Sarajevo 1984 Olympic Winter Games
di
Azra Nuhefendić
Articolo pubblicato sull‘Osservatorio Balcani e Caucaso
Un metro di neve e 20 gradi sotto lo zero! Nessuno ci fece caso in Bosnia. La gente puliva le strade e scava trincee nella neve per collegare la casa o il portone alla via principale.
Talvolta cadeva già a inizio ottobre. Andavamo a cena al ristorante e, all’uscita, ci aspettava la prima neve. Tap-tap. Con scarpe leggere ed eleganti ai piedi, cercavamo di attraversare il tappeto bianco senza scivolare o cadere. La neve resisteva fino ad aprile, qualche volta oltre. Capitava che sulle montagne intorno a Sarajevo nevicasse anche in piena estate. I giornali locali ne davano notizia, ma nessuno si stupiva.
Succedeva che in primavera uno andasse per i boschi sul monte Bjelascnica, a sud-ovest di Sarajevo. Erano giornate di sole, ma in 10 minuti rischiava di trovarsi nel mezzo di una tempesta bianca. Anche quelli che conoscevano la montagna, talvolta correvano il pericolo di perdersi o rimanere intrappolati sotto la neve, come successe negli anni Sessanta a 11 giovani e bravi sciatori che persero la vita in una tempesta improvvisa sul Bjelasnica.
Nevicava sempre moltissimo, ma, a inizio febbraio 1984, l’assenza inspiegabile dei fiocchi ci tormentò per giorni. Circa quattro milioni di bosniaci ed erzegovesi scrutavano il cielo aspettandola, si svegliavano di notte per controllare se fosse caduta e la prima domanda al risveglio era: “Nevica?“. Accusammo i meteorologi di aver sbagliato i calcoli. Quelli religiosi pregarono che nevicasse, ma invano. Nei 100 anni che precedettero la quattordicesima Olimpiade nevicò sempre a Sarajevo e dintorni.
Un giorno prima dell’ inizio dei Giochi, era il 7 febbraio 1984, sembrava di essere in primavera. Non era caduto un solo fiocco. Mi venne di piangere.
Tutto era pronto un anno prima che cominciassero i Giochi: venne costruito un villaggio olimpico, vennero aperti nuovi alberghi e ristrutturati i vecchi. Venne salvata e ricostruita l’antica parte ottomana della città, la Bascarsija, che era in rovina e rischiava di scomparire per fare posto a una <più bella>, dicevano. Le strade principali di Sarajevo vennero ristrutturate e allargate, le facciate dei palazzi vennero ridipinte, le rotaie dei tram elettrici vennero cambiate e la stazione centrale dei treni venne restaurata. Sui monti intorno a Sarajevo – lo Jahorina, il Bjelasnica, l’Igman, e il Trebevic – vennero costruite le strutture necessarie.
Alcune migliaia di giovani di tutta la nazione si esercitavano ogni giorno per imparare la coreografia dei cerimoniali di apertura e chiusura delle Olimpiadi. A proposito, il principale quotidiano giapponese, “Yomiuri Shimbun”, domandava con un titolo in prima pagina: “Dove hanno trovato quelle ragazze bellissime e quei ragazzi così alti?”. Il sottotitolo ribatteva: “A Sarajevo sono tutti cosi”. Per evitare il rischio che qualcuno mancasse a causa dell’influenza, tutti si immunizzarono con vaccini forti, “quelli per i cavalli”, mi dice oggi scherzando Vanja. Lei e Svjetlana, due bosniache – triestine adottive – vi parteciparono. Trent’anni dopo, ancora belle e alte, rievocano con nostalgia quelle Olimpiadi.
Nella fase preparativa dei Giochi, piuttosto che la neve, ci preoccupava la nebbia. Anche quella è onnipresente a Sarajevo. Per far funzionare l’aeroporto locale, i nostri ingegneri prepararono delle sostanze chimiche, che, all’occorrenza, potevano – proprio come dice una canzona bosniaca antica (“duni vjetre, malo sa Neretve, pa rastjeraj maglu po Mostaru”) – far sparire la nebbia. Tutto era pronto e perfetto: migliaia di sportivi, innumerevoli giornalisti e decine di migliaia di ospiti erano già in città. Mancava solo lei. La neve.
Volevo essere parte di quell’evento, sarei stata contenta di fare un lavoretto: pulire la neve, indicare i servizi. Insomma, qualsiasi cosa. Mandai una richiesta per essere assunta come volontaria, ma nulla. Ci lavoravano già 30mila persone, di cui la metà era composta da volontari. Nella costruzioni delle strutture olimpiche sui monti, partecipavano giovani volontari, organizzati nelle “brigate lavorative”, le radne brigade. Nei giorni delle Olimpiadi, 400 camerieri provenienti da tutta la Jugoslavia erano al servizio degli ospiti.
La sera prima dell’inizio dei Giochi non volevo stare a casa: nella mia città si stava scrivendo la storia. Sarajevo splendeva, le strade erano affollate, i negozi, i ristoranti e i bar restarono aperti l’intera notte, stracolmi di gente. Migliaia di persone giravano su e giù, parlavano a gran voce, quelli che non riuscivano a comunicare in lingue straniere facevano amicizia a gesti. Si scattavano foto e si rideva così, senza un motivo. Ci pareva di essere al centro del mondo.
Poi cominciò a nevicare. Mi trovavo in via Vase Miskina (oggi Ferhadija) là dove inizia la parte antica della città, la Bascarsija. Alcuni saltavano di gioia, altri si tenevano per mano e ballavano, qualcuno urlava. Io ridevo, girando su me stessa. Volevo sentire i fiocchi gelidi sul viso.
Credo che quella volta molti comunisti, che da noi dovevano essere per forza atei, ringraziarono l’Altissimo.
Fu una notte dipinta di bianco. La neve cadeva bellissima, secca, quella che non si scioglie subito. I fiocchi erano grandi ed eleganti come farfalle. All’inizio, scese piano e poi sempre di più e più in fretta. Pareva che qualcuno, lassù, avesse aperto un sacco e che non riuscisse più a controllare la velocità con cui esso si svuotava.
Prima eravamo preoccupati, perché la neve non c’era. Poi, la situazione si invertì: in poche ore si raggruppò più di un metro di cotone gelido. Il problema fu livellare le piste sciistiche. Il presidente della Federazione internazionale per lo sci, Marc Hodler, preoccupato, domandò al presiedente del Comitato olimpico bosniaco, Branko Mikulic, come pensava di risolvere il problema. <Ci vogliono mille persone per spianare le piste, dove le troverete a quest’ora?>, chiese Holder. Secondo i testimoni Branko Mikulic rispose: “Secondo lei, potrebbero bastarne cinquemila?”.
I cittadini vennero chiamati ad aiutare e risposero in migliaia, lavorando l’intera notte. Soldati dell’Jna compresi. La mattina dopo, le piste erano perfette e la città pulitissima. “Fummo così entusiasti da acchiappare i fiocchi ancora prima che toccassero terra”, ricorda Meho S., tassista di Sarajevo.
Erano momenti magici, sembrava di vivere una fiaba. Infatti, la quattordicesima edizione dei Giochi olimpici invernali di Sarajevo poté, per molti aspetti, considerarsi un miracolo.
Nessuno ci credeva. Una volta, i Giochi venivano organizzati dai ricchi Paesi occidentali. La manifestazione che si tenne da noi fu di gran prestigio e costosa, una sorta di vetrina dove l’organizzatore fece vedere al mondo il meglio di sé. Proprio come accade ancora. Sarajevo, per vincere, dovette prima convincere prima gli scettici di casa. La candidatura doveva essere approvata dal Partito comunista, dal Governo della Bosnia-Erzegovina e, infine, da quello federale (SIV).
Le altre Repubbliche della Jugoslavia consideravano la Bosnia un “tamni vilajet” (un mondo tenebroso, retrogrado) una sorta di cugino povero che meritava simpatia e aiuto, ma non altro. Di conseguenza, la prima reazione delle altre Repubbliche fu di incredulità, ma Sarajevo ce la fece. La capitale della Bosnia dovette competere con la giapponese Sapporo e la congiunta candidatura di due città svedesi: Falun e Göteborg.
Dopo aver fatto un’ultima visita a Sarajevo, Marc Hodler, riferì queste parole al Comitato olimpico: <La Bosnia-Erzegovina si sta sviluppando a vista d’occhio, la gente ci vive libera e felice>.
Prima della votazione, la giornalista inglese Pet Bedford scrisse: “Se sceglierete Saporo, i giapponesi vi organizzeranno un aereo per visitare Tokio; se opterete per Falun e Göteborg, gli svedesi vi faranno di vedere i fiordi e gli iceberg. Se, invece, la vostra scelta cadrà sulla Jugoslavia e Sarajevo, ci troverete gente amichevole, con grande cuore e montagne”.
I Giochi olimpici invernali a Sarajevo si tennero dal 8 al 19 febbraio 1984. Fu la prima Olimpiade invernale ad andare in scena in un Paese comunista. Arrivarono partecipanti da 49 Paesi, 1272 atleti (274 donne, 998 uomini) che gareggiarono in 39 discipline, seguiti da 7393 giornalisti e visti da due miliardi di telespettatori. Gli organizzatori vendettero 250mila biglietti, guadagnando 47 milioni dollari e, grazie ai Giochi, vennero assegnati 9500 nuovi posti di lavoro.
Per la prima volta, alle Olimpiadi invernali i disabili gareggiarono nello slalom gigante e, per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, la coppia inglese di ballerini su ghiaccio, Jayne Torvill e Christopher Dean, ricevette il punteggio più alto fra quelli disponibili.
I Giochi invernali di Sarajevo lanciarono una delle icone sportive più grandi degli ultimi due decenni del ventesimo secolo, la pattinatrice della Germania dell’Est – che all’epoca era un Paese indipendente – Katarina Witt, la quale conquistò una medaglia d’oro.
Fu un trionfo anche per la stessa Jugoslavia che vinse una medaglia nelle Olimpiadi invernali. Era la prima. Lo sciatore sloveno Jure Franko, si aggiudicò un argento nello slalom gigante, portando l’intera nazione in “trans”. Durante la premiazione, di fronte al centro sportivo-culturale “Skenderija”, decine di migliaia urlarono: “Volimo Jureka, vise non bureka”, amiamo più Jure che il burek, ovvero il piatto preferito nazionale.
“Erano tempi diversi, con valori diversi – racconta oggi Jure Franko. In caso di vincita – narra l’ex campione – promisero di regalarci un videoregistratore. Fra me e me pensavo di dover fare di tutto per portarlo a casa“.
Juan Antonio Samaranch arrivò alle Olimpiadi di Sarajevo per la prima volta in veste di presidente del Comitato internazionale olimpico (IOC). Nel suo discorso in occasione della chiusura dei Giochi, Samaranch disse: “Il movimento olimpico è stato arricchito. Per la prima volta i Giochi olimpici sono stati organizzati da un popolo”. Fra la città e il presidente si strinse un’amicizia che durò 20 anni, fino alla morte dello stesso Samarnch.
Nel corso della guerra – nei primi mesi del 1992 – molti edifici olimpici vennero rasi al suolo, bersagliati di proposito, come tutto ciò che documentava la storia e la vita comune dei bosniaci ed erzegovesi. Il centro sportivo “Zetra”, con la magnifica sala di ghiaccio che fece da palcoscenico ai pattinatori e alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi, fu bombardata e incendiata. Rimasero integre solo le fondamenta. Il centro “Skenderia”, il Museo olimpico e gli alberghi sulle montagne vennero demoliti.
Già nell’aprile 1992, sul monte Jahorina, serbi armati di kalashnikov si fecero pagare con minacce il biglietto per lo ski lift. Il monte Trebevic – così vicino che la consideravamo essere un monte nel cortile di casa – una volta era più caro ai sarajevesi. Dopo il conflitto, molti non ci tornarono più. Là venne costruita pista di bob, minata durante l’assedio. Oggi è abbandonata, ci vagano coraggiosi che raccolgono pallottole vuote da vendere agli artigiani, i quali ne fanno souvenir da vendere a loro volta ai turisti.
I villaggi olimpici Mojmilo e Dobrinja, vennero progettati per diventare nuovi quartieri della città. Sono due zone belle, grandi, contigue all’aeroporto, dove, dopo i Giochi, vennero distribuiti 2750 appartamenti a coloro che non ne avevano.
All’inizio della guerra che lacerò la Bosnia, il quartiere di Dobrinja venne bombardato e i serbi cercarono di occuparlo, ma invano. Dobrinja rimase assediata per tutto il conflitto e tagliata dal resto della città, subendo un assedio nell’assedio. Gli abitanti, gente mista di tutte le etnie e religioni, lottarono sempre e la loro è una storia di coraggio e resistenza esemplare. Oggi per Dobrinja passa la linea invisibile della Sarajevo divisa.
Nel 1994, a Lillehammer, in Norvegia, si tenne la diciassettesima edizione dei Giochi invernali. Samaranch abbandonò Lillehammer per raggiungere Sarajevo ed esprimerle la propria solidarietà, mostrando un coraggio e un grinta che mancarono a moltissimi politici dell’epoca.
“Con aria di sfida – narra il direttore del Museo Olimpico di Sarajevo, Edo Numankadic – come se non vi fosse alcun pericolo dalle colline, Samaranch stette fermo sulle rovine del centro sportivo “Zetra”, dove, 10 anni prima, dichiarò chiuse le Olimpiadi invernali. Fu un segnale che non ci avrebbero dimenticati, né abbandonati. Gli fummo molto grati – chiosa Numankadic – e la gente venne a salutarlo e a toccarlo con mano”.
In quella occasione, Samaranch promise che avrebbe fatto di tutto per riportare in vita il centro olimpico. Nel 1999, la sua promessa venne mantenuta e il centro “Zetra” venne ricostruito e riaperto.
In questi giorni, a Sarajevo stanno preparando i celebrativi per il trentennale dell’Olimpiade invernale del 1984. I festeggiamenti si organizzano anche nel mondo, dove, dopo la guerra, si sparse circa un milione di bosniaci. A Melbourne, in Australia, gli organizzatori invitano i connazionali a rivivere i giochi invernali, per stare insieme e accendere, per un attimo, la fiamma dentro di essi.
A Sarajevo, 20 anni dopo, i simboli dell’Olimpiade sono ancora vivi. La mascotte Vucko, Lupetto, oggi è il souvenir più venduto ai turisti e la sua immagine, ormai scolorita, si vede ancora sulle facciate di alcuni edifici. I segnali stradali indicano “la montagna olimpica”, la gente ne parla volentieri e con il sospiro, rievocando i tempi in cui eravamo felici e uniti.
Adesso, però, sul monte Jahorina sciano i serbi, mentre sul Bjelasnica i bosniaci.
“Nel corso della guerra, appostati sulle colline, i serbi decidevano della nostra vita e della nostra morte: non riesco più a guardarne una senza pensare al conflitto”, commenta la signora Suada K., esprimendo un sentimento diffusissimo.
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Grazie mille del testo, effeffe e Azra Nuhefendić. Mi sono molto emozionata leggendolo e ho potuto conoscere anche Torvill&Dean, che non conoscevo prima…Un po’ è stato come essere in quelle Olimpiadi…anche se nel ’84 non ero ancora nata…
Una nostalgia bella e a tratti commovente,poi ancor di più inspiegabile la sorte che ha colpito la nazione slava.
luigi
“Adesso, nel 1993, lo stadio olimpico è distrutto, e proprio davanti alle sue macerie si seppelliscono i morti, chi l’avrebbe mai pensato, si dice, chi l’avrebbe mai creduto possibile, si scrive, e mi immagino Jens Weissflog prepararsi al salto, prendere un ultimo respiro profondo prima di darsi un energico slancio, incanalarsi, accucciarsi, per poi decollare, Jens Weissflog, in un eterno volo sopra i tetti di Sarajevo”.
(Melinda Nadj Abonji, “Come l’aria”, Voland, 2012)