Che cos’è la “poesia onesta” di Saba?
di Umberto Fiori
“… il poeta, presuntuoso, patetico, importuno, come sono soliti esserlo i poeti, questa persona che sembra satura di possibilità e di grandezza, anche di grandezza etica, e che tuttavia, nella filosofia dell’azione e della vita, raramente giunge alla comune onestà”.
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza
Tra i tanti grimaldelli vecchi e nuovi che ingombrano gli scaffali della nostra critica letteraria ce n’è uno che varie volte mi ha morso nel vivo e sul quale ho deciso, a un certo punto, di tornare a riflettere: si tratta della categoria di “poesia onesta”.
Onesto: velenoso attributo. Mentre loda, ridimensiona in effetti ciò che qualifica, gli sottrae ogni valore specifico, lo riduce -per così dire- alla sua bontà. Si chiama onesto, in genere, qualcosa o qualcuno che non ha troppe pretese, che si limita a svolgere modestamente, decorosamente, mediocremente, la propria funzione. Una tale pacca sulla spalla, chi ambirebbe a riceverla? Attribuire una simile virtù equivale, il più delle volte, a dire che chi la possiede non ha talento sufficiente, sufficiente coraggio, sufficiente astuzia, per imporsi con le buone o con le cattive, con l’eccellenza o con l’inganno. Applicato alla poesia, poi, il complimento rischia di suonare un po’ come quelli che si fanno alle ragazze che la natura non ha favorito: “E’ un tipo”, “E’ tanto brava”, e simili.
La formula critica è in realtà -all’origine- meno generica di così, e vanta nobili ascendenze letterarie: proviene infatti, come è noto, da un intervento che Umberto Saba scrisse nel 1911 per “La voce” (la rivista, però, lo rifiutò) e che fu poi ritrovato tra le carte del poeta e pubblicato nel 1959: Quello che resta da fare ai poeti.
Lo scritto si apre con una risposta secca, perentoria, alla domanda che è implicita nel titolo: “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”, dichiara Saba.
Spesso, come si vede, si è i primi a produrre i guasti che in seguito si dovranno patire. “La poesia onesta”: ecco -già pronta- la formula capace di spiegare (e di ingessare, e di liquidare), insieme all’opera del suo imprudente ideatore, le esperienze di scrittura più disparate; ecco il sacchetto di plastica capace di incappucciare tutti insieme i “poeti di buona volontà”, e di soffocarli. Eppure, per chi si trovi a riflettere sul rapporto tra etica e poesia, lo scritto di Saba è un appuntamento quasi obbligato. Dalle sue riflessioni infatti anch’io, qui, voglio ripartire.
Comincerò con un’annotazione laterale ma non irrilevante: la “poesia onesta” non viene presentata in questo scritto come il programma di un singolo autore, né come un’istanza morale che si affianchi ad altre di diverso carattere: è -leggiamo- “quello che resta da fare ai poeti”. La categoria proposta da Saba investe, insomma, l’intera poesia di un’epoca, e fa i conti con una storia, con una tradizione. In questo senso si dice, -nel titolo e nella frase iniziale- che qualcosa resta da fare. Non è ben chiaro se si voglia intendere che le possibilità della poesia si sono ridotte, o invece che la “poesia onesta” è una tappa necessaria, fatale, in un percorso storico. La formula sembra rimandare a una situazione epigonale, residuale e -in molti sensi- ultima, estrema; ma ha, al tempo stesso, il tono squillante di un proclama.
Gli anni in cui Saba scrive il suo intervento sono gli anni di D’Annunzio e di Pascoli, ma anche quelli di Marinetti, di Palazzeschi e di Gozzano: all’inizio del nuovo secolo, la poesia si interroga sulla propria condizione e sul destino che l’attende; da una parte, enfatizza il proprio ruolo applicando incondizionatamente alla letteratura l’idea di progresso, dall’altra gioca al ribasso, tra esibita ironia e rinuncia vera. In questo clima, può sembrare che quella di “poesia onesta” non sia se non l’ennesima parola d’ordine cucita sulla solita bandiera del Nuovo, magari con un supplemento di snobistico understatement; ma -se non bastasse l’opera poetica- è Saba stesso a chiarirci poco più avanti le sue intenzioni e il suo orizzonte di riferimento, quando parla di quella che sta indicando come della “via eterna dell’arte, ed in questo momento anche la più ardita e la più nuova”. La “poesia onesta”, insomma, non è mai stata compiutamente realizzata (e appunto “resta da fare”), ma è, al tempo stesso, ciò che da sempre si pone come questione e come compito a ogni poesia (dovremmo dire -vedremo perché- a ogni poeta) in ogni epoca.
Il Nuovo di Saba, come si vede, fa i conti con la storia in modo molto differente dalle prassi liquidatorie -euforiche o disforiche- allora in corso. E l’argomentazione, infatti, prende subito avvio da un confronto (da un contrapposto) tra due poeti (ma Saba dice -significativamente- tra due uomini nostri) che della tradizione sono pilastri portanti: Manzoni e D’Annunzio, e più in particolare gli Inni sacri e i cori dell’Adelchi, del primo, del secondo Elettra e La nave. “Versi mediocri e immortali” i primi, “magnifici versi per la più parte caduchi” gli altri. Ecco subito illustrata, nell’”onestà dell’uno, e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore” l’annunciata categoria.
In che cosa è disonesto, l’autore delle Laudi? Egli -argomenta Saba- “si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento; e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso”.
All’opposto, l’onestà del Manzoni consiste -secondo l’autore- nella “costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione”.
Con i giudizi sulle opere portate a paradigma -per quanto sommari- si potrà anche essere d’accordo; resta però da chiarire il criterio a partire dal quale tali giudizi sono stati formulati. La cosa non è di poco conto; la categoria di “poesia onesta”, infatti, è talmente ardita -nonostante le apparenze- e di tale portata critica, che sarebbe sbagliato sorvolare su una certa vaghezza e ambiguità della formulazione che Saba ne fornisce in questo famoso testo, e ancor più sulla precarietà, sulla intrinseca fragilità del concetto. Cerchiamo allora di seguire l’argomentazione e di raccogliere lungo il cammino indizi che possano farci meglio comprendere che cosa intenda l’autore, e su quali basi -al di là dell’inclinazione personale e del gusto- si fondi l’attributo del quale ha voluto rivestire il proprio ideale di poesia.
Stiamo al testo. L’onestà poetica del Manzoni consiste -secondo Saba- nella “costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione”. Mentre D’Annunzio “si ubriaca per aumentarsi”, l’autore degli “Inni sacri” “è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione”; e questo -si legge più avanti- perché certo egli credeva che Dio, che gli aveva dato il genio, gli avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi di ogni interpunzione”.
“Poesia onesta”, dunque, è quella che mostra una rigorosa corrispondenza del poeta “alla propria visione”. Ma -viene da chiedersi- se questa corrispondenza volessimo verificarla di persona, dove mai dovremmo cercare la “visione” del poeta in rapporto alla quale valutare l’onestà della poesia? Se è espressa nelle sue opere -in un certo testo, o in alcuni testi decisivi, che fanno da paragone- allora la corrispondenza di cui si parla si riduce pressappoco a una coerenza letteraria, a una omogeneità di stile o di motivi per la quale appare esagerato chiamare in causa valori extraletterari come l’onestà (oltretutto è difficile considerare la coerenza -così intesa- come un valore di per sé, a prescindere dalla qualità di ciò che funge da unità di misura; senza contare che la “visione” di un poeta è spesso, più che un dato fisso, un processo, in cui non è poi tanto pacifico stabilire quanto ogni passaggio sia coerente coi precedenti); se invece è custodita -per così dire- nel cuore del poeta, nella sua coscienza, ed è dunque inaccessibile a noi, lui solo sarà buon giudice -giudice inappellabile- dell’onestà di ogni sua opera; ma allora, la distinzione tra poeta onesto e poeta disonesto viene a cadere, almeno sul piano critico; resta il segreto di ogni cuore e di ogni coscienza, e la categoria stessa di “poesia onesta” perde ogni perspicuità.
Saba aggira l’ostacolo quasi senza avvedersene, facendo riferimento alla fede religiosa del Manzoni, il quale “credeva che Dio gli avrebbe chiesto conto di ogni parola”, ecc.; ma va da sé che un tale argomento non può in molti casi, in troppi altri, essere risolutivo; e non lo è -ad esempio- in quello del poeta che sta sull’altro versante del “contrapposto”, il quale non ha alcun Dio cui rendere conto (e forse neppure una “coscienza” o un’interiorità come comunemente le si concepisce). Una simile disparità non può essere sorvolata come se fosse un dato contingente, inessenziale: tra un’onestà di cui Dio stesso è garante e un’onestà senza dèi la differenza è decisiva, e investe i fondamenti stessi della categoria che si sta proponendo.
Quello che resta, se mettiamo da parte l’equivoco che il riferimento alla fede ha suscitato, è un appello -un po’ nebuloso e non perfettamente argomentato, ma non per questo meno toccante, meno pressante- alla responsabilità che investe sempre più la parola poetica. Saba vuol dirci, in sostanza, che il poeta deve rispondere di ciò che scrive.
Rispondere -quando non a Dio- a chi?
Questo non è del tutto chiaro, anche se l’autore sembra riferirsi -qua e là- a una non meglio precisata responsabilità di chi scrive verso se stesso e -in subordine- verso il lettore. Si tratta -grosso modo- di non truccare il gioco, di non barare, di “non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore”. In questo, appunto, D’Annunzio è poeta “disonesto”: perché “si esagera o addirittura si finge passioni ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento”.
Lasciando da parte ogni considerazione sul fatto che noi siamo o no autorizzati a stabilire una volta per tutte quale sia il temperamento di Tizio o di Caio, oltre a pretendere che non muti e che si esprima coerentemente di qui all’eternità -non sono forse, finzione e apparenza, i cardini stessi della poesia come di ogni forma d’arte? E dunque, qual è la differenza tra una poesia che sembra sincera e onesta e autenticamente ispirata, e una poesia che lo è?
Al limite, noi potremo immaginare un poeta che, servendosi del suo talento, riesca a presentarci la perfetta simulazione della sincerità, dell’onestà e di ogni altra virtù, letteraria ed extraletteraria. Come andare (per usare le parole di Saba) “oltre la superficie dei versi”? La disonestà poetica di un autore dovrebbe essere smascherata -evidentemente- attraverso una (assai problematica) inquisizione che scavalcasse il testo per fare emergere le “vere” intenzioni dell’autore, celate dietro le belle apparenze. Ma quand’anche riuscissimo a far confessare a chi scrive la sua ipocrisia, che cosa cambierebbe nel testo che conosciamo, ora che abbiamo visto cosa c’è “oltre la superficie”, cosa c’è “dietro”, cosa c’è “sotto”? E’ dietro, è sotto un’opera che dobbiamo guardare (e poi sotto il sotto, dietro il dietro…), o non dobbiamo piuttosto guardarla in faccia, sostenendo lo sguardo che ci rivolge?
Saba sembra rivendicare -mosso da comprensibili intenti polemici- una poesia che si liberi delle belle apparenze, per ricercare un’autenticità molto prossima a quella di una sincera professione di fede o di una confessione intima. E’ chiaro, però, che se la cosa si spingesse fino alle estreme conseguenze, l’onestà così intesa pervaderebbe la poesia fino a prenderne il posto, tanto che -oltre un certo limite- si dovebbe parlare, più che di “poesia onesta”, di onestà, tout court. Di una tale contraddizione il poeta del Canzoniere è oscuramente consapevole, e infatti non manca di sottolineare la distinzione e anzi la divaricazione tra valori estetici e valori etici. E’ lui stesso a deprezzare -mentre li innalza- i versi del Manzoni, “mediocri ma immortali”, e a qualificare come “magnifici versi per la più parte caduchi” quelli del “disonesto” D’Annunzio (l’ordine dei termini, oltretutto, si potrebbe legittimamente invertire: senza variare il giudizio, potremmo guardare le cose da un punto di vista appena differente, e ci troveremmo di fronte “versi immortali ma mediocri”, da una parte, e “versi per la più parte caduchi, eppure magnifici”, dall’altra).
La trappola è insidiosa: se i valori poetici vengono scissi come nella formula della “poesia onesta”, talché la poesia non vale se non in quanto congiunta all’attributo riconosciuto come qualificante, è difficile evitare che i valori “puramente” poetici riemergano come uno scomodo revenant. Ed è infatti quello che puntualmente avviene, in modo addirittura clamoroso (e tanto più illuminante), ad esempio quando l’autore scrive: “Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l‘espressione della sua passione, ma à intenzioni bottegaie o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui come urgere una decorazione o aprire un negozio, non può nemmeno immaginare quale tenace sforzo d’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo occorra per resistere ad ogni lenocinio, e mantenersi puri ed onesti di fronte a se stessi; anche quando il verso menzognero è, preso singolarmente, il migliore”.
Saba parla come se la poesia “disonesta” fosse una tentazione fortissima e sempre incombente, dalla quale il poeta deve difendersi come Sant’Antonio nel deserto. Basta pensare -oltre al già citato D’Annunzio- alle strategie di tanti arrampicatori poetici e di tante conventicole letterarie del tempo (e di ogni tempo) per capire cosa lo muova. In una prospettiva storica, possiamo anche essere con lui; resta però -nel suo rigore- una macchia non trascurabile proprio alla conclusione, dove si dice che bisogna resistere al verso menzognero “anche quando è, preso singolarmente, il migliore”. Migliore, viene da chiedersi, sotto quale aspetto? Evidentemente, sotto il profilo “puramente” estetico. Saba parte da una distinzione tra valori contrastanti, e soprattutto da una loro gerarchia presupposta, mai dichiarata e mai argomentata, una gerarchia tanto elusiva quanto rigida.
Tale gerarchia pone non pochi problemi. Il verso “menzognero” infatti può essere -come egli stesso concede- il migliore. I valori estetici, le qualità poetiche, presi singolarmente -separati, cioè, da valori più veri, più essenziali- possono equivalere a una menzogna. Ma quali sono i valori veri? Sono forse valori morali, i medesimi che ogni giorno incombono sulle scelte di un medico come su quelle di un idraulico? No di certo. Anche se qua e là Saba sembra identificarla con quella che investe le coscienze di tutti gli uomini, l’onestà di cui sta parlando è pur sempre un’onestà poetica; o almeno dovrebbe esserlo, pena la riduzione di tutto a un sermone domenicale per la moralizzazione dei facitori di versi.
In che cosa consiste, allora? Torniamo al testo: nel “far versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della (propria) passione”. Onestà poetica è “prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prendere la mano dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena”.
Per rendere meno astratta la discussione, Saba ricostruisce a un certo punto dello scritto la genesi di alcuni dei suoi versi, e racconta come, a partire dall’occasione (un sogno) sia pervenuto, variante dopo variante, alla soluzione definitiva, raggiunta attraverso un processo che è essenzialmente -come traspare dalla ricostruzione che ne viene fatta- di sottrazione, di rinuncia; una sorta di santo digiuno.
Anche nella illustrazione di questo “laboratorio” poetico si ripropone quella dicotomia tra “onestà” e valori letterari, tra sincerità e bellezza, che abbiamo già ricordato. L’autore dichiara una volta di più la propria scelta di campo, fino alla celebre sentenza conclusiva, che suona così: “il poeta deve tendere ad un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione, ed avvicinarsi invece a quello dei grandi ricercatori di verità esteriori o interiori”.
Così schierandosi, Saba si pone su quella linea della nostra riflessione intorno alla natura della poesia che ha alle sue spalle il Pascoli del Fanciullino e -ancor prima- il Leopardi dell’operetta morale intitolata Il Parini ovvero della gloria; e tuttavia, le sue conclusioni risultano per molti versi deludenti: il discorso sulla “poesia onesta”, che investiva i fondamenti stessi del fare poetico, sembra ridursi poco a poco a una generica condanna di ogni vanità e di ogni affettazione, e -sull’altro versante- a un accorato invito alla sincerità e alla correttezza, per sfociare infine in una serie di precetti, una sorta di deontologia che riguarda il poeta da un punto di vista -se mi si passa il termine- professionale (o tutt’al più, diciamo, artistico). L’osservanza di un tale “metodo” (come avventatamente lo chiama Saba) farebbe forse, di chi lo seguisse scrupolosamente, un “poeta onesto”; ma sul fatto che sia sufficiente a creare poesia (onesta o meno) è lecito nutrire molti dubbi. Perché le opere -il poeta del Canzoniere è il primo a saperlo- non nascono e soprattutto non si giudicano dalle intenzioni. E se mai ci mettessimo in testa di valutarle secondo questo stravagante criterio, la cosa ci riuscirebbe impossibile: non tanto perché le intenzioni di ciascuno restano per lo più recondite e inaccessibili, quanto per la ragione -assai più solida e ovvia- che quand’anche ci venissero dichiarate, esse non avrebbero minore opacità dell’opera che intendono giustificare, e noi ci troveremmo daccapo di fronte a un testo da interpretare.
Qui sta il problema. Il modo in cui Saba lo imposta prende avvio dall’idea che la poesia -identificata senz’altro con la lirica– sia manifestazione dell’interiorità di un soggetto (“ritmo” che aiuta “l’espressione delle passioni”). Dato per acquisito un tale schema, è inevitabile che la questione venga posta innanzitutto a partire dal soggetto e dalla sua “vita interiore”: non può esserci “poesia onesta” se non c’è un “poeta onesto” che la scrive; ma abbiamo già argomentato che -se accettiamo di identificare l’onestà con le buone intenzioni del poeta, che risiedono nella sua interiorità- noi non arriveremo mai a giudicare alcunché, perché da un lato ci sfuggirà l’opera -che è la parte manifesta ma non decisiva-, dall’altra ci sfuggirà l’interiorità dell’autore, decisiva ma inaccessibile. La formula della “poesia onesta”, insomma, manca tanto il bersaglio del testo quanto quello di chi lo scrive. Alla dicotomia tra “onestà” e valori estetici, tra poesia di contenuti e poesia di pura forma, di puro stile, si aggiunge, nel saggio, quella tra opera e autore.
Saba sembra avvicinarsi alla radice di queste irrisolte tensioni quando affronta -quasi marginalmente- una questione che, a mio modo di vedere, si rivela invece quanto mai centrale nella discussione intorno alla categoria da lui proposta: quella dell’originalità.
La poesia disonesta (che nelle pagine precedenti veniva identificata grosso modo con un atteggiamento estetizzante) viene presentata qui come la ricerca di una originalità inautentica. Essere originali, argomenta Saba, significa ritrovare se stessi; molti, però, non riconoscono che autenticamente originali si può essere solo essendo autenticamente se stessi, così inseguono una falsa originalità, e in nessun caso -neppure quando occorre- si rassegnano a dire qualcosa che sia già stato detto da qualcun altro. Chi procede in questo modo -ammonisce il poeta del Canzoniere– “non troverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché d’inaspettato”. La contrapposizione è tra una poesia che “travisa il proprio io”, che inventa di volta in volta “dal nulla” la propria origine, la propria identità, ricavandone uno stile, e una poesia (la poesia “onesta”) che si sviluppa invece come ricerca ininterrotta di un’origine che si presuppone sempre data; tra una poesia che è costruzione di belle parvenze sopra un nulla di verità, e una poesia che è rammemorazione, risalita alle fonti, “ritorno alle origini” e che si rivela -dice l’autore- “opera più di selezione e di rifacimento che di novissima creazione”.
L’originalità, dunque, può essere intesa in due modi opposti, che alla poesia indicano due strade divergenti. Quale si deve seguire, se si intende essere (poeticamente) “onesti”? “Bisogna -dice Saba- essere originali nostro malgrado”.
“Essere originali nostro malgrado”. Se l’equivalenza tra l’originalità e l’esser se stessi rimane valida, questo equivale a dire che chi scrive deve essere se stesso suo malgrado. La poesia autentica, la poesia “onesta”, cioè, -se stiamo alla formula di Saba- nasce da una sorta di volontaria dimissione della volontà. Si tratta, per il poeta, di ritrovare se stesso oltre la volontà, dietro la volontà, e -una volta ritrovatosi- esprimersi, esprimere senza finzioni la propria natura, il proprio “io non travisato”. In questo ritrovamento, in questa risalita verso le origini che stanno a fondamento di ogni originalità, consiste il cammino della poesia; nella fedeltà del racconto che ne fornisce si fondano la sua nobiltà, il suo onore, la sua onestà. Il poeta che lo intraprende è mosso e guidato da un paradossale “studio di non oltrepassarsi”.
Il poeta onesto “non deve oltrepassarsi”; deve “essere originale suo malgrado”. A una pratica analoga, a un’analoga disciplina sembra alludere Jean Starobinski parlando di un autore contemporaneo, Philippe Jaccottet, in un bel saggio che forse potrà servirci per cercare di chiarire ciò che nello scritto di Saba rimane oscuro o frammentario. Scrive Starobinski che Jaccottet “dice sempre e solo quello che crede di ‘poter’ dire”; “proprio qui -osserva- risiede il fondamento etico della sua poesia”.
Come va intesa questa affermazione? In che senso un poeta può o non può dire questo o quello? Nello stesso senso -io credo- in cui qualcuno ha detto che “il talento fa ciò che vuole, il genio ciò che può”. Il potere cui si rinvia in questo caso -è chiaro- non ha a che fare con una possibilità acquisita, con una capacità, con un controllo del mezzo espressivo; semmai con un destino, con una determinazione, con un limite originario, che nessuna volontà può varcare. La volontà, qui, deve anzi combattere contro se stessa; perché lo scopo è “essere originali nostro malgrado”.
La cosa che più fortemente si deve volere quando si fanno versi, insomma, è proprio di essere liberati dalla propria volontà, e dalle opzioni che essa finge, ingannandoci. In una tale idea di poesia, che il Novecento ha in vario modo e a diverse riprese perseguito, la possibilità di chi scrive (attenzione: non le sue possibilità) è -in un certo senso- già data, già delimitata, e la scrittura è giusto la ricerca di quel limite che a ciascuno è assegnato; non per superarlo, ma per dargli voce, per farlo suonare. Etico, in una poesia così intesa, è il canto del limite. Questo forse intende Saba, quando raccomanda al poeta “onesto” di “non oltrepassarsi”.
C’è però una differenza -e non solo nominale, evidentemente- tra l’onestà di Saba e l’etica cui accenna Starobinski a proposito di Jaccottet. Starobinski fonda il rapporto tra etica e poesia su un potere che del potere comunemente inteso è proprio l’opposto; Saba parla di dovere, dice che bisogna fare questo e quello, che il poeta deve comportarsi così e così. Quanto più in suo nome egli raccomanda e ammonisce, tanto più debole appare, a chi legge, il fondamento di un tale dovere, la forza che si suppone esso eserciti. Ma forte suona invece, sotto i toni spesso un po’ moralistici del richiamo sabiano all’onestà poetica, l’ansia e l’urgenza di una necessità vera, che fondi la poesia.
Questa necessità -a tutti evidente- Saba la conosce bene: è di lì -a ben vedere- che è partito; sa che conoscerla e corrisponderle significa trovarsi al di là del gusto, dell’opinione; eppure, neanche in questa prospettiva riesce a rinunciare al giudizio, che rimane implicito in ogni sua più tenue affermazione. Che senso avrebbe, d’altra parte, la differenza tra poesia “onesta” e poesia “disonesta” se non potesse sperare di mostrarsi -presto o tardi, in un modo o nell’altro- con la più incontrastabile evidenza, se non potesse sperare di farsi valere, un giorno, al di là di ogni ragionevole dubbio?
Quello che lo scritto di Saba non dice -né potrebbe dire- è che tra il rigore e la rettitudine della poesia “onesta” e il lenocinio della poesia “disonesta” non c’è né mai ci sarà disparità argomentabile; non dice -né potrebbe dire- che nessuna poesia “onesta” è in grado di dimostrarsi tale, e che, anzi, proprio l’esercizio di questa privazione, di questa povertà, le dà voce.
Nota:
Questo saggio, scritto nel 1993, presentato in forma di conferenza nel dicembre del 1994 a Cesena, nell’ambito di un ciclo di cinque incontri intitolato “Le parole che usiamo”, coordinato da Rocco Ronchi, pubblicato in forma rielaborata dalla rivista “Atelier” n.18, giugno 2000, si trova ora in La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Marcos y Marcos, Milano, 2007.
L’ho letto davvero con grande interesse e piacere, grazie Andrea, finalmente un testo in cui si scava nel merito e si cerca di capire qualcosa del corpo peraltro sfuggente e mai completamente attingibile di quella attività umana cui da molto tempo si dà il nome di poesia. Tutto sommato mi sembra che alla fine si colga nella tua analisi un senso da attribuire all’uso sabiano della parola onestà, che il nostro perseguiva e maneggiava con vera intensità, senza quella sfumatura di mediocrità che giustamente richiamavi all’inizio. Scrive ad esempio in Carmen, nella raccolta Trieste e una donna, “Torna la mia disperazione a te. / Dopo aver tanto errato, oggi il mio amore / torna al tuo fiero mutevole ardore, / più nulla chiede che la tua onestà.” Non la trascrivo qui tutta, ma chi vorrà rileggerla si renderà conto di quali valori sta inseguendo Saba, al di là di eventuali, e non interessanti, personali vicende.
Io la direi un’esigenza di autenticità, che si districa poi nei meandri del potere e del dovere a seconda di circostanze personalmente anche molto mutevoli. E certo una condizione di ciò, che Saba pratica credo con indubitabile acribia, è quella che tu dici del “non oltrepassarsi”, del non spingersi mai “sopra le righe”, come talvolta si dice. Grande virtù, che mi pare comprenda etica e buon gusto, sempre meno praticata, in giro per il mondo.
oops! Avrei dovuto dire grazie Andrea per il testo di Umberto, ma nella fretta… Scusate.
Nel 1983 Mondadori pubblicò a cura di Aldo Marcovecchio cento lettere scelte (1902–1957) di Umberto Saba. Il libro si chiama “La spada d’amore”. La “Presentazione”, del luglio 1983, è di Giovanni Giudici.
In questa presentazione Giudici racconta un episodio che appare molto significativo dentro questa questione dell’ “onestà”. Scrive Giudici:
“Gli scrissi qualche volta, lui rispondeva (appunto) a giro di posta, gli dedicai (previo suo assenso) una poesia, altre ne sottoposi al suo giudizio, ebbi persino l’impertinente ingenuità di chiedergli una “prefazione” per una nuova raccolta di versi. No, niente prefazioni, si arrabbiò moltissimo, “la tua lettera” mi scrisse “contiene addirittura un… abuso di fiducia”. Poi volle spiegarmi con maggiore calma (…) Delle sue osservazioni sui miei versi vorrei limitarmi a riferire la parte “negativa” per la sua applicabilità in generale e non semplicemente circoscritta al mio lavoro di allora: “… il libro è nel suo complesso assai notevole. Quello che ancora ti manca è qualcosa che muova di più l’immaginazione o tocchi il cuore del lettore… So benissimo che queste cose non si possono né dare, né insegnare (…) l’unica cosa che posso augurarti – non all’uomo ma al poeta – è una qualche esperienza di vita: un grande dolore, un grande amore, qualcosa che ti faccia fare un passo avanti dalla letteratura alla poesia. Ami tanto (beato te!) la poesia, che non è escluso che la vita ti venga incontro e ti aiuti”.
A chiudere, subito dopo, Giudici scrive:
“Quante volte le ho rilette queste parole! Quante volte, in trent’anni, me le sono ripetute a memoria, quasi che fossero state il responso di un antico profeta.”
Scrive Umberto Fiori:
“Ma quand’anche riuscissimo a far confessare a chi scrive la sua ipocrisia, che cosa cambierebbe nel testo che conosciamo, ora che abbiamo visto cosa c’è “oltre la superficie”, cosa c’è “dietro”, cosa c’è “sotto”? E’ dietro, è sotto un’opera che dobbiamo guardare (e poi sotto il sotto, dietro il dietro…), o non dobbiamo piuttosto guardarla in faccia, sostenendo lo sguardo che ci rivolge?”
La questione appare essere proprio e anche questa: è proprio “in faccia” che dobbiamo guardare una poesia – e il poeta che la scrisse dunque -, poiché se la guarderemo “in faccia” essa ci “mostrerà” (LW) lo sguardo onesto o meno che ci rivolge; appena quella tal cosa la si guarderà “sotto il sotto, dietro il dietro” tutto è probabile che ritorni è vero: na che insieme ritorni, con “un passo all’indietro”, dalla poesia alla letteratura.
Scrive Umberto Fiori, dicendo di Saba:
“(…) chi scrive deve essere se stesso suo malgrado. (…) Si tratta, per il poeta, di ritrovare se stesso oltre la volontà, dietro la volontà, e -una volta ritrovatosi- esprimersi, esprimere senza finzioni la propria natura, il proprio “io non travisato”. (…) Etico, in una poesia così intesa, è il canto del limite. Questo forse intende Saba, quando raccomanda al poeta “onesto” di “non oltrepassarsi”. (…)”
E forse è proprio questa cosa qui che Saba intende rivolgendosi “non all’uomo ma al poeta” “perché faccia un salto avanti dalla letteratura alla poesia”.
(Che tutto ciò poi “imponga” una fatica assai impari sulle parole che ti “escono da dentro”… questo conferma quasi per l’intero quanto sopra. E se, in una qualche maniera, la tua vita in ragione di tale fatica non “migliora” meglio lasciare perdere, fare dell’altro per provare a migliorarla, almeno un po’.)
un cordiale saluto
Adelelmo Ruggieri
Sì, è un testo alquanto interessante, anche se non ne esce un grande giudizio sul saggio di Saba, che è veramente molto nebuloso, pare capire, e pieno più che altro di buone intenzioni.
C’è la dicotomia onesta/disonesta che pare associarsi a testi mediocri/magnifici, anche solo dal punto di vista estetico, che a me non piace e non la risolve né Saba nè Fiori,
approfitto quindi per chiedere ai poeti qui presenti se sono così gentili da citarmi versi onesti e “magnifici”, cioè ottimi da un punto di vista estetico e non solo…
potete?
e magari sarebbe bello se voi stessi inventaste una loro variante disonesta più altisonante ma meno bella ed efficace.
E’ possibile?
Ci provate?
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi,prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
*
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
“Anima, se ti pare che abbastanza
vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrare nella nostra stanza,
chiuderla e farci un po’ di primavera?”
Saba mi è molto caro.
Grazie al poeta Umberto Fiori perché, fra le altre cose, il 26 luglio 2006 a Grottammare mi fece conoscere Franco Loi ( “voltess” ).
Io lascio solo un grazie… Un bellissimo post, Giulia