci rivedremo?
Mangiamo qualcosa da Laura. C’è il televisore acceso. Un po’ di notizie dalla campagna elettorale. Poi fanno vedere un rodeo su cavalli selvaggi. Mi attacco al televisore, mi entusiasmo. Io non so perché mi entusiasma così tanto il rodeo! Poi inizia una telenovela, «Malandras» mi pare che si intitoli. Una donna obesa, due che si baciano con tanto di risucchio. Gente che litiga. Altri baci a cavatappi. Poi i due si tappano improvvisamente il naso, nel bel mezzo di un dialogo accalorato. «Hai pestato una merda?» dice uno all’altro. Tutti e due si guardano attorno stupiti. «Accidenti, che straordinarie telenovele ci sono qui in Argentina!» mi entusiasmo. «Ve la immaginate in Italia una telenovela dove i due si tappano il naso di colpo e uno chiede all’altra se ha pestato una merda?» Intanto il fetore cresce. C’è stata evidentemente qualche rottura nelle fogne, tutta la casa è invasa dalla merda. Girano tutti col naso tappato. Nella nostra cucina squilla il telefono. Laura va a rispondere. È Enrique che chiama da Santa Fe per salutarci prima della partenza. Neanche a farlo apposta si informa se io sono riuscito finalmente a cagare. «Oh, sì, altro che!» gli risponde Laura. Ritorna nella nostra stanza. Adesso si sono tutti mobilitati, i personaggi delle telenovela, hanno afferrato ogni genere di scope, di spazzoloni, spalano via tutti assieme la merda con le ramazze…
L’aereo è in volo. Il Rio della Plata, Montevideo, le zone disabitate dell’Uruguay, attraversate dai soliti fili delle strade e delle piste tracciate con il righetto. La giornata è così limpida che l’aereo sembra sempre volare a poca distanza dalla terra, che si sposta sotto di noi come un’immensa carta geografica in movimento. Inizia il Brasile. Cerchiamo di riconoscere dall’alto le città: Porto Alegre, São Paulo… Cominciano ad apparire strati di nubi. Mentre voliamo già su dense distese di schiuma, appare all’improvviso un arcobaleno, anche se il cielo è perfettamente sereno, a diecimila metri d’altezza. Alcune ragazze argentine stanno bevendo il mate con la cannuccia di metallo, hanno portato sull’aereo l’erba, il thermos, il pentolino. Vicino a loro un uomo con i baffi e il cappello di cuoio sonnecchia. Giovanni si avvolge nella coperta, si addormenta anche lui. Io resto sveglio. Ogni tanto appare sul video più vicino la freccia che indica la nostra posizione: stiamo attraversando l’oceano Atlantico, stiamo sorvolando le isole del Capo Verde, le coste dell’Africa, dell’Europa…
Milano. I saluti alla Malpensa. Ringrazio Nic per la discrezione e per la pazienza, Laura per le stalattiti e per tutto il resto. È stata una vera amica e una guida e un’ottima compagna di viaggio. Giovanni per essersi preso cura del disabile, per i metri di pellicola buttati per me e per le risate. Fuori dall’aeroporto c’è molto freddo, è sotto zero. Mentre percorro con la macchina le strade che mi portano a casa mi sembra di attraversare una città in miniatura, irreale, come quelle minicittà di cartongesso che si possono visitare a pagamento, con la riproduzione in scala delle chiese celebri, di strade, torri, monumenti, castelli…
Anche la mia casa mi sembra irreale. Piombo a dormire per qualche ora semivestito, per recuperare un po’ della notte di sonno persa e del fuso orario, e intanto mi sembra che sotto di me il letto continui a tremare e a spostarsi violentemente come per un terremoto.
(Fine)
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Pubblicato su “Fernandel” 1/2004 – gennaio/marzo 2004. La foto è di A. Moresco.
I commenti a questo post sono chiusi
Fine? Come fine?
E adesso io?
G.
mi associo al commento di gianni…
in più una domanda: c’è speranza che le varie “puntate” vengano pubblicate tutte assieme? ogni volta che vado a riprendere nell’archivio di ni le prime, mi riempio di virus… ( e per una che vive a como riuscire a procurarsi i numeri vecchi di fernandel è impossibile: non ti trovano nemmeno quelli nuovi!)
comunque grazie,grazie, grazie: penso che leggere di certe realtà frutto di politiche spregiudicate e dissennate possa far riflettere anche noi, in pieno clima elettorale!
al prossimo viaggio
chiara