Roma e Treia nei Sogni di Dolores Prato (II)
di Elena Frontaloni
La realtà che puntualmente nega il proprio abbraccio nel quotidiano è Roma, la città in Voce fuori coro amata e torturata dal moderno; la realtà che puntualmente nega il proprio abbraccio nel passato, e un compimento nel presente (non vi si ritorna, quando vi si ritorna si rimane delusi), è Treia. Così Dolores Prato trasforma la scrittura in una sorta di vendetta sul destino, un modo per guardar meglio, da una prospettiva per così dire contemporanea a se stessa, e con più profondità, tanto il mito storiografico su Roma quanto il mito della memoria costruito su Treia: il collegio diventa ricettacolo di corpi malati e vogliosi di sesso omosessuale delle monache fin dagli anni Cinquanta; già a questa altezza, la spettrale “casa del mistero” che tanta parte avrà nelle pagine di Giù la piazza è una prigione dove sarebbe impossibile vivere e tornare a vivere; negli anni Settanta (27 ottobre 1974) si registra un lungo sogno dove appare Eugenia Valentini, ambientato in una “Treja dove manco dall’infanzia” e che nega ancora una volta il ritrovamento della tomba dei Ciaramponi, della famiglia d’origine degli zii. L’entrata al cimitero di Treia si trasforma così in una faticosa scalata a una parete (“quell’ascesa la sentivo come una vittoria della vita sul mio destino”) e poi in una corsa libera, quasi un volo per il cimitero, dove si trova una lapide che assomiglia a quella dei Ciaramponi ma non riusciamo a capire se lo è o meno, al pari dell’io che sogna: come a dire che il mondo nuovo costruito nei sogni consente una rivincita sui luoghi, consente di superarne la mitologia incantata dell’infanzia, cioè permette di guardarli meglio, ma solo per confermare l’impossibilità di ripescare compiutamente le radici, il filo della propria esistenza.
Quanto a Roma, ecco i suoi appartamenti zozzi e deprimenti, ricavati da uffici già dagli anni Sessanta – simboleggiati dalla casa delle Bartalini, dove il mito storiografico della decadenza della città romana e quello privato e quotidiano dell’autrice s’incontrano e diventano altro – mentre l’acquisto di un appartamento nel centro, sempre a quest’altezza cronologica, ad un certo punto consente di costruire una visuale che finalmente gulliverizza la città: la fa guardare al sognatore come se “tu fossi più alta e lei più bassa”, dominabile, dunque, ridotta a modellino scomposto (anche per questo amato) e insieme a distante formicolio di problemi di movimento e di relazione che rappresenta quotidianamente, come vediamo per esempio dalle lettere, per l’autrice.
Sotto il segno della gulliverizzazione si pone anche, nei Sogni, il meccanismo delle epifanie che ben conosciamo da Giù la piazza non c’è nessuno, dove si parla, come è noto, dei pezzi di Treja che riemergono dopo il trasferimento a Roma, e di una Treja che finisce per coprire col suo nome tutta la città eterna: una “periferia” che si sovrappone e quasi va a sovrastare un “centro”. Ma “il centro non esiste”, nei sogni – “il centro non esiste” è il titolo di un racconto onirico tra i più belli –; esistono invece continui mutamenti di prospettiva, e continue sovrapposizioni, come si vede in un altro sogno ancora, del 1958, che per finire definirei esemplare del modo di strutturare il “nuovo mondo” onirico da parte di Dolores Prato in relazione a Roma e Treia e ai luoghi sognati in genere.
L’io che sogna deve trovare un numero di una marchesa, non riesce, trova solo quello di una raccapricciante azienda in via Flaminia – forse una conceria già adibita a rifugio nazista e all’epoca dismessa –; riesce infine a giungere al palazzo della marchesa, dove si sta organizzando una congregazione religiosa, di monache mondane, le “monache rosse”, in occasione della vicina e prossima morte della marchesa stessa. Uscendo dalla villa, l’io che sogna vede un braccio di mare, e poi un monte con due torri in cima:
Lo riconosco e il cuore mi dà un sobbalzo per l’emozione…
– È Pitino!
– Sì, è Pitino. Lo conosce?
– Pitino! Se lo conosco! Lo vedevo sempre da piccola, però
lo vedevo dall’altra parte. E non lo vedevo così chiaramente.
Qui vedo le sue rughe, le sue rocce, le sue macchie! Lo vedevo
dall’altra parte. Ma questa villa allora deve essere dalle parti
di Ancona.
– Precisamente!
– Già, c’è il mare. In principio ho pensato che fosse il Conero.
Invece è Pitì, il mio Pitì che non ho mai potuto vedere da
vicino.
E estatica guardavo.
Il viale, il cancello, un po’ di verde, il poco mare, il monte
alto, grande, vicino senza opprimere. Dico:
– Una cosa così bella non l’avevo vista mai!
E l’emozione per questa bellezza mai vista, era una emozione
mai provata così grande.
– Vada dunque a vederlo da vicino.
E io esco, attraverso la terrazza, scendo la scalinata, percorro
il viale…
… ma che succede? Il monte diventa sempre più piccolo,
più piccolo, più piccolo. No… che succede? Ecco sono arrivata.
Il monte è qui… eccolo. Un piccolo promontorio di terra
alla fine del viale. Sta di sbieco come un piccolo rialzo al margine
del viale, dopo il fosso. È un piccolo mucchio di terra.
E io grido:
– Ma questa marchesa allora è la marchesa Spada!
– Perché? – mi chiedono.
Io non rispondo. Sto pensando: «Nel Palazzo Spada c’è lo
stesso inganno. Un guerriero gigantesco che diventa piccolo,
sempre più piccolo mano a mano che ti avvicini. E quando sei
lì è come questo, come quel monte».
Pitino viene visto nei sogni dalla parte opposta a quella consentita dal ricordo dell’infanzia, infine da Treia come punto di osservazione sul mondo; e a questo paese mai visitato, il mondo onirico consente invece di avvicinarsi, per vederlo però ridotto a un mucchietto di terra: un mito positivo, dunque, che diventa polvere, immagine inadeguata a resistere non alla prova della realtà, ma a quella del mondo nuovo costruito nel sogno, dove Treia non è tanto un luogo quanto una lente, un modo di guardare rappresentato nel momento stesso in cui si rivela fallace. Anche a Roma vien fatta gettare la maschera: rovesciando il sistema di Giù la piazza, intessuta di epifanie treiesi dentro il tessuto romano, in questo sogno diventa essa stessa epifania in uno spazio onirico tutto marchigiano (ricordo per inciso che c’è una villa Spada, alias villa La Quiete, anche nei pressi di Treia), e mentre lo diventa mostra che la sua grandezza è frutto esclusivo dell’occhio che la guarda (a Palazzo spada c’è infatti una statuetta di epoca romana posta dal 1861, per volontà del Principe Clemente Spada, in fondo alla celebre «Galleria Prospettica» del Borromini che, tramite alcuni accorgimenti tecnici, crea l’illusione della profondità e delle dimensioni assai notevoli della statuetta, in realtà piccolissima).
Traditrici entrambe, dunque, la Roma e la Treia dei Sogni di Dolores Prato. Ma entrambe traditrici splendide, perché portatrici di brevissimi stupori, spaesamenti, e grandi scontenti sempre frutto dell’occhio che li guarda, li sminuzza, li mescola, li rende oggetti narrativi di eccezionale valore letterario, che recalcitrano davanti tanto al mito storiografico quanto al mito della memoria e che impastano l’uno e l’altra con una sorta di fantastico quotidiano non sempre rintracciabile nelle scritture di Dolores Prato: lucidamente e dolorosamente adulto.
[Qui la prima parte del saggio]
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La scrittrice meritava tanta appassionata devozione. Brava.
La letteratura guarda sempre attraverso la lente (onirica o reale) dell’esperienza emotiva del luogo e del fatto, e questo accade a maggior ragione a chi ha subito una separazione da luoghi e fatti del suo passato e conosce una relazione straniante con le cose e le persone che appartengono al suo oggi.
Senza la lente che fotografa un determinato taglio di luce e di forme, la letteratura diventa mero catalogo, senza vita, senza affetti, senza sogni.
Grazie ad Elena per i preziosi consigli di lettura dei testi della Prato.
mdp