Ineguaglianza sociale, razzismo, neofascismo: sui fatti di Tor Sapienza

di Andrea Inglese

.1.
“Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.” Così recita un passo del Vangelo di San Matteo. Nella sociologia statunitense si parla di Matthew effect, per designare quella legge sociale, verificata nell’ambito della ricerca scientifica o dell’apprendimento, per cui chi parte con un vantaggio non farà che cumularlo rispetto a dei soggetti concorrenti, che muovono invece da una posizione iniziale di svantaggio. Sociologi marxisti come Immanuel Wallerstein hanno mostrato la pertinenza dell’effetto di San Matteo anche nel campo della ripartizione delle ricchezze, ossia la tendenza, nelle società capitalistiche, a una polarizzazione accresciuta tra ricchi e poveri, sia all’interno di una stessa nazione, sia nel sistema dell’economia-mondo, in virtù dello scambio ineguale tra Nord e Sud del pianeta. Non è difficile applicare questo paradigma alle condizioni di vita di una popolazione metropolitana, come il caso di Tor Sapienza illustra.

Se avete un quartiere periferico, dove si concentra l’edilizia popolare, allora avrete anche uno scarso collegamento, da parte dei trasporti pubblici, con il centro della capitale. E questo non accresce l’insediamento e la prosperità dei commerci di quartiere, ma al contrario la desertifica. Se i palazzoni popolari pongono non semplici problemi di gestione degli spazi comuni, allora ci sarà anche una diminuzione della qualità del servizio raccolta rifiuti, e un territorio poco curato e sporco non sollecita nessuna cura e attenzione individuale. Dove c’è sporco sarà ancora più sporco. Se la popolazione del quartiere è tagliata fuori da un collegamento facile con il centro città, anche saranno assenti quelle forze dell’ordine che vegliano quotidianamente, invece, sui quartieri più ricchi, e di conseguenza, nel quartiere povero, l’illuminazione sarà scarsa, alimentando così sentimenti d’insicurezza e favorendo l’eventuale radicamento di fenomeni di micro-criminalità. Un quartiere scollegato, sporco, non frequentato dalle forze di polizia, poco illuminato, in cui già vi è una concentrazione di ceti popolari, con relativi disagi dati dalla scarsità di risorse economiche e culturali, funziona da magnete per tutti quei gruppi sociali marginali, che hanno bisogno, per sopravvivere, d’insediarsi in zone invisibili e abbandonate dall’autorità. E avremo, allora, nelle pieghe dei palazzoni popolari, gli insediamenti abusivi, e negli spazi comuni o abbandonati la prostituzione. Poiché, sull’onda neoliberista, nata negli Stati Uniti, e oggi in via di diffusione in Europa, lo Stato sociale si è trasformato in uno Stato penale , dove i poveri vanno non aiutati ma puniti, allora i più poveri, invece di cercare appoggi presso lo Stato, rifuggono dalle sue maglie, e si concentrano laddove esso è più assente, ossia là dove già esistono altri poveri. Ad accentuare la condizione di ghetto, la costruzione ad anello degli edifici, che sono serviti dall’unico accesso viario di Viale Morandi. Su di un terreno sociale e urbano di questo tipo, gli interventi più visibili dell’istituzione sono l’insediamento di uno Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e un Centro di prima accoglienza per minori. A ciò va aggiunta, poco lontano, la presenza di un campo nomadi (via Salviati).

Di fronte a un tale scenario, è del tutto comprensibile che i residenti del quartiere dicano: perché lo Sprar e il Centro di accoglienza non li piazzate nei quartieri del centro? E perché da noi non avviate un progetto di riqualificazione urbana, ossia non investite dei soldi per migliorare le nostre condizioni di vita? Ciò che risulta, invece, incomprensibile, è perché, muovendo da tali premesse, gruppi di residenti abbiano deciso che la responsabilità del cumulo di svantaggi sociali che il loro quartiere totalizza sia attribuibile a dei rifugiati stranieri, e non si capisce, quindi, perché invece di organizzare manifestazioni davanti al comune, indirizzate ai responsabili politici dell’amministrazione della città, essi si siano diretti contro il Centro di accoglienza con l’intenzione di spopolarlo con la violenza fisica e scandendo slogan razzisti.

2.
I fatti di Tor Sapienza hanno scoperchiato un inferno urbano e sociale. L’inferno delle condizioni di vita degli abitanti che vivono in quel quartiere popolare e periferico di Roma, l’inferno delle reazioni violente e razziste che quelle condizioni hanno in parte alimentato, l’inferno della strategia d’intervento neofascista su quei territori e su quelle situazioni di sofferenza e rabbia. Uno scenario in grado di pietrificare chiunque. Ma la stupefazione raggelata non è utile a nessuno. Eppure, anche sulla stampa che una volta si sarebbe detta progressista, e che oggi è sempre più cautamente progressista, ho notato un generale agnosticismo, una tendenza a sospendere il giudizio, di fronte all’inquietante intreccio di questioni sollevate dai fatti di Tor Sapienza. Anche se poi, più che prudente scetticismo, abbiamo a che fare con un consapevole e preventivo diniego: l’editoriale dell’ultimo numero dell’”Espresso” a firma di Luigi Vicinanza s’intitola “Attenti a chiamarlo razzismo”. Nello stesso numero, anche il sociologo Marzio Barbagli, nell’intervista che ha concesso al settimanale, ci tiene a precisare: “Gli italiani non sono razzisti. Dai dati che abbiamo raccolto sappiamo che la maggioranza è favorevole a regole più semplici per fare ottenere la cittadinanza agli immigrati”. Sul blog dell’“Espresso”, già il 12 novembre, un altro opinionista, Alessandro Gilioli, si era mostrato particolarmente scrupoloso nell’intervenire a caldo su un contesto da lui poco conosciuto, e aveva scritto: “Anche se forse qualcuno se ne stupirà, non è nelle intenzioni di questo post prendere le difese degli uni o degli altri, né al momento accusare i primi di razzismo: non conosco infatti le condizioni sociologiche in cui si vive in via Giorgio Morandi, e mi rifiuto di emettere giudizi su cose che al momento apprendo solo per superficiali letture”. Magnifiche parole, che vorremmo leggere in esergo al 90% degli editoriali che ogni giorni si stampano a milioni di esemplari. Strano, però, che il così tanto consapevole Gilioli sospenda il giudizio sul “razzismo”, per titolare disinvoltamente il suo pezzo “Prove di guerra civile”. Tutti si sono premurati di catalogare l’assalto armato al Centro per rifugiati di Viale Morandi come un episodio della guerra tra poveri, sperando in questo modo di esorcizzare il fantasma del razzismo. Il problema è che, molto spesso, ciò che trasforma una guerra tra poveri e ricchi – un episodio della lotta di classe – in una semplice guerra tra poveri è proprio una visione razzista della società. Quindi nei fatti di Tor Sapienza il razzismo è un elemento centrale, e che varrebbe la pena di analizzare e non semplicemente in un’ottica morale, bensì politica. Ripetere che, se la gente grida “negri maiali” o “negri di merda”, e aggiunge “bruciamoli”, ciò non ha niente a che vedere con il colore della pelle, ma con il disagio sociale, significa dimenticare che anche i pogrom, storicamente, sono stati favoriti da forme di disagio sociale. Cito da “L’Enciclopedia dell’Olocausto”: “In Germania e nell’Europa dell’est, durante il periodo dell’Olocausto, così come già durante l’epoca zarista, al tradizionale risentimento verso gli Ebrei dovuto all’antisemitismo religioso, si aggiunsero ragioni economiche, sociali e politiche che vennero usate come pretesto per i pogrom”. Oggi non credo che nessuno, salvo qualche audace revisionista, si permetterebbe di dire che l’antisemitismo è un aspetto non pertinente nell’analisi dei pogrom.

Non solo il razzismo è un elemento centrale nella vicenda di Tor Sapienza, ma lo è in stretta relazione con l’intervento neofascista, che ha giocato senz’altro un ruolo nell’orientamento “razzista” imboccato dalla protesta. La questione non è quindi riducibile a una semplice aggressione razzista inconsulta. Proprio il carattere razzista di quella reazione è la spia di un probabile lavoro a monte, che non sarà stato determinante in assoluto, ma che è un fattore importante da considerare, soprattutto per il futuro. In anni come questi, di crescente polarizzazione sociale, i minoritari neofascisti hanno mostrato più volte di sapere trasformare il disagio diffuso e un retroterra culturale fragile e permeato da stereotipi razzisti in un tipo di azione collettiva, che essi sono in grado di nutrire di contenuti e di coordinare nella sua realizzazione violenta.

3.
Riporto qui un passo di Furio Jesi sul razzismo, che faceva parte di uno studio mai completato. Il brano è tratto dal primo capitolo intitolato Lo sporco selvaggio e incluso in Cultura di destra apparso per Nottetempo nel 2011. Jesi propone due esempi di razzismo, che nel caso specifico si traducono nell’associare “sporcizia” e “diverso”. Nel primo esempio, una signora torinese parla della sporcizia che i meridionali portano nei quartieri popolari, che un tempo abitavano i torinesi poveri, però con decoro e pulizia. L’altro riguarda Edmondo De Amicis, che vede una “sporcizia” inevitabile ma sana, nel povero laborioso, e una “sporcizia” disgustosa e connessa alle origini etniche, che s’incontra nel quartiere ebreo di Amsterdam. Scrive Jesi:

“La sporcizia degli ebrei poveri di Amsterdam ripugna a De Amicis perché non è dovuta al lavoro. Altrettanto si può dire dell’autrice della lettera alla “Stampa”: la sporcizia degli immigrati meridionali poveri e delle loro case non è dovuta al lavoro. Nell’uno e nell’altro caso, la sporcizia è dovuta alla miseria che l’ordinamento della società impone a quei poveri. Ma tanto De Amicis quanto l’autrice della lettera si rifiutano di indagare le vere cause di quella sporcizia, e dimostrano così di non volere rivolgere accuse contro ordinamenti della società che evidentemente sono per loro giusti e graditi. L’unico modo di evitare di accusare l’ordinamento sociale e di riconoscergli la responsabilità di quella sporcizia consiste nell’adottare convinzioni razziste e dichiarare: quella gente, gli ebrei poveri di Amsterdam e gli immigrati meridionali e poveri di Torino, è sporca perché per “razza”, per “sangue”, non possiede il senso della pulizia; ed è misera perché per “razza”, per “sangue”, non ha voglia di dedicarsi al lavoro (…).”

Ho citato Jesi qui per due motivi. Uno per mostrare come il “razzismo” sia un discorso “magico”, perfettamente autoreferenziale, che scivola sulla varietà delle circostanze storiche come un liquido su di una superficie impermeabile. Gli aspetti odiosi che il razzista attribuisce fatalmente a delle razze o a delle culture di popolazioni determinate si ripetono come una litania uguale a se stessa nel corso del tempo e nel mutare dei luoghi e dei contesti. “Sporco” è stato l’ebreo in Europa, è stato il meridionale a Torino, è il rifugiato d’origine asiatica o africana a Tor Sapienza. Il discorso razzista – e qui vengo al secondo motivo della citazione – funge quindi da schermo opaco nei confronti della realtà sociale e storica, annichilisce ogni determinazione e nella sua plasticità infinita si presta, invece, ad ogni abuso. Il discorso razzista è sempre vero, perché non esige prove, ragionamenti, analisi. Esso quindi offre un’immediata e sempre identica soluzione, ancor prima che si siano analizzati i termini sociali del problema che viene posto. La soluzione alla sofferenza sociale di Tor Sapienza è l’allontanamento dei rifugiati stranieri perché essi sono portatori di “sporcizia”, di “violenza sessuale sulle donne”, di “ladreria”. La sofferenza sociale non nasce, quindi, nel cuore del nostro sistema sociale, all’ombra delle istituzioni statali rispetto a cui, dalla nascita e alla morte, siamo quotidianamente confrontati. La sofferenza è causata da un piccolo gruppo di “dannati della terra”, alcuni minorenni, spesso di origini geografiche diverse, in fuga da guerre e persecuzioni, isolati in un paese che non conoscono. Questo gruppo di persone, catapultati dalle istituzioni italiane in un edificio di periferia, diventano d’un tratto il motore di tutte le ineguaglianze sociali. Non c’è bisogno più che l’analisi risalga la catena delle responsabilità, che si individuino i multiformi nemici di un sistema sociale, e che si debba così far fronte alla lucida considerazione di un’inesistente soluzione magica e istantanea, tutta concentrata in uno sfogo di violenza indiscriminata.

Leggo in una testimonianza importante , pubblicata sul sito Hurriya, queste righe: “Parlando della famosa guerra tra poveri [con i residenti del quartiere], abbiamo chiesto come si potesse prendersela con dei ragazzini e non con i veri responsabili del disagio che non sono certo difficili da individuare. Qualcuno ci ha risposto – parole letterali – che il centro è solo un capro espiatorio, insomma il posto giusto per fare casino, attirare l’attenzione, farsi dare qualcosa e probabilmente, aggiungiamo noi, fare un piacere a qualcuno che poi si ricorderà”.

Emerge qui una ancora diversa ipotesi. Il discorso razzista sarebbe usato in modo consapevolmente strumentale, sarebbe un discorso fatto senza crederci. Passiamo qui dall’uso incantatorio, obnubilante, del discorso razzista, al suo uso cinico e deliberato: attacco chi è vulnerabile e innocente, sapendo che è innocente, per ricattare chi è responsabile e chi è forte. Siamo qui nei dintorni della guerra asimmetrica, che ben conosciamo attraverso tutte le forme storiche e contemporanee di terrorismo. Faccio saltare in aria dei civili, per colpire i vertici politici e militari dell’esercito che non posso affrontare sul campo.

Per parte mia, non ho minimamente la pretesa di imporre una lettura definitiva di questi eventi. E questo non perché credo che sia impossibile parlare di questi eventi se non siano stati vissuti direttamente. Credo che, con un minimo lavoro di incrocio delle fonti, alcune linee di forza si disegnino all’interno di eventi sociali come quello di Tor Sapienza, pur nella lacunosità delle testimonianze e nell’ambiguità semantica connaturata a tali dinamiche sociali. Mi sembra, però, ancora una volta, che il razzismo, come discorso circolante, non come vizio caratteriale delle persone, sia uno dei fattori determinanti degli accadimenti, un fattore la cui portata resta da analizzare e comprendere, ma che negare con disinvoltura e in apertura di analisi mi sembra assurdo e irresponsabile.

Il discorso razzista è sempre disponibile. Nel ventennio berlusconiano, questo discorso in Italia è stato diffuso, nutrito, ribadito dalla destra al potere, con la Lega nel ruolo di centro propagandistico, e ha avuto mille sponde in diverse realtà politiche, sociali e culturali. Il grado di razzismo degli italiani dipende, secondo le circostanze, dalla loro disponibilità a fare uso di questo discorso, a crederci, nel momento in cui forze politiche, come i neofascisti a Roma, glielo scodellano sul piatto. Le istituzioni, quanto gli organi d’informazione, hanno poi una responsabilità enorme nel permettere e favorire la costituzione di discorsi alternativi, costruiti attraverso pratiche associative e militanti, o attraverso saperi e analisi, capaci di far presa sulla complessità del reale. L’ondata neoliberista, però, che condiziona tutti i piani alti delle istituzioni oggi in Europa, predica di abbandonare non solo economicamente gli strati sociali più deboli, ma invita anche a ridurre la circolazione di strumenti culturali che possano essere utili nell’analisi critica della realtà. La cultura serve a chi già ce l’ha, e gli serve quindi come strumento per incrementare quei privilegi sociali che già possiede. A chi quei privilegi sociali non ha, verranno tolti e delegittimati anche tutti gli strumenti di conflitto e d’emancipazione che più di un secolo di lotte sociali e operaie hanno sedimentato. Secondo la legge di San Matteo, a chi non ha prospettive e vocabolario politico per difendersi, verrà reso disponibile il magico e inefficace discorso razzista, e per chi ha più stomaco la pratica del linciaggio.

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36 Commenti

  1. Secondo me la tua lettura è completamente sbagliata. Razzisti sono stati i migliori scienziati e filosofi dal mondo classico al mondo moderno. Ergo, la cultura non c’entra nulla. Popoli ananlfabeti sono sempre stati più egualitari dei popoli istruiti e stanziali. Continuare a parlare del razzismo come di un discorso è il lascito credo di una teoria costruzionista che non poggia su alcun fondamento.

    In famosi esperimenti psicologici si è visto come dei ragazzi civili e istruiti solo perché divisi in gruppi di guardie e carcerati, senza alcuna indicazione di comportamento, hanno cominciato a comportarsi in maniera disumana.

    In un’altra prova delle persone dovevano infliggere scosse elettriche ad altre e nonostante sapevano di arrecare danno non sapevano controllarsi.

    In un altro esperimento delle ragazze assistevano ad altre ragazze sottoposte a scosse elettriche. a un certo punto avevano due scelte: offrirsi per mettersi al posto delle vittime oppure andarsene e non assistere alla scena. Se prima dell’esperimento alle ragazze venivano fatte leggere descrizioni della vittima e queste risultavano simili alla ragazza che le leggeva, più spesso quest’ultima si offriva volontaria per salvare l’altra. Viceversa le ragazze avevano maggiore propensione ad andarsene.

    L’empatia non ha a che fare con la cultura, ma con la condivisione degli spazi.

  2. a h

    potresi spiegare e documentare questa frase?: “Popoli ananlfabeti sono sempre stati più egualitari dei popoli istruiti e stanziali.”

    “In famosi esperimenti psicologici…” Parli forse degli esperimenti di Stanley Milgram sull’obbedienza all’autorità? L’eseprimento di Milgram non è incentrato né sul razzismo né sul livello culturale, ma sul rapporto tra principi morali e di rispetto dell’autorità. Cito un passo tratto da Milgram: “Un individuo che, a causa dei suoi profondi principi morali, non è capace di rubare, fare del male o uccidere, riesce a compiere tranquillamente queste azioni quando un’autorità glielo ordina.” Non vedo in che modo l’esperimento di Milgram funga da confutazione di quanto ho scritto.

    “L’empatia non ha a che fare con la cultura, ma con la condivisione degli spazi.” Già, ma la condivisione degli spazi è un “affare” culturale, come l’antropologia ci dice. Lo spazio sociale è, in quanto sociale, sempre uno spazio culturale. Il che non toglie nulla alle determinazioni biologiche presenti in ogni sfera culturale.

    In nessun punto del mio scritto emerge l’ipotesi che le persone che hanno un livello culturale alto, per formazione e studi, sono al riparo dal razzismo. Inoltre, non faccio mai riferimento, qui, a una concezione neutra di cultura, ma la intendo come strumento per rispondere operativamente alle sfide del reale. Le sfide imposte dalla realtà attuale ai ceti popolari impongono degli strumenti culturali: questi possono riferirsi a una tradizione ideologica di sinistra, sedimentata attraverso varie forme di lotta, o a un discorso razzista, che si sposa molto bene con tradizioni culturali di destra e fasciste.

    • L’esempio di persone colte e razziste non si riferisce a cose da te dette, ma al fatto che la cultura con il razzismo ha poco a che vedere, e dunque non è culturalmente che si può affrontare. Il razzismo non è solo un discorso. Gli strumenti culturali ti consentono di opporti a un discorso razzista, quando il razzismo si presenta sotto forma di discorso e quando già sei avverso a una forma di gerarchizzazione fra gli individui. Ma questo è il razzismo ideologico, concettuale. Al quale certo si può opporre un’ideologia comunitaria, egualitaria. Ma di base il razzismo è un fatto emotivo, con gli strumenti culturali non ci fai un beato niente, come appunto gli esperimenti citati dimostrano (sì, mi riferivo anche a quello di Milgram). Senza alcuna ideologia di riferimento i ragazzi carcerati sono diventati inferiori solo perché posti in un altro gruppo. Se tu non crei le condizioni materiali che possono consentire alle persone di esprimere le loro parti migliori e a quel punto di condividere anche una cultura non razzista, non c’è discorso alternativo che tenga. Poi è chiara e condivisibile l’idea di uguaglianza e di dare una risposta di sinistra, contrastando culturalmente (l’egemonia culturale, d’accordo) il neoliberismo. Ma sono piani diversi. e proprio perché senza una maggiore e migliore uguaglianza i discorsi non tengono.

      Per quanto riguarda i popoli tutti gli studi antropologici che mi sono capitati sotto le mani raccontano le tribù di cacciatori-raccoglitori come egualitarie, e anche le odierne società rimaste qua e là vivono in questo modo. Gli stessi giochi sono diversi per i bambini: giocati improntati non sulla competizione, ma ad esempio sulla capacità di saper dividere in parti uguali un frutto. Questo l’ho letto in Jared Diamond, Il mondo fino a ieri. Il che non significa ovviamente che siano popoli meno violenti o meno razzisti verso gli altri. Questo serve a dimostrare che il concetto umanistico di trasmissione dei valori è una scemenza, come odierni esperimenti psicologici hanno appunto dimostrato. Tu puoi anche crescere un figlio nel migliore dei modi possibili insegnandogli i valori migliori e basta che poi un giorno si trovi in una condizione differente e il suo comportamento sarà diverso. Per cui o la gente vivrà in posti decenti a contatto con stranieri che vivono in modo decente oppure tratterà gli stranieri come bestie, perché li vedrà come bestie. senza bisogno che casapound glielo ricordi

  3. (eppure non si alza lo sdegno, né nei confronti della deriva razzista né nei confronti dell’amministrazione incapace, eppure la politica di sinistra sembra aver perduto la sua vocazione e la sua azione sul territorio, eppure tutto sembra lontano e indifferente, eppure alle prossime elezioni votare il centro sinistra che non cambia e non fa cambiare o la sinistra che rimane del tutto defilata? eppure a chi andrebbe il non voto? eppure la rivoluzione non si fa, eppure va e fa bene dire e dirlo, ma non basta)

  4. Pardon, non avevo guardato il video mentre lo ascoltavo. Per farmi perdonare ti lascio una poesia sporca

    Non inventerò l’inutile menzogna della perpetuità,
    meglio passare i ponti con le mani
    piene di te,
    tirando via a piccoli pezzi il mio ricordo.
    Dandolo alle colombe, ai fedeli passeri,
    che ti mangino fra canti, arruffio e svolazzi.

    Julio Cortàzar

  5. Tralasciando il fatto non trascurabile che, nell’articolo, l’effetto San Matteo è presentato contemporaneamente come premessa e conclusione del discorso elitista secondo il quale gli strumenti culturali sarebbero il manganello a disposizione dei probi viri per indirizzare il malcontento delle classi subalterne – o, come par di capire, inferiori – verso fini estranei ai loro interessi, non si può con altrettanta leggerezza sorvolare su alcune contraddizioni più evidenti, che però da quella discendono, e che oltre ad aver profondamente contaminato il dibattito politico e culturale a vari livelli, hanno minato la prospettiva di un percorso condiviso di ricostruzione, di un’idea di società libera, nei limiti del possibile, dal pregiudizio delle appartenenze ideologiche per come si sono andate grottescamente delineando negli ultimi sventurati anni della storia di questo paese, o se volete: continente.

    Quando viene giustamente ricordato che il razzismo non deve essere inteso come vizio caratteriale delle persone, ma come discorso circolante, sorge un paradosso che allo stato attuale del dibattito pubblico sembra insormontabile: come mai le élite di questo paese, che rivendicano in larga parte una matrice culturale antifascista, esprimono oggi il loro ovvio dissenso rispetto ad eventi che nessuno si sognerebbe mai di appoggiare pubblicamente, quale che sia l’orientamento ideologico, eppure fino all’altro ieri si sono rese complici – complici, in alcuni casi, al limite del collaborazionismo – di un sistema culturale che declinava il discorso razzista nelle due forme più subdole e reazionarie mai prodotte in Europa dai tempi di Goebbels? E cioè:

    i) Quel che è stato giustamente definito autorazzismo, ovvero l’ideologia che, facendo leva sull’ignoranza dei più elementari fatti storici e macroeconomici, ovvero sullo sprezzante rifiuto del precetto socratico da parte delle sedicenti élite, ha ridotto il nostro paese in uno stato di vile sudditanza culturale rispetto al modello capitalistico del centro.

    ii) Il frame che tenta di caratterizzare macchiettisticamente, e con risultati sempre più risibili, il dibattito scientifico in corso da anni sull’attuale assetto di politica economica quando questo venga svolto al di fuori della retorica terzomondista, internazionalista o, più genericamente, alternativista.

    Leggo: “In anni come questi, di crescente polarizzazione sociale, i minoritari neofascisti hanno mostrato più volte di sapere trasformare il disagio diffuso e un retroterra culturale fragile e permeato da stereotipi razzisti in un tipo di azione collettiva, che essi sono in grado di nutrire di contenuti e di coordinare nella sua realizzazione violenta.”

    Non lo si sarebbe potuto esprimere meglio.

    Se su questo siamo d’accordo, proviamo anche ad ammettere che un simile modo di argomentare, per quanto brillante e puntellato qua e là di passaggi condivisibili, non può che nuocere alla prospettive di una convivenza pacifica nel paese e, che sia ben chiaro, nel continente: quando le tensioni sociali che subiamo in Italia, in Francia e in Grecia si estenderanno ai paesi del centro, eventualità ampiamente prevista nella letteratura pertinente, quale credete sarà la linea di difesa della loro classe politica se non quella di attribuire la colpa – il debito – a quei popoli maiali, così pigri e improduttivi, che non hanno il senso del dovere inscritto nei geni, come non hanno gli occhi azzurri e i capelli biondi? E come credete potrà difendersi il nostro popolo in una simile prospettiva, se la sua classe dirigente continuerà a restare invischiata in un dibattito puramente teorico sulle matrici culturali del razzismo di strada, con l’effetto, ci auguriamo non voluto, di rendere opache le dinamiche sottostanti la distruzione di un mondo nel quale siamo riusciti, seppur tra luci e ombre, a vivere pacificamente?

    J. Lenkowicz

    ps consiglio, se già non lo si è fatto, di rendere esplicite le modalità con cui inserire i tag html nei commenti

  6. Andrea,

    (cavolo mi rendo conto che tutti miei i commenti cominciano nello stesso modo: sono d’accordo, ma). Sono d’accordo, ma volevo chiederti una cosa che non sono sicura di aver capito del tutto.
    Quando dici:
    “Il problema è che, molto spesso, ciò che trasforma una guerra tra poveri e ricchi – un episodio della lotta di classe – in una semplice guerra tra poveri è proprio una visione razzista della società. Quindi nei fatti di Tor Sapienza il razzismo è un elemento centrale, e che varrebbe la pena di analizzare e non semplicemente in un’ottica morale, bensì politica. Ripetere che, se la gente grida “negri maiali” o “negri di merda”, e aggiunge “bruciamoli”, ciò non ha niente a che vedere con il colore della pelle, ma con il disagio sociale, significa dimenticare che anche i pogrom, storicamente, sono stati favoriti da forme di disagio sociale.”

    Mi sembra che quello che scrivi risuoni in parte con le parole di Annamria (Rivera) sul manifesto (e poi ripresa da micromega che titola: Tor Sapienza, la violenza razzista spacciata per “guerra tra poveri” http://temi.repubblica.it/micromega-online/tor-sapienza-la-violenza-razzista-spacciata-per-%E2%80%9Cguerra-tra-poveri%E2%80%9D/

    Una cosa meritevole di questo articolo, tra l’altro, è che linka la lettera dei rifugiati del centro Morandi (eccola: http://rottemigranti.blogspot.it/2014/11/lettera-aperta-dei-rifugiati-del-centro.html), attori non solo spettatori nella vicenda di Tor Sapienza.

    Sia te sia AR criticate il fatto che a destra e a sinistra, seppure all’interno di ragionamenti molto diversi, si tenda a ridurre lo specifico del razzismo a una questione meramente sociale. AR ci va giù pesante, dice che è colpa di un “sociologismo di bassa lega”:
    “Lo schema che ho citato s’intreccia con un’altra retorica abusata: quella, in apparenza non-razzista, della “guerra tra poveri”, secondo la quale, in sostanza, aggressori e aggrediti sarebbero vittime simmetriche. E’ un luogo comune purtroppo condiviso anche da una parte della sinistra, effetto della vulgata di un sociologismo di bassa lega”. 

    Mi chiedo e ti chiedo se, senza appunto peccare di riduzionismo e quindi prendendo in conto il fatto che l’immigrato nella presunta guerra tra poveri non è un povero ma un “negro puzzolente” o un “rom schifoso”, e questa non è una sottile postilla nominale, ecco, se premesso questo, sia possibile mantenere il paradigma della “guarra tra poveri (e poverissimi)”, ovvero guerra nella o dentro la classe (per usare l’espressione di un articolo di Aldo Carra http://ilmanifesto.info/una-guerra-dentro-il-ceto-medio/ che parlava d’altro, di come il fenomeno-renzi sulle questioni della riforma del lavoro stia spaientemente trasformando la lotta tra le classi in una lotta nella classe tra lavoratori garantiti e non garantiti).
    Insomma la domanda è se per comprendere e valorizzare e non sottovalutare la matrice del razzismo, dobbiamo abbandonare la chiave del disagio sociale.
    Che ovviamente non è una scusante. Citando, in quello stesso articolo su Tor Sapienza, l’episodio dell’uccisione a Torpignattara di  Muhammad Shahzad Khan preso a botte da un ragazzo romano di 17 anni, Annamaria dice attenzione a non mettere aggressore e aggredito sullo stesso piano. E giustamente. Ma dire che a volte aggressore (italiano) e aggredito (extracomunitario) sono inseriti nel contesto dello stesso disagio sociale urbano, non significa né dire che le due povertà si equivalgono, né tanto meno le responabilità morali: uno è un assassino l’altro, no.

    L’articoloa alla fine parla di  “guerra contro i più inermi tra i poveri” e fa appello a un intervento politico delle forze di sinistra nelle periferie per estirpare il razzismo, partendo dal presupposto (credo) che il razzismo lo combatti a scuola, lo cambatti sui giornali, lo combatti con l’antirazzismo diffuso e militante ovqunue, ma anche e necessariamente con delle misure sociali che riducano i margini della guerra tra poveri, e cioè distribuendo risorse e non facendo ripartizione della miseria.
    L’obiezione potrebbe essere che il razzismo non è solo un problema dei poveri. E certo che no. E quindi risolvere il disagio sociale non risolve il problema del razzismo in automatico, se non c’è un’educazione anzi una diseducazione al pensiero razzista. Però è anche giusto distinguere i razzismi, non per contrapporli o classficarli, ma per capire come intervenire, e il razzismo delle periferie non è lo stesso dei quartieri altri, nei modi in cui si esplicita e si consuma. Per esempio, il razzismo (tanto per usare luoghi comuni) del notaio dei parioli che tratta di merda la tata filippina e la paga due lire, scanza i lavavetri con disprezzo al semaforo, ma raramente insulta i bengalesi puzzolenti e ingombranti sui mezzi, perché non prende mezzi affollati; e il razzismo (ancora luoghi comuni) del benzinaio di 28 anni che ha cambiato 7 lavori negli ultimi 10 anni di Tor sapienza che sta con Casa Pound, è stato cresciuto in famiglia e nel quartiere a pane e “negri al rogo” , ed è convinto fino al midollo che gli immigrati fanno schifo e stanno riducendo il quartiere allo schifo. Quando dico che questo ragazzo vive dentro una condizione di disagio sociale oltre ad essere intriso del razzismo più becero dalla testa ai piedi, non nego l’elemeno marcatemente razzista e non lo giustifico “con la scusa” del disagio sociale (e anzi magari se lo incontro veniamo alle mani e ahimè vince lui). Io ci tengo solo a non far scomparire il nesso razzismo-guerra tra poveri, che non è forse l’unico nesso, perché come dicevo il razzismo si esprime in altre forme, ma quel nesso lì viene cavalcato dalla demagogia di destra nel modo più pericoloso.

    • Infatti la cosa del razzismo che lo rende così attrarente è la sua capacità di creare comunanza (comunità): la sciura può lamentarsi della badante con la donna di servizio, il tassista ti attacca il pippone razzista senza nemmeno domandarsi chi si è caricato dietro, e così via. E’ bello e rassicurante poter pensare che ci sia una base per sentirsi uguali a chi sta molto meglio di te.

  7. Secondo me stiamo perdendo tempo. Affermazioni tipo non siamo razzisti, “ma i rom devono andare tutti al Campidoglio e gli immigrati e gli zingari a casa loro” implica esclusivamente il fatto che ci si debba rimboccare le maniche(per cominciare seriamente a cooperare per ricostruire cultutalmente una societa` allo sfascio, regalando nel frattempo un proscenio adeguato ai cantastorie come salvini. E stavo pensando a zelig)

  8. Grazie ad Andrea Inglese per il suo bell’articolo – e a H, Jacopo, Jamila, Helena Janeczek per i loro interventi.

    Devo ammettere che il deficit di “realtà” di chi guarda questi fatti a partire da uno schermo (testi, ipertesti, televisione in streaming) può far vacillare.
    L’atteggiamento cauto della gran parte dei media e la generale sospensione del giudizio sono piuttosto contagiosi. Soprattutto le immagini distraggono: tu guardi in quale contesto sopravvivono gli aggressori e chi li spalleggia e puoi dimenticarti tutto il resto. E il fatto che tu sia qui e loro là nella bolgia viene spesso sfruttato nei media in modo ricattatorio. Cioè per fare presa sul pubblico e alimentare sostanzialmente una reazione di sospensione dell’incredulità.

    Mi pongo però questo problema.
    L’accusa di razzismo – proprio perché aggirabile con le retoriche primordiali ma efficaci di cui dice Inglese – sta diventando nel dibattito pubblico sempre più inefficace. E solo per via della ripetizione, della ridondanza percepita. Oltretutto, l’aspetto bonario e il “garbato fascismo” del Salvini stornano quasi di riflesso il portato immediato dell’accusa che, almeno a un’osservazione superficiale, pare come sproporzionata rispetto all’accusato (uomo normale, comune, di buon senso, ottimo pagatore d’imposte).

    Come far sì che il discorso antirazzista (anche il più semplice e potabile ai più) non si perda in caricature e nella propria eco a furia di ripetere “razzisti razzisti razzisti”?
    Questo mi chiedo. E mi viene in mente il Salvini: “Ancora menate il torrone con ‘sta storia del razzismo?”

  9. Grazie per tutti gli interventi. Provo a rispondere alle questioni imporatnti poste da Jamila e da DM.

    a Jamila,
    intanto grazie di aver linkato la lettera scritta dai rifugiati del Centro di Viale Morandi. L’avevo letta e voleva linkarla assieme ad altri pezzi.
    Intanto, sono contento che la percezione che io ho avuto sia condivisa. Penso all’articolo da te citato e che non conoscevo di Annamaria Rivera.
    Vengo ora alla questione che sollevi. Io ho esordito e concluso il pezzo sull’effetto di San Matteo, che è una lettura in chiave marxista non del razzismo, ma della polarizzazione sociale. Non solo. Dico che hanno ragione i residenti a dire: volete far funzionare un centro di rifugiati? Va bene, cominciate a metterlo nei quartieri che hanno tutto ciò che noi non abbiamo: illuminazione, prossimità con il centro, commerci, efficaci collegamenti, occupazione, tenore di vita medio-alto. Se da noi lo Stato vuole fare qualcosa, cominci con il colmare i suoi ritardi. Quindi nessuno mette tra parentesi il disagio sociale. Dove entra però e in modo cruciale la questione del razzismo? Il razzismo è esattamente il commutatore che trasforma una rabbia giustificata in un’azione non solo ingiusta, ma anche inefficace sul piano degli obiettivi sociali. Per questo ho citato Jesi. Il razzismo è lo strumento ideologico, discorsivo, che vanifica qualsiasi possibilità di mettere in discussione l’ordine sociale. Nel momento in cui i residenti di Tor Sapienza si mettono in testa che la loro salvezza sociale verrà da una pulizia etnica, si sono fregati con le loro stesse mani. Primo perché s’imbarbariscono, entrano nella barbarie. Due perché la chiusura del centro non farà salire di un euro il loro tenore di vita. Se avessero organizzato un’invasione – loro dovevano fare gli invasori – di Tor Sapienza nel centro di Roma, chiedendo interventi concreti e di reale rilevanza per la situazione del quartiere, sarebbe stato non solo un comportamento moralmente difendibile, ma anche politicamente efficace per i loro reali obiettivi. Gli unici che ci hanno guadagnato in questa situazione sono stati i neofascisti. Questi ultimi infatti si candinano come coloro in grado di trasformare il razzismo potenziale in razzismo agito. E per i neofascisti l’aggressione del debole e del diverso è in sé un successo.
    Veniamo al razzismo del borghese. Il razzismo del borghese è apparentemente inefficace. In realtà può esprimersi con il voto, si esprime con forme di discriminazione quotidiane (salariali ad esempio) e poi è proprio il borghese che leggittima, articola, ribadisce “il discorso razzista” e lo rende disponibile nell’etere comunicativo. Il Fronte Nazionale in Francia nella sua iniziale fase di crescita prendeva voti sopratutto dalle zone che non conoscevano l’immigrazione. Erano zone che non avevano stranieri, quindi non avevano problemi reali o presunti generati da stranieri, e non volevano averne neppure in futuro. La città dove convivono più comunità diverse e d’origini geografiche differenti, con una grossa presenza dell’immigrazione africana, è Parigi, dove il Fronte nazionale non ha mai sfondato.

    Per risponderti però completamente devo abbordare la questione di DM…

  10. a DM (e in continuazione a Jamila)
    “L’accusa di razzismo – proprio perché aggirabile con le retoriche primordiali ma efficaci di cui dice Inglese – sta diventando nel dibattito pubblico sempre più inefficace.”
    Verissimo. Quel tipo di accusa, infatti, si pone in una prosettiva esclusivamente morale: siete razzisti e invece dovreste essere tolleranti; siete egoisti e invece dovreste essere solidali. Certo che così non funziona. Chi si sente dire questo, ha subito buon gioco nel dire: tu benpensante di sinistra, prenditelo tu allora il centro di rifugiati. E se chi ha mosso l’accusa, vive magari in un quartiere centrale bello illuminato, con tante telecamere, e nessun rifugiato, non ha più granché da controbattere.
    Tutti sono disposti a dire che c’è la guerra tra poveri, basta che nessuno dica che la guerra che andrebbe veramente fatta è quella tra poveri e ricchi. Ma per passare dalla guerra tra poveri a quella tra poveri e ricchi, bisogna appunto abbandonare i falsi obiettivi di lotta forniti dal razzismo, per passare a degli obiettivi diversi. Solo che ve lo vedete il rappresentate della sinistra istituzionale o l’opinionista progressista che dice ai tipi di Tor Sapienza: “la prossima volta: striscioni contro il governo, bombe carta contro il municipio, tafferugli ai Parioli, mettetevi in rete con le altre periferie, stilate una lista di rivendicazioni, e finché non vi concedono qualcosa di concreto tornate a far casino ogni settimana.”
    I marxisti e in genere il movimento operaio ha creato il valore della solidarietà per limitare le ferite dello scontro sociale. Si è solidali, perché si è in guerra con le istituzioni o i padroni, che picchiano duro. Così sono nati inizialmente i sindacati. La sinistra di oggi dice al povero: “sii solidale in pace”, cioè non solo devo subire – perché sono in pace e non mi difendo -, ma per di più devo essere anche moralmente ineccepibile.
    Questo discorso possono farlo i cattolici, quelli coerenti intendo, che sono in un’ottica di solidarietà quotidiana e interclassista. Di cui, però, conosciamo anche tutti i limiti. Tant’è che oggi non funziona. Nei quartieri popolari neanche il discorso delle Caritas passa più.
    In breve: all’ideologia razzista bisognerebbe sostituire un’ideologia della lotta di classe, o qualcosa di molto simile. O comunque un’ideologia della contestazione dell’ordine sociale che ha provocato il disagio, con individuazione dei responsabili.
    Tutto ciò che sul territorio aveva questa ruolo è stato o rottamato spontaneamente o viene represso.
    Ma ci sono situazioni, in cui si cerano dinamiche più positive: dove c’è meno presenza di neofascisti e più presenza delle istituzioni. E quindi delle associazioni. Leggetevi questo articolo: http://www.openmag.it/2014/11/20/tor-sapienza-camaro-quartieri-storie-opposte/

    Infine parlo di me, o di quelli come me, che scrivono su questo sito o in contesti culturali simili. Sono uno scrittore. Quello che scrivo “di letterario” come scrittore può interessare molti o pochi lettori. L’essere scrittore, però, mi dà una familiarità con il linguaggio, non il linguaggio astratto, ma il linguaggio vivo, quello che usiamo nei contesti più diversi, quello che viene dal passato, ecc. Ora una prima, seppure limitata cosa, che posso fare è combattere il linguaggio con le armi del linguaggio. Smontare certi discorsi. Mostrare sopratutto a sinistra – è in quella direzione che parlo – il grado di conformismo intellettuale. Poi, come cittadino o militante, è un’altra storia. Posso fare tanto o poco. Ma qui, in questo piccolo contesto di discorso pubblico che è la rete, posso mostrare come il grande contesto del discorso pubblico, forte di una presunta professionalità, e di presunte grandi tirature, e di presunto sguardo critico, può risultare assai deblole a una lettura ravvicinata.

    • Tutto chiaro Andrea, merci! e dovrei leggermi Jesi ( ora visto che sono d’accordo senza ma, ora non aggiungo mezza parola ;).

  11. L’ideologia della lotta di classe, oltre ad essere una fallacia naturalistica di un’osservazione marxiana (osservazione peraltro non dimostrata, ma non importa in questo discorso), fallacia già avversata da Marx in persona, è un’ideologia identitaria, proprio come l’ideologia razzista. Non è un caso che laddove tale ideologia è stata messa in atto ha provocato al peggio stermini al meglio limitazioni delle libertà individuali fondamentali, tanto quanto la messa in pratica dell’ideologia razzista.

    Non è proprio la stessa cosa di un’ideologia che contesti l’ordine attuale.

    • Si potrebbe eccepire che l’articolazione marxiana del concetto di lotta di classe andrebbe approfondita, e che i regimi del socialismo reale non erano in realtà regimi propriamente marxiani.

      • Anche la Chiesa può essere considerata in realtà non propriamente cristiana. Questo è il problema: siccome dio esiste e vuole che sia fatto x,y e z, voi dovete fare x,y e z. Siccome Marx ha detto che la storia è fatta di x,y e z, voi dovete fare x,y e z. Che dio esista o meno, che Marx abbia visto giusto o meno è irrilevante. Nel momento in cui proponi un’ideologia la devi giustificare non rifacendoti all’esistente, ma sulla base di valori condivisi. Questa è appunto la fallacia naturalistica. A me pare che se sostituisci razza con classe hai lo stesso un’ideologia basata sull’identità e lo trovo contraddittorio, oltre che problematico. Non mi pare dunque un buon punto di partenza parlare di lotta di classe, perché presuppone un’appartenenza arbitraria e un’azione collettiva arbitrariamente indirizzata da qualcuno e non concordata. Questo mi pare che darà sempre problemi, perché non si riconosce l’individuo come agente, e perché chi non è d’accordo diventa elemento estraneo, nemico, non sulla base di ciò che fa (anche il regime democratico liberale punisce chi viola le regole), ma di ciò che è. La lotta di classe come ideologia mi pare che si porti addosso più problemi di una lotta per un’uguaglianza delle opportunità che non vincoli in maniera così decisa le azioni individuali. L’articolo 3 della nostra costituzione lo esprime bene.

        Poi se uno vuole può proporre un’ideologia che ponga fine alla differenza di classe per cui si stabilisce che le persone non possano avere o guadagnare più risorse di altre. La propone e vede se gli altri sono d’accordo. Oppure un’ideologia che preveda che ogni produzione sia decisa collettivamente e che i mezzi di produzione siano collettivi. Oppure si può dire che nessuno può guadagnare più di 10 volte un altro. Che nessuno può rimanere senza reddito.
        Che il profitto è intrinsecamente una forma di sfruttamento eccetera. Però fornisci buoni motivi per crederci e vedi cosa ne pensano gli altri.

  12. Andrea Inglese, grazie. Capìto.
    Mi pare però che la situazione attuale – con una destra molto concreta, contro i potenti di Bruxelles e i fanfaroni al governo, semplificando – sia un terreno poco fertile per l’ideologia della lotta di classe o qualunque cosa che le somigli. Perché:
    – i Salvini ti rappresentano e pertanto, agli occhi dei simpatizzanti, sono gli unici deputati, bisticcio significativo: a condurre per tuo conto la lotta e la battaglia.
    – A rendere ben difficile una “coscienza di classe” c’è la precondizione necessaria ma non sufficiente, di accogliere l’altro come simile. Mi sembra irrealizzabile.

    La verità è che i Salvini latrano il solito ghe pensi mi e vogliono in cambio un compenso di intolleranza. È come se dicessero “tu mi dài il voto, ma poi il lavoro sporco sta a te”.
    E il rimando a questa sorta di patto mi sembra fin troppo chiaro: cosa rappresentano se no le visite nei campi rom? E le perlustrazioni – ronde degli anni zero – coi telefonini a riprendere l’edificio in cui sarà il centro di accoglienza…?
    Di stipulanti poi ce ne sono fin troppi, gente che non vede l’ora di fare il lavoro sporco.
    È troppo comodo, semplice, economico perché una qualunque ideologia possa mettere dei dubbi.

  13. “In breve: all’ideologia razzista bisognerebbe sostituire un’ideologia della lotta di classe, o qualcosa di molto simile. O comunque un’ideologia della contestazione dell’ordine sociale che ha provocato il disagio, con individuazione dei responsabili.”

    Il problema si pone esattamente in questi termini, ma per inquadrare davvero il discorso bisognerebbe avere, da sinistra, il coraggio intellettuale di ammettere che o ci si concentra sulle cause del problema, oppure, continuando a rivolgere il nostro nobile sguardo verso temi pure importanti come l’assenza di illuminazione, trasporti e verde pubblico nelle periferie di Roma – pervertendo così i nessi di causa ed effetto –, rischieremo di trovarci nella spiacevole e non inedita situazione di dover giustificare la nostra miopia con un sempreverde “non sapevo, eseguivo solo gli ordini.”

    • Grazie mille del link Jacopo. Illuminante. E agghiacciante. Un esempio di terapia dello shock in versione europea.
      Sì, hai ragione a richiamare le cause della disuguaglianza. Ma nessuno degli odierni partiti di centrosinistra europei ha minimamente intenzione di contrastare quelle cause. In ogni caso, né il partito di Renzi né quello di Hollande. E anche se ci fosse un partito di sinistra europeo al 45%, e fosse deciso a contrastare l’impianto neoliberista, si scontrerebbe con il fronte compatto delle istituzioni europee e occidentali.

      Credo che il lavoro di controinformazione sui meccanismi economici, finanziari e politici del neoliberismo sia essenziale, ma credo che anche muoversi a partire da situazioni locali – a valle -, per prenderle in mano e sperimentare una possibile azione su di esse, sia un passo importante.
      Intendo dire che magari è sperimentando la capacità di organizzarsi e lottare per obiettivi secondari in un quartiere, che si può aprire la strada a rivendicazioni di più lunga portata.

      • Suggerisco di riflettere sul fatto, paradossale fino a un certo punto, che proprio da sinistra – ciascuno qualifichi questo lemma della zoologia umana come più gli aggrada: dal rosso rubino al rosa shoking ogni sfumatura è ben accetta – sia stato portato avanti il discorso ideologico secondo il quale le piccole e medie imprese rappresentano una metastasi del tessuto industriale italiano, il nemico per eccellenza del proletario bisognoso di internazionalizzarsi per condurre la sua lotta di classe all’amatriciana: la cristallizzazione del vincolo esterno – leggi fissazione del cambio e poi moneta unica – avrebbe così aiutato il nostro paese a progredire verso un modello di capitalismo avanzato, quello dove alla fin fine a internazionalizzarsi sono i capitali, ovvero ciò che nell’articolo (o nei commenti, non ricordo) viene impressionisticamente definito ordoliberismo, ovvero: il secolo deleuziano.

        (mi si perdoni se non cito le fonti, il tempo è poco, e nel caso ciascuno potrà ricostruirle da sé percorrendo lo storico dei commenti)

    • volendo fare psicologia da tre soldi è un po’ come quando i genitori rompono perché invece di studiare passi il tempo con la playstation (just for english) e ti viene il sospetto che sono solo invidiosi che loro non ce l’avevano. e questa moneta non è un albergo

  14. Suvvia, proprio a nessuno viene in mente una soluzione?
    A me sembra abbastanza semplice.
    Ci vuole una battaglia unitaria per far risorgere uno Stato che sia in grado di difenderci dal capitale globale e di assicurarci una minima forma di democrazia: tanto per intenderci, una che – essendoci in Cina dei lavoratori ipersfruttati – dà una scelta all’elettorato: volete anche qui lo schiavismo, o mettiamo dei dazi (anche semplicemente sotto forma di svalutazione della moneta)?
    Bisogna rivendicare il diritto dei popoli, anche di quello italiano (se preferite: di chi vive in Italia), a dotarsi di una effettiva sovranità nazionale negli ambiti fondamentali: politica economica, esercito, istituzioni.
    Una ideologia DEMOCRATICA della sovranità che specifichi e chiarisca all’immigrato, al precario, ma anche al primario dei parioli e allo spazzino fascio alla Superciuk, che condividono un interesse, molto egoistico, un minimo comun denominatore. Ovvero che TUTTI loro hanno bisogno dello Stato, TUTTI loro hanno bisogno della democrazia, TUTTI loro hanno bisogno della sovranità, per un motivo molto semplice: mettere il sale sulla coda a chi ha il conto alle Cayman.
    I fascisti propongono contenuti efficaci, perché basati sull’istintiva diffidenza verso chi è percepito come diverso. E allora qual’è il compito di una sinistra efficace? Mostrare che il nero, il bianco e il giallo sono UGUALMENTE DEGNI DI RISPETTO perché come il primario e chiunque faccia (o cerchi) un lavoro onesto vogliono le stesse cose che vogliamo noi, ovvero dignità, lavoro e la sicurezza di avere “un diaframma di protezione dalle durezze della vita”(salutiamo TPS che ci segue dall’Antenòra).
    E chi è invece il nemico, che possiamo e dobbiamo odiare con tutta la forza dell’istinto? Chi è il VERO diverso? Abbastanza ovviamente direi il rentier, il megadirettore galattico, quello che gestisce multinazionali ed hedge founds e guadagna milioni a decine non per aver inventato l’antipolio, e nemmeno per aver creato un’azienda o perché la sa gestire, ma solo per il suo trading di influenza. Quelli vanno additati come nemici, ci si mette e (dopo aver fatto autocritica per non aver capito un cazzo fino al 2014 – lo fa salvini, noi no?) si spiega il come e il perché ci stanno rovinando la vita. E gli si presenta un bel piano per rovesciare il tavolo, non sogni, un piano. Sono stati (siamo stati) addestrati a vedere il pubblico come un nemico, fra sbirri e tasse, dobbiamo mostrare che con l’unità di un popolo che si prende lo Stato puoi vincere anche come individuo, come si vinceva quando il PCI stava al 35% e la quota salari cresceva: possiamo vincere. Ma le uniche armi efficaci (da ottenere certo con le lotte e la politica) sono l’inflazione e la scala mobile, le nazionalizzazioni, le restrizioni ai movimenti di capitali, la GDF. Non un silver bullet per carità ma almeno una cornice in cui è possibile fare una lotta di classe che non sia solo teste contro manganelli. I Landini e le Rivera di questo mondo non ci arrivano, il più radicale agita le nazionalizzazioni ma si zittisce subito quando gli fanno notare che violano parametri europei e simili.
    Insomma ci vuole un minimo di democrazia, e una lotta dl genere si fa con l’inclusività necessaria ad un momento di emergenza quale quello attuale. NON intendo giustificare salvini, ma l’operaio che crede all’ebola e il suo padroncino evasore vanno recuperati con proposte serie e concrete, non insultati. Piena occupazione, meno tasse, sussidi decenti, servizi dallo Stato. Prima questo. Gli si faccia capire che i migranti sono alleati in questa guerra, non nemici. Ironicamente proprio in questa crisi molti lo capiscono facilmente, è VISIBILE a tutti. Ora che ai margini ci sei tu, ora che tuo fratello intelligente è partito in Germania, è molto più facile immedesimarsi. Persino chi è oggettivamente razzista ammette che gli immigrati sono la scusa. Che li insulta perché “gli rompono i coglioni” ma che il vero nemico sono “i politici di merda”. Poi se uno è un fascio definitivo, finirà culturalmente e socialmente ghettizzato: in una società in cui fra migrante e studente, fra madre di famiglia italiana e rumena, non c’è competizione salariale per il privilegio di vendemmiare o pulire gli anziani, sarà un poveretto solo e pieno di livore, che nessuno ascolterà. Si tenga il suo razzismo!
    Insomma ci vuole una narrazione che parta dai fatti, dai meccanismi della crisi e dalle proposte, non dalle narrazioni altrui da analizzare allo sfinimento: lo dice pure Jesi, o sbaglio? COSI’ NON SE NE ESCE, o guardi il paesaggio o il riflesso sulla finestra. Purtroppo però le menti migliori della sinistra sono impegnate a “smontare la narrazione da vincente” di Salvini e Renzi o glorificare l’astensionismo senza proporre altro che una genericissima (o particolaristica – due facce della stessa medaglia) lotta dal basso, e a conferire patenti di fascismo e lanciare fatwe a questo e quello. Partecipare nei partiti è impossibile: l’unico modo di proporre le proprie idee è prendere la tessera e battersi ogni giorno con un branco di wannabe assessori. Anche peggio nei centri sociali, dove a citare lo stato pensano come minimo che sei uno sbirro in borghese. Bo’, ditemi voi.

    • a rapa,
      sono d’accordo su alcuni punti importanti… ma per ritornare al senso del discorso che si è cercato di fare qua… quando tu dici:
      “Insomma ci vuole una narrazione che parta dai fatti, dai meccanismi della crisi e dalle proposte, non dalle narrazioni altrui da analizzare allo sfinimento: lo dice pure Jesi, o sbaglio? COSI’ NON SE NE ESCE”

      Già, una narrazione che parta dai fatti… Ti sembra semplice? Come diceva François Chesnais (un valido marxista francese) che intervistai un po’ di tempo fa: per i capitalisti la lotta di classe non si ferma mai, loro sono sempre sulla barricata… Se le narrazioni dei fatti fossero così semplici da far passare tutto il capitolo marxiano che sia chiama critica dell’ideologia sarebbe stato una pippa inutile, a cominciare dalla maggior parte dei libri di Marx, che sono nutriti da narrazioni ufficiali “smontate”. Le tue narrazioni mica viaggiano nel vuoto stagno, devono farsi largo attraverso narrazioni che dicono il contrario, che sviano, che deformano, che occultano, ecc.
      Tu citi Jesi, ma Jesi è un campione delle narrazioni altrui, delle narrazioni di Destra, e ha fatto un utilissimo lavoro.
      Non esiste una soluzione facile, a portata di mano. Esistono però cose che ognuno può fare nel proprio ambito con un obiettivo comune. L’analisi di un’economista, serve come il buon giornalismo d’inchiesta, come un’analisi che smonta il discorso dell’avversario, come un’azione sul territorio realizzata dai centri sociali. Che manchi poi una strategia politica in grado di unificare questi diversi fronti, è quanto risulta evidente a tutti. Ma la soluzione non consiste nel liberarsi di questa ricchezza di pratiche, come se ce ne fosse una sola che garantisse magicamente la fine dell’attuale capitalismo predatorio.

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andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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