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La vuota scuola

teacherSkeleton

di Eleonora Tamburrini

La tentazione crescente è quella di gingillarci così, limitandoci a descrivere episodi tragicomici, scandalizzandoci tra addetti ai lavori, contentandoci del mezzo gaudio. Per esempio.

1) Qualche tempo fa mi trovavo al telefono con un sindacalista. Mi spiegava con tutta l’assertività del caso che no, non sapeva davvero rispondere alla mia domanda sui “contratti fino ad avente diritto” nella scuola pubblica, ma sì, reputava assolutamente necessario che io mi iscrivessi a un nuovo corso abilitante.

Io sono già abilitata all’insegnamento.

Ma con quella nuova SSIS?

Si chiama TFA. Sono una di quelli che la riforma vuole esclud…

Ma no, ma no! Io parlo dell’abilitazione al sostegno!

Il sostegno? Veramente non so se…

Ma come pensa di lavorare, se non attraverso il sostegno?

2) Transitando con furtiva riluttanza in alcune scuole paritarie, mi si è ripresentata con molta costanza e poche variabili la scena seguente. Insegnanti – o forse genitori? ma non saranno studenti? – pencolanti nell’atrio. La kenzia sfinita al sole. La presidenza. Atmosfera spigliata e in secondo piano busto policromo di Ugo Foscolo e insolito gagliardetto.

Si sieda pure signorina. La chiamo signorina, visto che è così giovane. Anzi ti do del tu, ti spiace? Abbiamo scelto il tuo curriculum perché sei abilitata. Con il TFA, o come si chiama. È che ci impongono di avere un tot di docenti abilitati nell’organico. Il punteggio è lo stesso che nella pubblica, sì – tanto venite qui per i punti, lo sappiamo. Il contratto è a progetto. Legale, certo. La paga è la metà. Sai, qui di soldi non ne abbiamo… cosa vuoi, non è mica la scuola pubblica. Ci viene gente coi problemi veri qua, gente che gli ci vuole il sostegno viene qua. Che nella pubblica non li seguono mica. Ma ora dimmi di te, dimmi. Cosa pensi di fare?

3) Andare a Montecitorio lo scorso 10 settembre è stato naturale, anzi urgente. A Roma fa caldo come sempre. Giornalista esangue si porta davanti a un mio collega, non lo guarda, solo solleva di poco la mano col microfono e tenendosi monocorde per non dover prendere fiato dunque come mai siete qui a protestare?

Noi abilitati TFA siamo vincitori di concorso, selezionati in base a un preciso fabbisogno del MIUR. Ora ci vediamo esclusi dalla riforma e…

Fermo fermo, niente sigle, che la gente a casa non capisce. Me deve di’ quanto l’hai pagato sto corso! Ditece i sordi, le cifre, robba così.

(2500 euro più 450 per le prove di accesso più spese di trasporto, n.d.a.)

Credo che queste tre ordinarie scenette dicano più di qualcosa a chiunque abbia una qualche ambizione o un’esperienza diretta nel mondo della scuola. Ma al resto del mondo le stesse tre scene potrebbero persino apparire oscure. Come ricordava la saggia giornalista davanti a Montecitorio, non è facile districarsi fra le iniquità e le mancanze della scuola italiana di oggi (salvo esserci dentro fino al collo). Questa confusione irriferibile è solo una delle conseguenze di decenni di cambi di rotta continui, che non hanno migliorato il servizio – è palese la continuità in una politica dei tagli – ma piuttosto provveduto a una delegittimazione sociale dei docenti e dell’idea stessa di insegnamento.

Affetti da precariato cronico, licenziati d’estate, a Pasqua e a Natale, socialmente screditati, sottopagati, trasformati in burocrati alle prese con regole che cambiano al volgere di ogni legislatura, i professori precari assistono continuamente ai tristi siparietti di cui sopra, vittime del disinteresse dei sindacati o del caos delle segreterie, facili prede delle paritarie, dei masterini on line, della deprecabile corsa al sostegno (oggetto non identificato per la stampa). Nessuno più di loro, più di noi, può augurarsi che qualcosa cambi. Ma la riforma paventata da Renzi e dalla Ministra Giannini, per come appare nel suo rutilante libello, sembra incaponirsi in una corsa al peggio. Verrebbe voglia di lasciarsi cadere la penna dalle mani, ma forse bisogna ancora parlare di scuola, e come in quel racconto di Carver, prendere la mano di chi ascolta e disegnarla per come è diventata: una ineffabile cattedrale.

Cominciamo dalle modalità di reclutamento della classe docente secondo Renzi e Giannini, e quindi dalla presunta assunzione dei 150 mila docenti precari delle Graduatorie a Esaurimento (GAE). Bene, benissimo. Peccato che il piano tagli fuori le migliaia di docenti del TFA ordinario, quelli cioè che nel 2012, dopo anni di attesa, avevano visto mettere a concorso dal ministero 11 mila posti calcolati su preciso fabbisogno per una nuova abilitazione. In altre parole dopo tre prove, un corso a pagamento, un tirocinio non retribuito e nuovi esami finali, i migliori avrebbero ottenuto un titolo capace di garantire il ruolo nel giro di qualche anno e intanto la possibilità di fare supplenze. Ora si legge che quel titolo non vale più niente. Se gli abilitati iscritti alle GAE avranno tutti un posto a tempo indeterminato per slittamento in graduatoria, gli altri abilitati (TFA, ma anche PAS) potrebbero accedere al ruolo solo vincendo un altro concorso.

Niente da fare neppure per le supplenze. Già, perché da settembre 2015 queste verrebbero completamente assolte dal nuovo “organico funzionale”, costituito da quei neoassunti per i quali non ci sarebbe subito una cattedra disponibile. Tra le mansioni di questa nuova sottocategoria: garantire scuole aperte fino a orari imprecisati, in stile “baby parking”, dove svolgere attività extracurriculari/di animazione non ben precisate, usufruendo di risorse (luce, riscaldamento, personale ATA) per niente precisate, insegnando materie non proprio precisate (anche al di fuori della propria classe di concorso) e con l’aria imprecisata di professori di serie B. Sempre meglio comunque dei loro colleghi, i reietti del giorno, gli altri abilitati, che hanno la sola colpa di essere nati qualche anno più tardi, e di aver creduto ai calcoli e alle promesse di qualche governo in più.

D’altra parte tradizione vuole che periodicamente, fisiologicamente – praticamente a ogni riforma – si crei un comodo ghetto normativo, una sacca di ingiustizia, uno sfogatoio per la minoranza dei figliastri. Gli esodati. I quota 96. Ma qui no, Renzi non si è distratto, anzi, come sempre è ironico, mordace, una battuta per tutti. Gli esclusi del giorno sono – sentite che prodigio di retorica – “l’eccezione che rafforza la regola”. Poi prudentemente diventano “abilitati” tra virgolette (p. 29 del libello), così, giusto per abituarli al progressivo sgretolamento del titolo. Ma attenzione, sembra che starà a loro, quando vinceranno un altro fantomatico concorso, “rinverdire la platea degli insegnanti”. Rinverdire: fa sorridere se si pensa all’età media degli abilitati TFA (trentotto anni). E fa sorridere amaramente, perché saranno proprio loro, i meno vecchi, i grandi esclusi da questa sanatoria di massa. Intanto la categoria dei giovani è stata usata, espansa ad libitum, tirata per la giacchetta, logorata fino al nonsense, e proprio dal governo dei rottamatori.

Se si volessero riscrivere seriamente le regole del reclutamento della classe docente, imponendo per il futuro l’unica via del concorso, il solo modo equo di farlo sarebbe partire dai prossimi laureati col nuovo ordinamento abilitante (dal 2019). Ma coloro che si sono abilitati fino ad oggi con un percorso di specializzazione post laurea, meritano tutti le stesse possibilità e lo stesso rispetto, meritano, per esempio, un’assunzione programmatica che rispetti le graduatorie ma sia spalmata su un arco di tempo più lungo di un unico, convulso anno scolastico e faccia a meno di inutili proclami sull’organico funzionale e la fine del precariato. Perché il precariato continuerà ad esserci, solo colpirà altri soggetti, e in maniera ancor più grottesca.

Il grado di approssimazione del libello (un’approssimazione di concetto che si fa scudo di qualche cifra) serve però in parte a scoperchiarne la genesi immediata: scrivere in fretta e promettere molto per evitare che la Corte Europea sanzioni l’Italia per le mancate stabilizzazioni degli ultimi decenni. Una sentenza imminente questa, di cui la stampa non fa praticamente menzione (e dire che la gente capirebbe bene, meglio) e rispetto alla quale il governo deve prender tempo, prodursi in rassicurazioni, metterci una toppa qualunque.

Non credo che di questo sconclusionato reclutamento beneficerà la scuola, quella reale. Dei 150mila assunti, molti, dicevo, saranno destinati a mansioni altre dall’insegnamento o a materie diverse dalla loro classe di specializzazione. Molti altri non potranno forse neppure prendere servizio perché la riforma vorrebbe un’assunzione su base nazionale, in barba ai criteri territoriali comprensibilmente adottati fin qui. Dunque o il trasferimento coatto anche in altra regione, o il rapido depennamento da tutte le graduatorie del regno. D’altronde non c’è tempo, la sentenza della corte europea incombe, e il mito dell’efficientismo lanciato ad alta velocità non può lasciarsi intralciare da certi dettagli, non può confrontarsi con lo scarto che esiste tra un annuncio e la sua realizzabilità. Basta che a ripeterlo faccia effetto, ovvero che suoni bene. Come il mantra del controllo sul lavoro degli insegnanti, l’ossessione per la misurazione del loro rendimento (una misurazione che si prospetta impossibile o votata all’ingiustizia se si sceglieranno parametri quantitativi). O ancora, il mito della meritocrazia come prerogativa di una gestione di tipo aziendale degli istituti, e quindi la necessità di rintracciare nel preside l’equivalente dell’imprenditore che della sua scuola sceglie anche il personale. Proprio come avviene nel sistema scolastico privato che, specie nelle scuole superiori di secondo grado, continua a produrre gravi iniquità nella selezione degli insegnanti e nella formazione degli studenti (una deriva incominciata, va detto, già con Luigi Berlinguer). E ancora, sotto lo slogan della meritocrazia: l’ingresso dei capitali privati nelle scuole (di chi?), il ridimensionamento dei compensi (si sa bene di chi). L’insegnante sarà allora alle prese con una singolare idea di carriera, dove lo stipendio sarà proporzionale a una raccolta punti legata al numero di attività extra messe in campo, all’abilità nel coltivare mirate amicizie e rivalità, a un’idea sommaria di “produttività”.

Quali effetti potrebbe avere una simile competizione da libero mercato in un’istituzione come quella scolastica che dovrebbe fondarsi sull’uguaglianza tra scuole, sulla collegialità e la collaborazione degli insegnanti per il bene degli studenti non è dato sapere. È dato, forse, rilevare fin d’ora il deterioramento del concetto di merito, sempre più brandito come strumento di controllo (per giunta a intermittenza), sempre meno volto alla valorizzazione dei saperi. Insieme al merito si dissolve qualcosa di forse ancora più importante: la fiducia. Come continuare a credere in una scuola che viene costantemente svuotata a suon di slogan? In governi che promettono, bandiscono, rastrellano tasse d’iscrizione e speranze, e poi lasciano aspiranti insegnanti nel vuoto? In riforme che chiedono loro di cominciare sempre da capo? In norme che costruiscono percorsi labirintici perché decine di migliaia di precari si scannino tra loro piuttosto che coltivare la loro professionalità? In una scuola che sbandiera l’importanza dei ragazzi e poi li logora ai fianchi, accorciando ore, ridimensionando le conoscenze, snervando docenti con esperienza, buttando a mare i nuovi, sottraendo risorse?

Non sorprendono in tal senso le altre dichiarazioni del premier o della ministra Giannini nei giorni successivi alla pubblicazione delle ipotesi di riforma: la detassazione per le iscrizioni alle paritarie in nome di una confusa libertà di scelta, il blocco degli stipendi per i docenti statali, l’abolizione dei commissari esterni per le prove di maturità. Sono tutte facce della stessa medaglia, intenti saldamente concatenati, figli di un’identica concezione della scuola ‘pubblica’, che naturalmente pagherà le sue presunte innovazioni a suon di tagli, né più né meno che in passato.

Infine, le parole, ancora loro. Il libello l’hanno definito “patto per la scuola”. Curiosa accezione. Un patto in differita, dissociato, steso da una sola delle parti, granitico nelle intenzioni e solo in un secondo momento soggetto al confronto con l’altro, la gente, l’imprecisato popolo del web, professori iperconnessi che dovrebbero compilare questionari per dire sì/no, mi piace/non mi piace, mettersi in fila dietro un hashtag, condensare riflessioni serie in 140 caratteri. Conosco colleghi stimatissimi che in questi giorni si sono aperti l’account di Twitter per parlare col premier, col ministro. Altri hanno discusso su Facebook con onorevoli che straniti dal dissenso li hanno bannati, come importuni qualunque, come troll. Questo chiacchiericcio non è consultazione democratica, e cinguettare slogan non rappresenta una possibilità in più di riflessione, ma un alibi ad alta fruibilità tanto per la figura molto in voga dell’onesto cittadino – che si risparmia così l’azione seria e meditata – quanto, soprattutto per chi è al potere, che può dire di aver offerto ampi spazi di confronto senza aver offerto proprio nulla.

Il ‘patto’ l’hanno intitolato “la buona scuola”, il che ridefinisce immediatamente la scuola attuale, la scuola fatta fin qui, come cattiva. Sentite com’è semplice tutto questo, vedete come splende l’evidenza? A chi dal di dentro timidamente fa notare che sì, i problemi ci sono e sono tanti, ma che le soluzioni prospettate paiono parziali, ingiuste, inefficaci, dannose, l’accusa immediata è quella di disfattismo, di immobilismo, di difesa a oltranza del proprio status quo (ad avercelo, viene da dire!).

Così ci tocca pure leggere la risposta sprezzante apparsa su uno scintillante allegato de La Repubblica che Umberto Galimberti dà a una professoressa perplessa. Cito per stralci l’esimio Galimberti:

Questa naturalezza [nell’applicare le nuove linee] è concepibile se solo gli insegnanti amano la loro professione e non si pongono nei confronti della scuola con una mentalità sindacale e/o contrattuale che, in un’attività che ha per obiettivo l’educazione dei giovani, mi pare del tutto fuori luogo

Ma forse nelle scuole superiori potremmo fare a meno dei bidelli, dal momento che non vedo perché giovani dai 15 ai 19 anni non possano pulire le loro aule, lavare i vetri, imbiancare le loro classi

E allora dobbiamo aspettarci dalle continue riforme ministeriali della scuola stimoli e senso, o queste cose le devono mettere, senza attenderle dai dispositivi ministeriali, gli attori stessi della scuola, che in prima fila sono gli insegnanti? […] lo stipendio è basso, certamente, ma potrebbe essere integrato proprio dall’entusiasmo di fare quel nobilissimo lavoro che si chiama: educazione dei giovani.

Della serie suvvia, non parliamo di diritti, degli stipendi tra i più bassi d’Europa, non parliamo di precariato, non parliamo di condizioni di lavoro completamente diverse per gli stessi ruoli, è così volgare al cospetto della sacra missione dell’insegnamento! Parliamo invece di nuove idee costruttive, tipo gli studenti imbianchini, come non averci pensato prima?

Infine, quanto all’attendere dal Ministero nuovi stimoli per il mio lavoro, vorrei rassicurare Galimberti: ci ho rinunciato, per il momento. Finora ne ho tratto solo ragioni per scendere in piazza a protestare, scrivere lettere o articoli troppo lunghi come questo. Stimoli e senso si trovano continuando a studiare e andando in classe, si trovano in quei ragazzi che per rispetto ho qui quasi evitato di nominare, benché siano da sempre i primi a subire gli esiti di riforme maldestre. Devono essere ricreate le condizioni per poter parlare di loro, parlarne di più, per entrare una buona volta nel merito dei programmi e delle azioni, tornare a discutere del valore di ogni singola ora di lezione, e per lavorare serenamente senza doversi guardare le spalle a ogni cambio della guardia, a ogni aggiornamento delle graduatorie. Provando a esprimere un desiderio condiviso, i docenti italiani vorrebbero smettere i panni degli avvocati fai-da-te, dei piccoli tristissimi burocrati, e tornare in classe a fare il loro mestiere, con più dignità.

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8 Commenti

  1. Il brutto è che uno casca nella trappola elettorale e riesce a essere sempre sorpreso dal peggio.

  2. Gentile Renata Morresi, ho letto il suo articolo pur non essendo addetto al mondo dell’insegnamento e mi congratulo per l’esposizione chiara e brillante come raramente, quasi mai, riscontro in chi fa informazione giornalistica.
    Penso a quanto potrebbe dare alla sKuola, ma anche in altri ambiti letterari.
    Complimenti.

  3. […] Anche sul piano di assunzioni annunciato, molti sono i dubbi e le denunce delle discriminazioni operate dal governo Renzi: ad esempio quella tra i docenti di serie A (quelli delle graduatorie ad esaurimento – GAE – cosiddette perché chiuse nel 2007) e i docenti di serie B (gli abilitati PAS, TFA ecc.) oggi inseriti nella II fascia di Istituto, come denunciano Stefania Ganino ed Elena Tamburrini. […]

  4. […] Anche sul piano di assunzioni annunciato, molti sono i dubbi e le denunce delle discriminazioni operate dal governo Renzi: ad esempio quella tra i docenti di serie A (quelli delle graduatorie ad esaurimento – GAE – cosiddette perché chiuse nel 2007) e i docenti di serie B (gli abilitati PAS, TFA ecc.) oggi inseriti nella II fascia di Istituto, come denunciano Stefania Ganino ed Elena Tamburrini. […]

  5. A me diverte molto quando sento parlare di gestione aziendale della scuola o persino di privatizzazione, di entrata di capitali privati, ecc. M come si misurano gli utili di una scuola? E a quale privato in Italia vorrebbe investire dei soldi in una ‘impresa’ che non produce ricavi? Finora gli imprenditori preferiscono le squadre di calcio. Gli unici che mi vengono in mente sono quelli che vogliono fare proseliti: focolarini, catecumeni, ecc. E se arrivassero a voler comprare ‘azioni’ anche gli imam o i testimoni di Geova? Mi divertirò ancora di più, temo.

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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