Il sex appeal degli scrittori: Giacomo Leopardi (e Carver)
Francesco Forlani
«Così ho pensato di andare verso la grotta,
in fondo alla quale, in un paese di luce,
dorme, da cento anni, il giovane favoloso»
Anna Maria Ortese
C’è un sito in Italia, in cui è possibile sapere quale anniversario, di nascita o di morte, cadrà nell’anno in corso e in quello a venire degli uomini illustri. Si può chiedere di ogni anno, come se al venditore di almanacchi si potesse domandare ogni volta cosa fosse mai stato il passato ; e allora registi, scrittori, artisti ci propongono a seconda del peso dei defunti il loro personale memoriale nel nome della gloria di uno di essi o di un evento quando degno di essere ricordato. Così l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia tre anni fa vide un vero e proprio florilegio di opere sul Risorgimento e l’anno in corso lo stesso per Enrico Berlinguer. Il conte Giacomo Leopardi, invece no, nato a Recanati, il 29 giugno 1798 e morto a Napoli il 14 giugno 1837, non incorreva in quello strano guasto della memoria e dunque, sdoganata l’opera dall’ingombrante idea dell’attavolino, possiamo almeno questo film, il giovane favoloso di Mario Martone, coglierlo in questa sua gratuità come un atto libero e consapevole del regista.
Quando più di un anno fa ho letto delle riprese del film la prima cosa che ho pensato è stata quanto potesse essere difficile per un regista confrontarsi con la vita, e presumibilmente le opere, di uno scrittore. Non si prenda in considerazione il lavoro di adattamento di un romanzo, la sua trasposizione cinematografica, complessa e a giudicare dai risultati, spesso riuscita al punto che certi film sono di gran lunga più belli dei romanzi a cui s’erano ispirati ; in questo caso si parla invece proprio degli scrittori ed è per questo che ho immediatamente pensato a Raymond Carver. Come molti sanno allo scrittore americano Michael Cimino aveva all’inizio degli anni ottanta affidato la sceneggiatura della vita di uno degli scrittori-icona più grandi : Фёдор Михайлович Достоевский.
“Cimino disse che voleva fare un film su di un grande scrittore. Secondo lui, questo non era mai stato fatto. Citò Il dottor Zivago come esempio di quello che non voleva fare. Mentre parlavamo di quel film, mi ricordai che solo una volta Zivago, medico-scrittore, viene visto nell’atto di scrivere qualcosa.” Così scrive Carver nell’introduzione alla sceneggiatura, va detto assai scadente, scritta a quattro mani con Tess Callagher. Lo scambio di battute tra i due è quasi comico come quando ci racconta Carver: “Certo, la creazione di poesia o narrativa non è di per sé roba da sfondare lo schermo. Cimino voleva mantenere da cima a fondo visibile il Dostoevskij romanziere. La sua idea era che le circostanze drammatiche, spesso melodrammatiche, della vita di Dostoevskij, messe in rapporto con la composizione ossessiva dei romanzi, avrebbero offerto una meravigliosa occasione cinematografica.”
Il comico diventa grottesco poi, quando sappiamo che ad aver scritto una prima stesura sia stato un russo e che in seguito due sceneggiatori italiani l’avevano tradotta in inglese tentando “di metterci un po’ di pepe”. Quando grazie a un amico sceneggiatore, Salvatore De Mola, ho cercato di saperne di più, sono venuto a sapere che il russo in questione era niente poco di meno che Алекса́ндр Иса́евич Солжени́цын, insignito dieci anni prima di quell’incontro, del premio Nobel. Allora ho sentito un altro amico del mondo del cinema, Gino Ventriglia, per cercare di sapere anche da lui se esistesse un modo di sapere il nome dei due sceneggiatori italiani, ma soprattutto per verificare quanto detto da Cimino sul fatto che non vi fossero stati nella storia grandi film su grandi scrittori. Certo non erano mancate ambizioni in quel senso, come quella di Visconti e del suo film su Proust. Progetto che non vide mai la sua realizzazione. Sappiamo però che quando si era sul punto di farlo il regista aveva immaginato un casting davvero recherché : Silvana Mangano per la duchesse de Guermantes, Marlon Brando nel ruolo di Charlus, Helmut Berger in quello di Morel, Alain Delon Marcel e Simone Signoret come interprete di Françoise. I produttori avrebbero parlato anche di Dustin Hoffmann, Brigitte Bardot, Charlotte Rampling e addirittura di Greta Garbo per una breve comparsa come Regina di Napoli.
Eccoli i giganti, Leopardi, Dostoevskij, Proust, Victor Hugo di cui va ricordato lo straordinario Adele H di François Truffaut e in cui il gigante delle lettere brilla per la sua quasi totale assenza ; grandi scrittori europei, ovvero appartenenti a una tradizione che non si limita alla letteratura nazionale ma che la sovrasta, la travalica come in passato era stato il caso per Dante e Boccaccio o ancor prima con Virgilio. Non so per esempio quanti siano al corrente del fatto che diverse sue opere furono pubblicate in Francia ancora inedite in Italia e che il poeta avesse negli anni ’30 manifestato il proprio desiderio di andarsene nella capitale francese. « Io per molte e fortissime ragioni sono desideroso di venire a terminare i miei giorni a Parigi »( lettre de Leopardi à De Sinner du 20 mars 1834.) Queste due premesse, una sulla complessità della vita degli scrittori come materia cinematografica e la dimensione europea della figura di Leopardi sono necessarie per capire come a mio avviso Mario Martone, il suo cineteatro, sia riuscito con questa sua opera a rendere verosimile il suo, nostro racconto della vita del poeta di Recanati. Cominciamo dalla luce.
Come tutti sanno il cinema è luce. Un buon direttore della fotografia è colui che riesce ad ammaestrare la luce, a comporre con essa il quadro-inquadratura dell’azione scenica. Per questo suo film Mario Martone ha affidato la camera a Renato Berta ; non vorrei apparire wikipedante ma è uno, per capirci, che ha lavorato con Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, Patrice Chéreau (L’homme blessé, 1983), Éric Rohmer (Le notti della luna piena, 1984), Jacques Rivette (Hurlevent, 1985) e André Téchiné (Rendez-vous, 1985). Louis Malle, Arrivederci ragazzi (1987) con il portoghese Manoel de Oliveira e con l’israeliano Amos Gitai. Insomma per capirci ci capisce. Se provaste mentalmente a crearvi un blob di sequenze di tutti questi film citati ritrovereste assai facilmente un uso della luce che nel film di Martone si deterritorializza e si detemporalizza costantemente. Sia che si tratti delle rimembranze del poeta o dello sguardo sulle cose, ora la montagna incantata del Vesuvio ora i rituali gesti dei giocatori nel pallone, il flusso di immagini e di coscienza del protagonista ne determina il pensiero, la forza delle idee quasi in sinergia con i momenti di massima fragilità come quando la luce irrompe nella camera buia del poeta quasi accecato dalla fatica. Una luce che quasi si modula sui diversi registri linguistici, sia che si tratti delle lingue regionali che dei passaggi dallo scritto al parlato.
Questo tema della luce e della cecità ci riporta ad Anna Maria Ortese, il cui racconto, Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi (nel libro edito da Adelphi, da Moby Dick all’Orsa Bianca) non si limita a suggerire il titolo del film, come è stato ricordato dal regista ma ne orienta quasi tutta la visione, del poeta e dello spettatore, al punto che mi è sembrato perfino magica, nel senso di magicamente evocativa, la scena del canto, a Napoli, di uno dei suoi attendenti della settecentesca ‘O Cardillo. Non si tratta più della malattia, allora ma del dolore da capire in tutta la sua capacità fondativa della verità. La verità dice male all’uomo non perché in un particolare destino, una malattia individuale ne determini la tragicità ma proprio perché grazie a quel preciso e concreto male è come se il corpo si affrancasse dall’illusione dell’anima e ne cogliesse tutta l’universalità. Per capire questa esperienza quasi orientale della verità del giovane favoloso basterebbe rileggere uno dei più potenti ed insieme chiarificatori passaggi di un altro gigante europeo, Friedrich Nietzsche, che fu tra l’altro tra i primi a cogliere la grandezza di Leopardi.
Scrive il filosofo: “La salute dello spirito si misura da quanto esso è in grado di sopportare e superare e cioè risanare. La malattia è un sintomo della grande salute”. In tal guisa va a parer mio interpretato il processo di annientamento fisico così finemente raccontato da Martone con la progressiva conquista di una verità laica, rivoluzionaria per i suoi tempi nel non volere assecondare le due cecità della religione e del progresso. Leopardi, le grand malade, compie attraverso sé stesso una trasfigurazione del tempo, rimembra e si smembra in virtù di una profonda conoscenza delle cose.
Nel suo racconto Anna Maria Ortese scrive : “Il sentimento della vita sì bella e fugace lo dominava come un prodigio. […] Da quella coscienza, l’uomo saliva. […] Il suo dolore, come un fuoco, distrusse, come una luce ricreò tutto”.
Così mi ritorna in mente il finale della canzone ‘o cardillo:
T’accarezza te vasa ah… viato
chiu’ de me tu si certo cardi’
Si cu’ tico cagnarme m’è dato
doppo voglio davvero muri’.
e la necessaria metamorfosi, che la vita procura a sé stessa attraverso la vita, sia che si tratti della natura in cui il poeta si perde, si rotola, si arrampica, cade che dell’aristocratico amore via via crescente verso il popolo umile come nella sequenza in cui il giovane e deforme conte è accolto da giovani e vecchi al tavolaccio lungo di una bettola di quartiere. L’interpretazione di Elio Germano è talmente connaturata al personaggio che la vita dell’uno si troverà a coincidere nel finale con quella dell’altro: Elio Germano ha 34 anni, Leopardi muore a trentanove. Altra interpretazione degna di nota quella di Raffaella Giordano, nota coreografa e danzatrice che nel ruolo della madre è totalmente ripiegata su se stessa, matrigna ancor più che madre, tumultuosa nella sua immobilità.
La lenta ginestra che sul finale rappresenta meglio di qualsiasi altra natura la conversione di Leopardi all’eterno ritorno delle cose, al vivere e morire incessantemente, si compie ancora una volta attraverso la caduta del cielo in mille frammenti. La voce di Elio Germano porta naturalmente ognuno di quei versi alla ragionevole mutezza, a quella che Walter Binni, il primo ad avere tentato di liberare Leopardi dalla sfiga del personaggio e dall’erronea attribuzione alla sua poetica di una autofondazione idillica, definiva una “musica senza canto”. Aggiungendo: “Ed ogni lettore che abbia storicamente e correttamente compresa la direzione delle posizioni leopardiane (anche se personalmente non le condivida interamente) non può comunque uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, inscindibilmente poetico, senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare parole leopardiane) “un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni” (e non con l’animo “in calma e in riposo”) che è appunto per Leopardi il vero effetto della grande poesia.”
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La scena di Leopardi che cammina sul Lungarno con lo sfondo della Biblioteca Nazionale Centrale (voluta dal fascismo…) mi aveva dissuaso dal…Da leopardiano da sempre. Adesso le parole di Forlani fortemente sentite…Chissà se dal mio eremo dovessi capitare a Firenze…
Francesco,
Hai ricordato tre amori nella mia vita:
Napoli, Anna Maria Ortese, Leopardi.
Non mi perdo il film, quando uscirà in Francia.
Le genêt: una poesia bellissima.
et comme alors j’entends
le vent bruire dans ce feuillage…
lc
Alphonse Aulard,( 19 luglio 1849 a Montbron, morto il 23 ottobre 1928 a Parigi) storico francese, titolare della prima cattedra di storia della rivoluzione francese dal 1885 fino al 1922.
Nel 1877, diventa dottore in lettere, grazie a una tesi intitolata Essai sur les idées philosophiques et l’inspiration poétique de Leopardi.
Nel 1880 traduce Poésies et Œuvres morales de Leopardi.
per rimanere in Francia
effeffe
quella di sopra era di bonnefoy, spero solo che aulard, ai tempi, abbia fatto qualcosa di meglio
lc
Questa di Mario de Santis è una riflessione indirizzata in primo luogo a dei ragazzi, ma offre degli spunti importanti sul rapporto corpo e parole.
http://www.parcopoesia.it/un-favoloso-giovane-precario-come-noi
grazie, Effeffe.
bella analisi… mi chiedo però se binni non abbia inaugurato anche quell’attualizzazione di leopardi – protestatario, ribelle, non sfigato, favoloso – di cui secondo me non c’era affatto bisogno…meglio sarebbe prendere quello che è di leopardi, quello che è leopardi…
in effetti ‘favoloso’ è un pochino di troppo….dalle poesie, dalle Operette Morali e dalle lettere e da tutto ne emerge una strenua, disperata lotta…tutt’altro che ‘favolosa’….si il ‘favoloso’ è fuorviante nel senso che…..
ha raggione liviobo
cioè?
favoloso nella sua accezione sta per fuori dalla realtà, Leopardi era oppresso dalla realitè rugueuse e appunto sapeva travalicarla (le illusioni…scientemente assertive..)…se l’Ortese aveva usato il ‘favoloso’ in questa accezione…ma così, di rimando in rimando…
Reverendo Jazz come si possa paragonare carver a leopardi resta un mistero. ho scritto una recensione della sceneggiatura su dostojevski di carver e della compagna. domani mi riserverò di intervenire, anche su nazione indiana. sapete, queste mezze seghettine che pretendono di sapere tutto r non hanno mai…? vabbe’, aspettiamo domani
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Reverendo Jazz letto su nazione indiana questo pseudo.- deliquo… da strapparsi i capelli a crepapelle… mica capito di cosa stava parlando… sapete, il minestrone… mettiamoci dentro un sacco di ingredienti, quelli che troviamo, e poi qualcosa verrà fuori… Carver, Ortese, Leopardi… omg— forse manca pasolini, o no? o papa francesco con il perdono per i gay, o per quelli che non sanno scrivere… a proposito, Ortese chi è? A questo punto meglio forse la Deledda o la Morante o la Maraini, o no?
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a domani col mio breve articolo sulla sceneggiatura di Carver intorno a Fedor (Fiodor)
e intanto noi
effeffe
Giacomo negli ultimi anni, senza più speranze, in una lettera o nello Zibaldone si sfogava così delle malelingue (cito a braccio):’Io no sarò nessuno e sarò subito dimenticato….ma ho la certezza che che mi criticano tanto scompariranno anche loro…’. E invece quei buzzurri ben pensanti sono ricordati in quanto conobbero il Nostro. Per dire che si può, oggi, opinare o contro opinare senza tema di scalfire minimamente questo Grande, incommensurabilmente grande.
beh, sì, insomma precisamente volevo dire che leopardi è certo anche favoloso nel senso etimologico, ma mi sembra che ci sia in giro una certa ansia di volgerlo in segno positivo, di renderlo passabile ai “giovani”, di farne un tipo che potrebbe girare sull’ultima auto delle pubblicità.. a me mi pare che dovrebbe bastare e avanzare la sua intelligenza e la commozione che danno le sue poesie… ma il film non l’ho visto, certo questa è l’ansia che hanno le recensioni alla tv e non martone…suppongo che il suo non sia un leopardi edulcorato, “pettinato”, modernizzato e impupazzato…suppopngo che sia un leopardi impossibile e impresentabile, quale era…
…certo spero che non sia neanche la macchietta del gobbetto infelice e senza nerbo, che scrive per disperazione… scriveva per intelligenza, ed anzi era disperato per intelligemza…
Livio, grazie.
Livio e Natalia, secondo me questa prospettiva che del resto ho sottolineato nell’articolo è ben rappresentata nel film. Così il tema de la grande santé dello stesso segno della grande maladie. effeffe
Non ho ancora viso il film, che andrò certo a vedere. Spero che Martone abbia messo in luce due degli aspetti più veri e fondamentali di Leopardi: la sua dimensione eroica e la sua grandezza come filosofo. Perché Leopardi è il più grande filosofo italiano del 19° sec. Un filosofo che scriveva in versi meravigliosi. Come Lucrezio.
A costo di apparire un fan, ma nella proteica, abissale scrittura del Nostro, non solo poeta sommo, non solo filosofo indagatore dell’avvenir del vero, ma anche supremo filologo, scienziato, sociologo insomma tutto sfuggendo alla trappola del tuttologo. Nello Zibaldone è appunto la miniera inesauribile del poeta, sociologo, psicologo, critico. filologo. Tutto insomma, ma non tuttologo. E nella nostra trita e ritrita scuola sempre l’assurda triade carducciana sul pessimismo infine cosmico e la poesia ristretta all’oleografica ‘donzelletta che vien di campi…’.Ma lui, lo straordinario (e non ‘favoloso’) Giacomo continua a parlare, intenso a chi sa udire. E proprio là dove lui si era fermato invocando una ‘ultrafilosofia’ unica capace di disvelare ‘l’indegno mistero delle cose’,da quel ‘traguardo’ era partito Rimbaud (che non conosceva Leopardi). Perchè non è la fama ondivaga degli umani a decretare, ma certe frontiere della conoscenza abbattute. E dopo Rimbaud arrestato dall’incapacità, impossibilità di trovare la chiave per mutare la realitè ruguese qualcun altro aveva raccolto il testimone di questa esaltante staffetta…Si Dante è il ‘sommo poeta’, ma Leopardi è tutt’ora in questa tragica (ed esaltante) modernità. E certo, per finire (indegnamente forse) ci consola di questi triti fanstasmi (televisivi)…B., re Travicello Napolitano, Pinocchio Renzi..
E perchè la relativa fortuna all’estero di Leopardi come poeta? Perchè aveva aveva portato al diapason la libertà somma e magistrale della lingua madre di tutto l’Occidente, l’italiano. Quando nel conclusivo verso de ‘Alla sua donna’ dice:..’questo d’ignoto amante inno ricevi’ in inglese diventa ‘ricevi questo inno da parte di un ignoto amante’ e così facendo hai azzerato la poesia e la stupenda libertà sintattica (ed anche morfologica) della nostra lingua, riaccesa, è il caso di dirlo dal Poeta.
sì, penso anch’io così, ff… grande malattia e grande salute… titanismo di un quasi nano, mi sembra 1,57…… vero anche il paragone con lucrezio… vero anche che fu tuttografo e non tuttologo…
E vero anche che non sarebbe il caso né di confrontarlo con Rimbaud,né di concludere un pensiero sulla sua “modernità” (conquistata scavando al di sotto della storia, al di sotto della favola greca)inquinandolo con il nome di qualche politico italiano. Il film di Martone sacrifica largamente il portato filosofico del poeta, ma insiste molto finemente sullo star del giovane Leopardi, tra reclusione e espansione, e solo questo lo renderebbe un film degno. Le atmosfere napoletane poi, quasi un Capriccio di Goya, sono eccezionali.
*sullo stato
Non vedo come si ‘inquini’ Leopardi dicendo che ci consola (la sua grandezza) di certi ‘figuri’ nostrali. Secondo di poi e non tanto assurdamente (o paradossalmente) Rimbaud era proprio partito dal punto di ‘arresto’ del Nostro, dalla leopardiana ‘ultrafilosofia’. Che poi non conoscesse Leopardi è fuor di dubbio, ma aveva in qualche modo ‘percepito’ quell’invocazione estrema, proprio in quanto ‘visionario’. E poi che senso ha escludere o criticare’la modernità’ quando noi ancora sentiamo vibrante il suo pensiero? Il cinema di Martone? Non dubito delle sue capacità evocative. Certo che il fotogramma di Leopardi che passeggia ‘ove Arno è più deserto’ ed ha come sfondo la Biblioteca Nazionale Centrale voluta dal Fascismo in bieco stile neoclassico, fotogramma veicolato dai media (e poi ritirato) lascerebbe un pò a desiderare.