C’è molta più arte tra la terra e il cielo … # 2
di Carla Benedetti
Terzo esempio di attrito: giovani artisti occidentali.
A Sarah Ciracì, vincitrice del premio New York dell’anno scorso, costruttrice di immagini di grande potenza visionaria (due trivelle che sfondano il pavimento di una galleria, la serie Trebbiatori celesti, l’installazione Un’estate a Bikini 2.0; al Macro di Roma si può vedere ora una sua installazione intitolata “Oh my God, it’s full of stars!), ho chiesto cosa pensa dell’odierna arte occidentale: “E’ un’arte che può fare a meno del pubblico”.
Com’è possibile, le chiedo, se dappertutto vi sono esposizioni, e se le immagini delle opere, riprodotte, vengono portate in mille modi sotto i nostri occhi? Eppure se si guarda meglio non si può non darle ragione.
E’ facile constatare quanta poca parte abbia il gradimento del pubblico in questo circuito autoreferenziale che è il mercato dell’arte, e quanta parte vi abbiano invece i curatori, i direttori di musei e, soprattutto, i ricchi collezionisti che acquistano le opere di giovani artisti per poi decidere come e quando renderle visibili, nelle enclave predisposte, che in qualche modo controllano o influenzano.
Questi mediatori mediano così bene tra artisti e pubblico che quest’ultimo vede solo ciò che essi decidono di esibire, valorizzare e così far salire di prezzo.
Il “valore esibitivo” delle opere – direbbe Walter Benjamin – è qui quasi del tutto cancellato a favore del “valore di culto”, fusosi perfettamente con il valore di mercato attraverso la figura del collezionista. Nel collezionista Benjamin vedeva riaffiorare i tratti del “servo di un feticcio“, che “attraverso il possesso dell’opera, partecipa al suo valore di culto”. Questa figura è oggi uno dei pilastri dell’istituzione artistica occidentale.
Così i limiti del sistema artistico occidentale non sono stretti solo per l’arte post-coloniale. Possono esserlo anche per gli artisti occidentali: soffocanti, repressivi, persino grotteschi.
Quarto esempio: dove l’arte sconfina nell’etnografia.
Da anni Camilo Josè Vergara documenta le trasformazioni dei paesaggi urbani degli Stati Uniti, gli effetti del tempo, del business e dell’abbandono. Lo fa attraverso narrazioni e fotografie, che spesso riprendono uno stesso luogo a distanza di anni. E’ un artista? O è un “fotografo-antropologo”, come di solito viene definito?
I suoi lavori sono raccolti in libri come The New American Ghetto (1995), Unexpected Chicagoland (2002). Ha ricevuto l’anno scorso la prestigiosa McArthur fellowship, nota negli U.S.A come “il premio per il genio”.
Non ho conosciuto il suo lavoro in una galleria ma in un seminario della Columbia University tenuto dall’antropolgo Michael Taussig. Il seminario si intitolava “Etnografia e avanguardia” ed era frequentato per metà da antropologi per metà da artisti.
Qui Vergara ha mostrato diapositive di Los Angeles: luoghi apparentemente vuoti, ma in cui brucia la vita, come gli alberi che crescono in biblioteche abbandonate, o i teli di plastica che coprono gli oggetti ammonticchiati dei senza casa, davanti alle alte reti che difendono le abitazioni.
Questi condomini fortificati, chiusi davanti all’aperto in cui brulicano vite in cerca di un luogo in cui stare, lavorare, allevare bambini, fanno pensare alla scena occidentale dell’arte: anch’essa recintata, guardata a vista dalle sue istituzioni, e tenuta ben separata dal contesto della vita, quello in cui le opere nascono e agiscono.
Due domande a Michael Taussig.
Australiano di origine, Taussig è uno degli antropologi americani più in vista e innovativi. Tra i suoi libri: Mimesis and alterity (1993), The Magic of the State (1997) Defacement: Public Secrecy and the Labor of the Negative (1999).
Perché ha intitolato il suo seminario «etnografia come avanguardia”?
L’etnografia, come ogni documentario, è di fatto una forma d’arte mascherata da scienza. Così il nostro compito è rivelare l’arte nascosta dentro ciò che appare in forma di non-arte, o persino di anti-arte. In questo modo paghiamo un tributo ai nostri “informatori”, che non sono narratori veri e propri, le cui storie sono state mal raccontate, come se fossero scienza.
Cosa pensa del concetto occidentale di arte?
Come la magia, l’arte in occidente è stata definita in opposizione alla scienza. Inoltre è stata de-ritualizzata e separata dalla magia e dalla religione. Torna a essere ritualizzata, a suo modo, nello sterile spazio delle gallerie, oppure nei rituali viventi di ogni giorno, negli abiti alla moda, negli stili di capelli, automobili, motociclette e così via.
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Fine. Nell’immagine un’installazione di Sarah Ciracì
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Che dire? Un bellissimo articolo. Mi sembra che la Benedetti si stia dando da fare a sviscerare la questione, certo dirimente, dei “mediatori culturali” e della “normatività” dei generi su diversi piani, campi, punti di vista. Mi sembra un lavoro coerente e portato avanti con acribia. Cara Carla, mi accorgo che nell’ultimo periodo mi eri proprio mancata!
Ma dove si colloca Carla Benedetti? Sembra apprezzare Sarah Ciracì (che salveremo comunque: oltre che conterranea, è praticamente amica di famiglia) ma le opere di Ciracì dovrebbero essere ascritte a quel genere di prodotto il cui valore – secondo l’autrice del pezzo – è irrimediabilmente falsato dall’imposizione dei mediatori. I mediatori impongono quindi anche (o spesso) opere valide? Ed è compito del pubblico (del lettore) decidere se un prodotto è un’opera d’arte? Benedetti, insomma, apprezza dalle seggiole del pubblico o dalle poltrone dei mediatori? E la stessa Sarah, risposta secca a parte, che senso dava alla frase? Deplorava? Approvava? E’ frustrata dal “non avere” pubblico o ne è estasiata?
Ue’, Elio back again… ma dove sei stato?
G.
Artista per esempio è uno che lavora per raccontare la storia del fratello epilettico, della famiglia, dell’infanzia, del disegno, e magari in questo lavoro impiega anni, poi da qualche parte anche abbastanza lontano da dove vive lui arriva un sms che dice: Ho letto tutto in una volta Cronaca del Grande Male, mi è piaciuto molto.
Da Corrierone di oggi ecco alcune riflessioni di Robert Hughes:
– Gli esorbitanti prezzi pagati per certi quadri sono «un’oscenità culturale», «sviliscono l’arte» e ne riducono il valore «a livello patologico».
– «Quando un super ricco paga per un immaturo Picasso del periodo rosa 104 milioni di dollari, una somma pari al reddito nazionale annuo di certi Paesi africani o dei Caraibi, vuol dire che c’è davvero del marcio».
– Ma è il sistema, secondo Hughes, che produce simili storture. Nel mirino del critico ci sono i collezionisti, che hanno un potere enorme, favorito (almeno nei Paesi anglosassoni) dalle leggi fiscali che incoraggiano gli acquisti d’arte, sicché essi possono usare «i musei come megafoni dei loro gusti a volte discutibili».
– «In trent’anni a New York ho visto i danni che può fare: l’improvviso sbuffare di reputazioni, il lancio in aria di uova per vedere la breve grazia del loro volo, la tirannia della moda».
– «Io so, e molti lo sanno nel loro cuore, che il termine avanguardia ha perso le ultime vestigia del suo significato, in una cultura in cui tutto si può».
– «Abbiamo fatto una spanciata di fast art e di fast food. Abbiamo bisogno d’arte più lenta, arte che regga il tempo come un vaso regge l’acqua».
G.
p.s. nella pagina prima c’era un Dante Scarpa muy sfizioso.
Ma non so, a me non dà fastidio che da qualche parte uno paghi 104 milioni di dollari per un Picasso, a Bologna quest’anno ho potuto vedere David B., sono contento così. Volendo possederli i suoi disegni hanno prezzi accessibili, a me interessa più di Picasso (meno di Dubuffet però), forse un po’ come Michele Mari ritiene auratico Kamumilla Kokobì. Forse c’è l’arte per i collezionisti e l’arte per il pubblico. A Bologna pubblico ce n’era tanto e a David volevano molto bene, una specie di gratitudine per il suo lavoro. Lui rispondeva alle domande senza teorie sacre (come nel librone inutile “Interviste” di H.U. Obrist) insomma con umanità. A me lui pareva proprio un artista.