La stabilità del caos

di Giacomo Verri

(Un estratto dal nuovo romanzo di Giacomo Verri)

Due alunne di Arturo hanno cercato il loro palpito di notorietà. “Che c’è?” chiede Àlice. “Una cosa. Me l’hanno data a scuola. Ambra e Barbara, dai, quelle che si fanno interrogare lo stesso giorno, sempre insieme”. “E allora?”. “Dicono che hanno fatto un video, lo devo vedere assolutamente. Volevano lo esaminassi con loro, alla fine delle lezioni, ma io…”. “Cosa ne pensi?”.

Àlice ha gli occhi malinconici, lei, non so come, prevede ciò che è sbagliato. Su Arturo al contrario ha trionfato la curiosità. Siede baldanzoso al computer e apre il file. Cosa si vede? In una camera con la luce che entra bassa da sinistra, le ragazze si spogliano su un letto sfatto lasciandosi addosso le mutande. Poi con la celia di sfregarsi i capezzoli e di abbracciarsi e di rovistarsi tra i capelli estraggono una lama da sotto il cuscino. Una si adagia mentre l’altra le si siede sopra. La telecamera è immobile per alcuni secondi, poi inizia a zoomare sulla pancia modulata e felina. Il metallo avvicina la pelle, la sfiora, infine la incide. La ragazza si lascia sfigurare. I muscoli sono tesi, il ventre perfetto si alza e si abbassa come in un orgasmo, e il rosa, quando cede, spinge il sangue all’insù gonfiandolo e allargandolo quasi che il contatto con l’aria lo chiamasse a libertà.

“Come le guarderai ancora in faccia” chiede Àlice. “E loro! Che cazzo si aspettano da te. Non ti fanno paura? Ma… che succede, Arturo? Ti prego, spiegami. Io non ti capisco”, singhiozza. “Non capisco più! Che senso ha?”. Poi tace e riprende: “Stai attento, stai attento, per favore! Non mi piace quello fai, quello che arrivi a suscitare negli altri! Mi fa paura, lo capisci? Non mi piace, non mi piace. La faccenda ti sfugge di mano. Attento! Ti prego”.

Arturo le osserva una volta ancora recitare il loro narcisismo, non provano vergogna, hanno portato il video a scuola. Forse volevano che Arturo lo mostrasse agli altri. Non l’ha fatto, ma neppure ha chiamato i genitori di quelle ragazze. Anche lui perde colpi? anche lui precipita con noi? e chi era dietro la telecamera? Non siamo più abituati a pensare che dietro ci sia qualcuno. Nessuno ci spia. Né nemici né amici. Lo crediamo. E Arturo, com’è riuscito a tornare a scuola? come? Le ragazze, non persuase, hanno caricato il video su YouTube e da allora l’atmosfera in aula è diventata quasi insopportabile tanto è carica di voluttuosa lussuria e di malizia disfatta. Io l’ho voluto vedere. Per curiosità! Solo per curiosità! Sono un debole e un mediocre, costretto a ammettere che quelle ragazze sono invece delle ottime attrici, e delle spavalde registe di se stesse: hanno montato il video con cura, hanno inserito le musiche, Górecki. Con un programma hanno ritoccato le immagini e così i loro occhi non si vedono mai bene, come se fossero cavi. Avrebbero potuto fare tutto con grottesca ironia, velocizzando i fotogrammi e montando la clip in modo tale che alcuni gesti venissero ripetuti meccanicamente quasi che a compierli fossero state due marionette. Avrebbero potuto metterci sotto il Minuetto di Boccherini. Oppure per ricreare l’idea del tragico sublime sarebbe andato bene il secondo movimento dell’opera diciotto numero uno di Beethoven. Górecki teatralizza troppo l’angoscia. E alla fine sembra falsa. Ma lasciamo perdere, mi accorgo di esagerare, non è trascorso molto tempo da quando io e Arturo ci eravamo detti, per giustificare la pessima voglia di osservare la sofferenza, che i disastri purificano e ristrutturano il sapere. In realtà l’estetica non nasconde alcuna etica. Da piccolo mia nonna lasciava andare uno schiaffo se mi coglieva a fissare per strada i matti, le persone stravaganti, i deformi, gli imbecilli. Forse per questo la mia schiena fu cosparsa sempre di brividi quando andavamo a spiare i feti aberranti al Museo di Storia Naturale. E ritenevo fortunato Gramo perché suo padre l’aveva portato una volta al Cottolengo a guardare gli infelici e i minorati, i deficienti, i deformi, e giù giù fino alle creature oscene e tarde che non si permette a nessuno di vedere. A modo suo anche il padre di Àlice, il dottor Fabrizio Resmira, ama la furia del disastro, il disastro del corpo umano, lo scempio fatto dai cancri nelle carni, il macello, la putrefazione che mastica la vita, dei cui danni gode a fare lo scrutinio.

Amiamo vedere le disgrazie perché creano degli aggetti alle nostre esistenze inutili e piatte, sono bellissime, le catastrofi, fanno appello al senso profondo di chi guarda, di chi osserva, di chi spia. Perché dovrei smettere di guardare? perché dovrei sentirmi in colpa? perché non posso letiziarmi con le alunne di Arturo che si insanguinano per la nostra cinica miseria? E il loro sangue, per di più, scorre su una pancia bellissima e levigata fino a lacrimare sul cotone bianco delle mutandine. E sono adolescenti quasi nude. Sono perverse e normalissime. E si possono vedere ogni volta che vuoi. Hanno sganciato il Divin Marchese dalla teca di aristocratico contorto e maligno gettandolo nel massiccio fango dell’orgasmo popolare. Spiare il dolore mi fa bene. È straordinario! Nessuno vede che vedo e nessuno mi giudica, il mio volgare occhio, pesante più che una bestia preistorica, si finge leggero come quello di un gabbiano e apprezza con greve trasalimento la diversa consistenza della visione.

L’abbiamo sperimentato tutti, dai giorni di Alfredino, quando il bimbo in canotta divenne un imprescindibile oggetto di desiderio. Tanto più eccitante perché furtivo e invisibile nel buco nero. Alfredino divenne favoloso e mitico. Coniugava a un tempo la sete di visione e la sua negazione, si vedeva la tragedia e l’impossibilità di spiarla fino in fondo così che gli occhi italiani celebravano il capolavoro dell’appetito edonistico. C’era da osservare l’imbocco di un tunnel da cui usciva solo la voce, un buco nero parlante, un canale dove passava una comunicazione malata perché a metà subiva l’assurdo cambiamento: fin dove era la voce di Alfredino era la voce della tragedia del bambino innocente; ma nel punto in cui quella voce era rubata dai microfoni e fatta propria dalla televisione diventava il rombo di uno spettacolo unico, mai visto prima. La dimensione privata si cambiava in pubblica, non tragedia di tutti ma di ognuno morbido godimento che soddisfaceva gli impulsi della curiosità. Era solo una storia, si voleva sapere come andava a finire, senza più catarsi. E così Alfredino in sessanta ore divenne adulto, conobbe la speranza – che è già nei bimbi – ma pure la fine di quella, la disillusione e poi il dolore e poi l’abbandono, e la rinuncia. A un certo punto avrà detto basta!, non gioco più, è troppo buio, c’è troppo fango, fa troppo freddo, ho troppo male, la mamma e il papà non vengono, non riesco a fidarmi di nessuno. Scopriva che si può e che si deve morire a un certo punto. E che c’era gente che era lì per vederlo morire. E come faceva e se lo faceva bene. Era stato bambino, eroe, uomo, saggio infine. Era un essere più forte e più grande di tutti noi. Gli occhi desideravano sbirciare e possedere per interposta persona la forza e l’energia che il dolore sprigionava irrefrenabili, perché il dolore è fedele a se stesso, e è tenace. Ma così, passato dal filtro dello schermo, lo si poteva dimenticare presto. E ne cercavamo altro soddisfacendo delle intensità momentanee.

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5 Commenti

  1. Nicaragua sandinista. Mi ero fermato in un posto sperduto. Da una capanna di canne e paglia esce uno, scalzo con la ‘cotona’ bianca. ‘Di dove sei?’ ‘Italiano’, rispondo. ‘Italiano? hum….Paolo Rossi (del mondiale)….e Alfredino…

      • Il nicaraguense era proprio un ‘nessuno’, la tele universale come il calcio….e poi lui Alfredino….e allora forse ‘si era immolato’ per costringere il mondo…. a riflettere, a recuperare alcunchè…così interpretai la lezione….e poi, non so se lo ricorda, la madre di Alfredino ebbe un sogno o qualcosa di simile, il bimbo le narrava del suo viaggio astrale e stupefacente…così sono rimasto stupito caro Verri del suo recupero….

  2. è un episodio imprescindibile della nostra storia, dela caduta verso il godimento perverso della nostra storia!

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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