Per Jean-Michel Gardair

Jean-Michel Gardair, professore e letterato, scrittore e traduttore, è morto lo scorso agosto nella solitudine della malattia (http://etudesitaliennes.hypotheses.org/4456). Tra i molti ricordi, il più intenso è la presentazione che abbiamo fatto, in una piccola libreria parigina, oltre dieci anni fa, del suo libro Jean-Michel Gardair legge Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello (Metauro, 2001); è una straordinaria e personalissima lettura del romanzo pirandelliano. Questo il primo capitolo.

 

 

Il fu Mattia Pascal
romanzo del fu Luigi Pirandello

Quid amabo nisi
quod aenigma est?
G. De Chirico, Autoritratto, 1911

 

Il fu Mattia Pascal è l’autobiografia postuma di un suicida e, in quanto tale, idealmente dedicata ai «fratelli» suicidi («fratelli miei», p. 87, li chiama appunto il narratore protagonista) di tutti i paesi e di tutti i tempi, suicidi veri o finti, o presunti, o falliti, o semplici candidati al suicidio, a tuti coloro, insomma, che hanno il suicidio per pensiero dominante; se non addirittura riservata a loro, così come Jean Genet aveva apertamente (ad apertura di libro) riservato agli «invertiti» la lettura di Querelle de Brest.

Ma è anche un giallo. Un giallo ontologico di un morto latitante. Un giallo in cui non si tratta di scoprire chi sia l’assassino, ma chi sia morto, e dove sepolto; addirittura se sia vivo o morto, o risuscitato: la sua tomba potrebbe essere vuota, e il presunto morto, suo latitante ospite, potrebbe essere il narratore che, specchiandosi nella lapide del proprio cenotafio, esclama in extremis: «Io sono il fu Mattia Pascal». O perfino l’autore, se, scherzando – ma non troppo – in una lettera dell’autunno 1904 (ossia tra la pubblicazione del romanzo a puntate e l’imminente edizione in volume), può suggerire il seguente frontespizio: Il fu Mattia Pascal / romanzo del fu Luigi Pirandello. Il giallo ontologico diventa, prima, ontologia del romanzo (di questo romanzo, e della narrativa in genere), poi, ontologia della scrittura.

Ma la tabula rasa del frontespizio e della lapide, la lapidaria eleganza del tombeau letterario non deve far dimenticare né il lungo intricato romanzo del dolore, cui attinge il «pensiero dominante» del suicidio, né il lampo accecante dell’ultima sofferenza che spinge all’ultimo salto nel buio.

(…)

La lettura che segue è stata ispirata e scandita da quotidiane passeggiate tra due tombe, nel parigino cimitero di Montparnasse, entrambe intestate a Baudelaire, lungo un percorso idealmente parallelo a quello che porta Mattia Pascal, dall’affollata scena della sua alienazione giovanile, fino alla pace del soliloquio con la lapide di se stesso. La prima, ad ovest, modesta e perfino meschina, defilata in seconda fila, piena, anzi strapiena in un angusto spazio, quasi un monumento all’infelicità familiare di Baudelaire, strozzato dall’odioso amore per la madre, risposata col Generale Aupick, che si pavoneggia in eterno nella vanitosa pompa di una lapide piccolo borghese:

 

Jacques Aupick
generale di divisione, senatore,
già ambasciatore
a costantinopoli e a madrid,
membro del consiglio generale
del dipartimento del nord, grand’ufficiale
dell’ordine imperiale della legione
d’onore, insignito da numerose
onorificenze estere,
deceduto il 27 aprile 1857
all’età di 68 anni
___________
 
Charles Baudelaire
suo figliastro, deceduto a parigi
all’età di 46 anni, il 31 agosto 1867
 
___________
 
Caroline Archenbaut Defayes
vedova in prime nozze di
Mr Joseph François Baudelaire
in seconde nozze
del generale Aupick
e madre di Charles Baudelaire
deceduta a Honfleur (calvados)
il 16 agosto 1871, all’età di 77 anni.

 

All’altra estremità, lungo il muro di cinta, ad est, la lapide sepolcrale, segnata dal solo nume del poeta, del cenotafio di Baudelaire, che vi giace sopra, ad occhi chiusi, fasciato da strette bende di pietra, vegliato, in cima a un piedistallo a forma di pipistrello, da un genio meditabondo e scontroso che potrebbe essere il poeta stesso, o il suo doppio, l’ipocrita lettore, «(son) semblable, (son) frère».

Sulla diagonale contorta che porta dall’una all’altra, s’incontrano pure, volendo, le tombe di Ionesco e Beckett.

Ma oltre alle indubbie affinità –psicologiche e formali–, tutt’altro è il singolare percorso di Mattia Pascal; tutt’altra l’originalità del fantasticare pirandelliano, oggetto primo della nostra indagine.

Print Friendly, PDF & Email

3 Commenti

  1. Letta un’altra bella partecipazione di una ex-alunna. Indubbiamente una persona appartata, schiva, sensibile che ha lasciato il suo solco…..

  2. Un uomo di grande intelligenza e vivacità, profonda umilità e straordinaria apertura. Non riesco ancora a credere che sia scomparso, cosi’, in silenzio.
    Anna

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

La nuda

di Sara Sermini (testi) e Elena Gargaglia (fotografie)
Entra da destra nel quadro, la zampa levata, l’occhio giallo (si intuisce) acuto nella pelle tesa: una capra d’ossa appesa accanto alla porta di una cella. Una capra nomade, fuori e dentro due pupille a penzoloni.

Branchi di cani

di Laura Mancini
Non so quando fu che iniziai a pensare ai branchi di cani. Branchi, di, cani, sarei tentata di scandire per ricordare come singoli elementi possano compattarsi in un simbolo monolitico e depositarsi nella mente fino a produrre calcare e ruggine, fino al totale squagliamento in un immondo pantano.

L’ultima gita al faro

di Francesco Segoni
Qualche anno più tardi, al momento di spingere la lama nella coscia, Ursula ripensa a quel venerdì di fine marzo in cui avrebbe dovuto morire e invece era morto suo padre. Aveva dodici anni e se lo ricorda come un pomeriggio di sole: una cosa buona, perché aveva scelto un posto all’aria aperta per suicidarsi. Intorno al faro di Alnes c’erano solo mare e cielo.

Sessantacinque anni

di Daniele Comberiati
. Ero passato dal Dépanneur un venerdì pomeriggio, pensando di trovarlo chiuso. Il classico atto mancato, mi dicevo parcheggiando la macchina.

Termini senza mezzi

di Laura Mancini
Se a ossessionarmi non fosse la morte ma l’enigmistica troverei gustosa Termini senza mezzi. Prenderei nota della coincidenza idiomatica – che cos’è, una crittografia, un indovinello, un’inversione? –  e scatterei una foto di piazza dei Cinquecento nella sua inconsueta nudità

Le foglie di Adamo

di Laura Mancini
La voce brusca dello zio e quella fioca del nonno riscossero Adamo dalla sua beatitudine. Si voltò e li vide sbracciarsi oltre il cancello mentre un uomo vestito di lenzuola sbatacchiava il lucchetto. Adà, sfiatava il nonno, Adamo! tuonava lo zio. Adamo fece un nodo al respiro.
silvia contarini
silvia contarini
Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: