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Overbooking: Leonardo Bonetti

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Leonardo Bonetti ha da poco pubblicato un bel romanzo, Una storia immortale. Mi ha colpito nello stile la rarefazione delle sequenze, dei personaggi, l’immobilità dei paesaggi quando tutto sembra muoversi in altre direzioni da quelle immaginate. Ne pubblico qui un capitolo sperando di fare cosa gradita. effeffe

Capitolo 8
Un treno è partito

Un treno è partito alle otto e un quarto di sera da Bruxelles e sta sfrecciando all’altezza di Zurigo. Sono le dieci e venti e a bordo ci sono più di ottocento passeggeri. Dopo tre ore, a Milano, sosterà quaranta minuti prima di ripartire. Solo nel tardo pomeriggio giungerà sullo stretto per attraversare il ponte sopportando la pressione e la spinta di una corrente verticale formidabile.
Ma prima, più o meno all’alba, sarà a Roma dove, nella carrozza numero cinque, c’è un posto prenotato per il signor Raffaele Giarra, vicino al finestrino e in direzione di marcia.

I treni sono un’opzione irresistibile per chi ama viaggiare, nonostante la tristezza del mezzo sia paragonabile solo alla fantasmagorica elezione del pallone volante. Il treno è malinconico, monotono e lungo come l’estensione del viaggio che si va a intraprendere. Si maneggiano accuratamente i bagagli prima della partenza affinché la giacca e la camicia appena stirata non patiscano offese. E ogni volta si immagina che il viaggio sarà indimenticabile temendo il contrario.
Così dovrebbe essere per il signor Raffaele Giarra pronto sul binario numero quattro alla stazione Termini di Roma. Sempre che questo signore si trovi davvero sul posto, pronto alla partenza, armato di ogni fiducia così come di tutte le paure del caso. E se non dovessimo aggiungere, senza temere di incorrere nelle ire del nostro lettore, che il signor Giarra non esiste affatto. Perché, sebbene sia possibile supporre che un qualsiasi signor Giarra viva in un luogo qualunque perso dentro la bellezza della nostra nazione, quel signor Giarra, quello della camera 46 e del treno Bruxelles-Milano-Bologna-Roma-Reggio-Palermo numero 9563 che sosta alla stazione di Roma alle 6,30 del mattino, una domenica come tante altre, in attesa di una primavera che tarda a venire, quel signor Raffaele Giarra, insomma, non esiste e non è mai esistito. È una pura condanna del caso.
E se non esiste, forse, è davvero meglio così.

Sennonché noi possiamo vederlo, al binario numero quattro, attendere un treno, per nulla interessato alle voci digitali che ordinano di spostarsi in questa o quella direzione mentre dagli schermi a cristalli liquidi frullano sciami di puntini mutando partenze e destinazioni. Ecco, lampeggiano i contasecondi, i contaminuti; oltre cinquecento monitor accesi, di cui duecento sparsi ovunque nella mezzaluce; basta posare lo sguardo sulle file che si allungano davanti agli sportelli della biglietteria per perdere memoria delle proprie azioni e dei propri desideri. Qua e là scarpe consumate, valigie ultramoderne; mentre un uomo d’argento, proprio quello, passa incolume al binario numero quattro sotto il bagno ammoniacale. Il suo treno è arrivato, e lui lo osserva cercando dietro i finestrini un profilo vuoto tra gli scompartimenti.
Intanto un fiume di persone si muove lungo i marciapiedi con lo sguardo fisso, le labbra serrate, lo stordimento di chi crede di andare in un luogo, ed è invece trascinato da una forza estranea, priva di consapevolezza. Il ritmo è inumano, i movimenti coatti.
Ma lui sale sul treno fermo al binario numero quattro con la percezione esatta del peso del suo corpo, del suo bagaglio: chili, età, volume. Ecco tutta intera la realtà secondo un uomo d’argento che sale sul treno per Perugia: azione spontanea, automatica, disgusto della parola.

In fondo lui conosce le stazioni come le sue tasche: sono anni che viaggia in lungo e in largo questo nostro paese in cerca di qualcosa o di qualcuno. A meno che non si tratti di fuga. Non ne sappiamo ancora abbastanza per essere più precisi.
È appena salito sul treno senza rispondere al saluto di una signora. Ora toglie il soprabito e siede nella direzione di marcia. Tiene molto a questi particolari.
Messa la mano nel taschino, appare sorpreso. Un oggetto o un biglietto a lui molto cari sembrano essere scomparsi. Si fa più serio, cerca di ricordare: li ha persi in tassì, forse, o alla stazione. Si affaccia dal finestrino per cercare sul marciapiedi, ma sa già che non troverà nulla. Il treno, d’altronde, è in partenza, e non c’è più tempo per scendere.
Subito dopo, però, ricorda qualcosa: nel laboratorio d’analisi s’era fermato a riprendere fiato, stanchissimo dopo la fuga dall’albergo. Lì, sfilato dal taschino il fazzoletto, aveva perso l’equilibrio per una vertigine. E proprio in quel momento, con ogni probabilità, gli era caduto qualcosa. Ma ora si rasserena guardando dal finestrino la stazione in tutta la sua lugubre consistenza. Le stazioni, pensa, sono cattedrali umide e dolci, con l’aria guasta tipica delle gallerie. E soprattutto con tante piccole luci lontane.
Quindi si siede poco prima che il treno prenda a muoversi con un lungo lamento. Si tocca ancora il taschino, ma è più tranquillo; forse ciò che ha perso non è perso per sempre.

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4 Commenti

  1. Davvero molto bello. Una scrittura precisa, impeccabile. La descrizione della stazione e dell’uomo rimanda a una profondità e a una capacità di evocazione pur rimanendo aderente alla realtà rappresentata. Notevole.

  2. Concordo con Forlani. Sembrerebbe una scelta stilistica che mantiene una distanza con la realtà. Che osserva attraverso un diaframma. Una ‘scuola dello sguardo’ che riacquista spessore, però. Forse perché lascia spazio ai pensieri del personaggio, piccoli frammenti. Come il bellissimo “Le stazioni, pensa, sono cattedrali umide e dolci”.
    E poi sentenzia, come la chiusa, ad esempio: “forse ciò che ha perso non è perso per sempre”. Molto efficace e molto vero.

  3. Interessante. L’attacco è degno di rilievo. Ma tutto il brano ha una forte concentrazione stilistica. Complimenti.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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