Pezzi di merda
di Ranni Querciano
Tentare è il primo passo verso il fallimento (Homer Simpson)
Me lo ripete da così tanto tempo che ho quasi finito per crederle. “Devi imparare a volerti bene” – mi dice, saggia materna e femmina – “smetterla di trattare te e gli altri come se in ogni scelta o cazzata ci fosse sempre in ballo il giudizio di dio. Meno pesantezza e seriosità soprattutto. Leggero, leggero …”. Le piace proprio sta storia del giorno del giudizio, deve averla sentita da qualcuno alla tele o dalla parrucchiera. E adesso me la rivoga a ogni occasione propizia per farmi intuire verso quali lievità godute mi potrebbero condurre la sua mente e le sue mani (“Abbiamo un corpo! Non dimenticarlo mai. Tu sei tutto testa!”), se soltanto non opponessi tutta sta resistenza inutile. E, soprattutto, se la smettessi di giudicare sempre gli altri. Se fossi più clemente, pietoso nei loro confronti. “Abbiamo tutti delle debolezze, delle piccole cose che non ci piacciono. Ma in fondo in fondo c’è del buono in tutti. Lo sai, vero?”, mi mormora a ninna nanna, accarezzandomi la testa, come con un figlio un po’ ritardato.
Così ci ho provato. A essere easy, a non menarmela più di tanto. Non potrete dire che non abbia tentato. Questo proprio no. Domenica mi sono alzato e guardandomi allo specchio mi sono fatto coraggio: “Oggi o mai più, vedrai che ci riesci!”. Mi sono trascinato per le scale, sono uscito, ho respirato. E ho varcato leggiadro, con la grazia infoiata di un testimone di Geova al primo volantinaggio della Torre di guardia, la porta della pasticceria più figa della città. In centro, quella della domenica. Scelta obbligata di quelli che io, di solito, evito come la morte. Perché giudico dei pezzi di merda senza scampo né rimedio. Stamane però, a loro totale insaputa, li ho eletti a miei compagni di lievità. A inconsapevoli maestri di sapienza: li avrei guardati vivere, astenendomi da qualsiasi critica. Prendendo mentalmente appunti. Anzi no, copiandoli spudoratamente. Fingendo di essere uno di loro, come loro, più di loro. Fino a crederci.
Ho quindi buttato solo uno sguardo veloce alla zingara accanto all’entrata. Mai avuto simpatia io per quelli lì. Quel che fanno ai loro bambini mi basta: mandarli in giro a mendicare e rubare, e se tornano a mani vuote giù botte (una volta a Roma, a una zingarella che mi aveva appena fottuto il portafoglio, per riprendermelo, le ho alzato la maglietta sotto cui lo aveva nascosto, e ho visto le bruciature e le cicatrici. Figli di puttana!). Ma, dicevo, io a quella zingara della domenica, lercia il giusto davanti alla vetrina dove un panettone costava al metro quadro come un attico a Manhattan, l’ho guardata appena. Non dava fastidio a nessuno, lo giuro.
Poi sono entrato e vi ho visto. Tutti. Belli. Dalle scarpe in su. Mi dovete scusare per sta cosa delle scarpe; è colpa degli occhi, che fanno quel che vogliono. Ma vedervi alla domenica mattina a mezzogiorno, tutti così casual, così premeditati, con quattro adidas identiche. Papà, mamma, figlio, figlia. Quattro scarpe uguali, di pura razza ariana, nuove di pacca, appena uscite dal negozio. Mi è partita subito, come un trombo o un conato, la solita reazione da cane di pavlov. Quella che il mio cervello produce di fronte alle coppie o alle famiglie che girano mano nella mano con la stessa felpa di decathlon, lo stesso zainetto invicta delle medie (perché mai le coppie, di norma, esibiscono al mondo la loro intimità e la loro alleanza amorosa solo in formato passato di verdura e pigiama con le mucche? Un problema che mi tira scemo).
Ma voi no: ricchi, borghesi, di plastica. Italiani di oggi, a tutti gli effetti. Ve ne stavate in questa pasticceria meravigliosa, barricati tra zuccheri e vostri simili. Vi conoscevate tutti. Eravate nel vostro brodo. Con il barista, enorme energumeno troglodita, che pescava con il cucchiaino da un barile di panna montata riservato solo a voi – lo giuro, lo so che pensate che dica palle, che sia un paranoico! – e ve lo metteva zitto zitto, felpato, in coppa al cappuccino. Perché la vita ha da essere dolce e spensierata. E in culo alla lotta di classe, all’emarginazione, allo sfruttamento. E al fatto che lui, con quel che guadagna, nel vostro cappuccino dovrebbe cagarci dentro, altro che panna. Se solo avesse letto i libri giusti. O, piuttosto, se solo quelli che hanno scritto i libri giusti avessero letto lui. Ma io volevo stare bene. Fluido, zen, armonico. Good vibrations. Non ho ceduto a quella provocazione da quattro soldi.
Poi è successo l’irreparabile. La coppia, lui e lei, si è staccata per un attimo dalla pala d’altare adidas formato famiglia. Hanno sussurrato all’unisono qualcosa all’orecchio del troglo. Nei volti, nelle labbra, un brivido d’intesa intima e segreta. Per un attimo, in pieno delirio psicoerotico, ho sperato che in quell’orecchione ci ficcassero la lingua. Che fosse un preambolo da film muto a un’orgia che si sarebbe scatenata di lì a poco. Con loro, gentili, che mi avrebbero invitato a unirmi alla festa. Mica lo so come i ricchi passano le loro domeniche. Ma no, non era questo.
Da quel momento tutto ha preso ad andare veloce. Non sono mica sicuro di ricordarmi bene, preciso. So solo che non ci volevo credere, quando poi ho capito. Che cosa? Che i due stronzi, insieme alla loro stronzissima prole, non riuscivano a godersi la panna, il cappuccino, le sette brioches, il vassoio di paste già incartate, la pasticceria, il pranzo coi nonni, la domenica, la vita. E perché? Provate a indovinare, se ci riuscite.
Perché là fuori, in strada, accanto alla porta, c’era quella merda di zingara, vecchia e lercia, che chiedeva l’elemosina a chi entrava e usciva. Rapido scambio di parole e occhiate tra il troglo e i suoi padroni: quelli dietro la cassa e quelli davanti al bancone. E poi la gioia, la felicità che si dipinge sul suo volto, la sua bocca, le sue mani: “E’ da una vita che glielo ripeto a quella stronza di non osarsi a mettersi qui di fronte. Adesso esco e le faccio passare la voglia di tornare per un bel po’!”. Lo grida a tutti. E poi via che parte, nell’ammirazione generale, a fare il suo sporco lavoro.
Beh, io non riuscivo mica a crederci. Che la zingara, fuori dalla pasticceria, dietro a un vetro, in silenzio, potesse dare fastidio a ‘sti qua. E che la loro squisita preghiera potesse aggrumare in un istante il consenso totale, intenso, entusiasta di tutte le decine di presenti. Roba da maggioranze, bulgare e silenziose. Italiane.
Lo conoscete quel fremito fusionale, che solca e scalda un gruppo di sconosciuti quando si dice qualcosa di banale e di orrendo, così, tanto per fare gruppo? Sulle donne, sui froci, sui negri. Ecco, una roba del genere. Gratuita, oscena. Ma capace di stupirmi. Di farmi capire quanto minuscolo sia il mondo di quelli che frequento. Che già mi paiono, di norma, dei mostri inguardabili. Perché una grazia ottusa e inerte mi ha preservato dal contatto con tipi del genere. Pezzi di merda. Allo stato purissimo.
Parole come ingranaggi di un orologio svizzero al servizio di un racconto di orrore quotidiano pregno di verosimiglianza: Il delirio di Shiva
http://youtu.be/PlZJMS1wwsU
Ciao,
sono nuovo di qua, capitato casualmente; questa sarà una rubrica dove si pubblicano racconti propri e originali? Non l’ho capito ancora, navigherò alla ricerca della risposta. Ma intanto ho deciso di esprimermi anch’io.
Gran bel pezzo!
La rabbia e il livore escono fuori dalle righe. Sì, il patos vien su non è stucchevole né scontato: è umano.
Senza la premessa zen sarebbe stato improponibile e spocchioso. Invece è imbarazzante come l’amico che getta il pacchetto di sigarette dal finestrino. Della tua auto.