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Note Movie : Oh boy

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Oh boy, un caffè a Berlino
di Sophie Brunodet

Una giornata storta
Ti svegli, non hai ancora indossato i pantaloni, e già ti rivolgono la parola. Non solo, ti vengono poste delle domande così decisive da lasciarti inebetito e silente, tanto da farti persino rifiutare un caffè prima di andar via. “Il caffè”, sarebbe meglio dire, dal momento che dopo questo lasciato indietro tutti gli altri li mancherai, come se fino a che non avrai fatto ordine nella tua vita ogni altro appagante pausa alla caffeina ti dovesse essere negata; come se il tempo per pensare fosse giunto a termine e la privazione del piacere di un caffè fosse lì a fartelo presente; come se il tuo rifiuto fosse stato uno sfacciato affronto alle cose della vita che arrivano quando devono arrivare e ora tu fossi tenuto a ripassare la lezione a suon di privazioni durante quella che non è altro che una lunga, intensa, inemendabile giornata storta. Perdi la ragazza; il tram; la patente; e ogni caffè che tenti di avvicinare. Il bancomat ti trattiene la carta per un conto ormai seccato dalla sua fonte paterna, che improvvisamente vuole sapere cosa ha fatto negli ultimi anni, invece di laurearsi, il suo unico figlio, mantenuto a mille euro al mese, senza interessi.
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Jan Ole Gerster ha scritto e diretto una commedia fresca, semplice, ironica e attualissima, estremamente apprezzata in patria dove ha vinto ben sei premi al German Film Award: miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura, miglior attore, miglior attore non protagonista e migliore colonna sonora. L’opera è attuale non solo per il fatto che la cosiddetta “giornata no” è cosa davvero umana, sperimentata da sempre e da chiunque in qualunque momento e indipendentemente dall’estrazione sociale, ma anche perché Oh boy, un caffè a Berlino, tratta specificatamente la “giornata no” di un quasi trentenne del giorno d’oggi, portando in scena precarietà, orizzonti temporali strettissimi, insicurezza, confusioni e domande molto pressanti nella realtà odierna. E lo fa attraverso un bianco e nero suggestivo, una energica colonna sonora jazz e una fotografia ricca di immagini riflesse, quasi a suggerire la presenza di un intrinseco riverbero di opzioni, punti di vista, significati ed emozioni a ogni singolo attimo registrato dalla telecamera.

Prima c’era Michele, poi è venuto Drugo. Ora è il tempo di Niko.
Quel “ho pensato” che il protagonsita, Niko Fischer (Tom Schilling) risponde al padre che finalmente lo interroga su quello che ha fatto negli ultimi anni invece di laurearsi, richiama alla mente il “giro…, vedo gente…, mi muovo…, conosco…, faccio cose…” del giovane Moretti settantottino, ma rimanda anche a quel meraviglioso fannullone novantottino de Il grande Lebowsy. C’è qualcosa di entrambi in Oh boy, un caffè a Berlino, ma allo stesso tempo il film tedesco se ne distanzia, mettendo in scena una condizione esistenziale quotidiana propria dei giovani del nostro tempo. Già, perché mentre l’Ecce bombo è un lungometraggio dedicato a una generazione di delusi giovani isolati, privi tanto di idee quanto di interessi, che devono fare i conti con il fresco fallimento degli ideali rivoluzionari, disfatta emblematicamente rappresentata dal sorgere del sole alle spalle dei ragazzi che hanno atteso l’alba per tutta la notte guardando dalla parte sbagliata; mentre il Drugo è l’antieroe per eccellenza della fine del secolo scorso: post sessantottino ormai pacificato e che “la prende come viene”, pantofolaio anni novanta, asociale e pigro, politicamente disinteressato, con due amici e tre sole passioni, il bowling, la marijuana e il white russian; ebbene, rispetto a questi personaggi, il Niko berlinese è ancora qualcosa di differente: è una sorta di somma di entrambi che ha come esito una nuova condizione propriamente attuale. Magari è una ricezione tutta mia, ma quel “ho pensato” fa di Niko non un esempio negativo, simbolo di un’accidia epocale dei giovani d’oggi – come altri hanno scritto – , bensì lo rende ai miei occhi un ragazzo ben calato nelle e molto sensibile alle energie del suo tempo: elemento instabile di una realtà instabile e per questo, forse, capace di stare in equilibrio e di vivere momenti di felicità, magari proprio perché l’illusione di un mondo migliore lui non l’ha mai vissuta.

Niko non si chiude in casa abbattuto dalle sue sciagure, ma non è neanche un disinteressato cronico in vestaglia come Drugo. Non sbatte la porta in faccia all’invadenza e alla disperazione del suo vicino di casa ficcanaso e non si autocommisera né col suo amico né in un gruppo di autocoscienza che si parla addosso senza, in definitiva, dire o ascoltare nulla davvero, come fanno Michele Apicella (Nanni Moretti) e i suoi amici. E neanche sfoga le sue frustrazioni approfittando di una grande piccola ossessa ragazza bionda spuntata all’improvviso dal suo passato. All’opposto, il protagonista di Oh boy, un caffè a Berlino è calmo, silenzioso, in meditativo ascolto degli altri che incontra. Dà valore alle persone che gli stanno attorno, alle loro storie, ai momenti che vive con loro e agli insegnamenti che ne trae, manifestando un atteggiamento verso la vita confuso, certo, ma consapevole e attento. E in cambio, almeno così è parso a me, la vita gli fa trovare un accendino a portata di mano per ogni sigaretta maneggiata; doni preziosi come il dolce abbraccio di una nonnina sconosciuta o l’ultima intima confidenza d’infanzia di un vecchio testimone della storia del secolo scorso; l’alba di un giorno nuovo, con i cocci alle spalle, le lezioni apprese nelle scarpe, il sole in fronte (non alle spalle!) e un caffè a portata di mano. Certo, Niko sta in giro, vede gente, si muove, conosce e fa cose, ma non è in preda all’ansia e all’insoddisfazione di Michele. Non è in un vuoto cosmico di valori, di entusiasmi, di idee come quello rappresentato da Moretti, dove perfino prendere la decisione di alzarsi dalla sedia del bar e salutare gli amici diventa un compito impossibile e frustrante. D’altro canto, Niko non si accontenta di una pacata routine pressoché antisociale come fa Drugo, pur condividendo con quest’ultimo una quasi improbabile leggerezza, che se non può essere definita propriamente serenità, può essere intesa come una pacatezza che lascia libero il passaggio agli interessi e alle passioni che il vivere quotidiano vorrà portare.

Benvenuti nell’epoca del “si vedrà”
“Ho pensato”, dunque, è una risposta che lascia basiti, certo, ma non nego che mi sia comparso un sorriso complice nell’ascoltare quelle parole. Parole in cui mi sono riconosciuta, parole vere, assertive di una condizione che conosco. Perché è facile dare degli scapestrati disinteressati che vivono alla giornata ai giovani d’oggi, ma seriamente: chi non vive con un po’ di leggerezza e senso dell’avventura un’esistenza difficile, precaria e instabile come, di fatto, è oggi la vita dei più, è destinato alla nevrosi, all’attacco di panico, alla depressione, all’immobilità. Il mercato del lavoro da un lato è impantanato in una rovinosa palude che non sa cosa farsene di tutti i giovani laureati e di molti dei suoi attuali lavoratori; dall’altro richiede persone flessibili e composite quanto a formazione, disponibilità, prospettive. È un’epoca schizofrenica la nostra: divulga ancora vecchi ideali di realizzazione, mentre richiede a chi voglia riuscire nella vita una plasticità operativa, logistica, affettiva inedita, e al tempo stesso addita come inconcludenti bamboccioni svogliati coloro che improvvisano percorsi “altri” che poco o nulla hanno a che vedere con la pianificazione e la sicurezza. Ebbene, tutt’altro che inerti sprovveduti privi di ambizioni, spesso coloro che vivono alla giornata e concludono le frasi dicendo “e vediamo cosa succede” – quasi tutti coloro con cui mi rapporto quotidianamente – sono “dei Niko” che oggi sanno sorridere, distrarsi, reinventarsi, andare avanti lungo la strada della vita nonostante imprevisti, mutamenti, insicurezze, senza la minima garanzia di riuscita, realizzazione, salvezza. Gli altri, spesso, lottano contro l’angoscia delle possibilità infinite di questa fase in cui davvero la libertà sembra essere una condanna capace di togliere il fiato e la felicità pare nient’altro che un miraggio, mentre il rischio di cadere in un caos disilluso “alla Michele” o di abbandonarsi a uno stallo fatto di canne, white russian e bowling “alla Drugo” è sempre pericolosamente a portata di mano.

Oggi non è più il tempo della pianificazione e delle certezze. Oggi la realizzazione personale assomiglia più all’apertura di una nuova via che alla scalata di una via attrezzata di spit, che passa dagli studi, al lavoro, alla casa, alla famiglia, come è stato per le generazioni precedenti. Anzi, per stare al mondo, e tentare di starci bene, oggi bisogna essere dei bravi trapezisti: capaci di saltare nel vuoto, sempre pronti a lasciare l’asta senza alcuna certezza nel fatto di poterla ritrovare. E questo è quello che fa Niko: esce di casa, incontra gente, fa cose, riflette, ma senza essere chiuso in una bolla apatica alla Lebowsky o disillusa alla Ecce bombo. Non si abbatte per tutte le cose andate storte nella sua “giornata no” e nella vita, si lascia bensì sollecitare ed emozionare – facendone tesoro – da tutti gli eventi, le persone e gli imprevisti che gli capitano quotidianamente, senza per questo smettere di agognare la sua tazza di caffè e il suo posto nel mondo, anche se solo per oggi. Domani si vedrà.

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1 commento

  1. Nei giorni in cui gli italiani accorrono nelle sale per checcozalonate e per vedere una storia flebile di una piccola impresa meridionale gira silente e orgoglioso nelle sale un piccolo grande film tedesco, girato in un bianco e nero che fa sempre il suo effetto, riscaldato da una colonna sonora jazz splendida che ricorda i film di Woody Allen degli Anni Ottanta/Novanta e con un attore bravissimo per sottrazione, Tom Schilling. Ha un titolo minimalista e giovanile ( sul genere Jarmush ), “ Oh Boy “ ( citazione di una canzone di Lennon ) ed è una commedia tragica sui comportamenti folli e sconnessi delle persone, nessuno escluso, padri, fidanzate, amici, artisti. Si potrebbe intitolare anche Un giorno a Berlino, perché la storia inizia all’alba e termina con l’inizio del giorno dopo ( quasi un omaggio a certo cinema della Repubblica di Weimar, come “ Berlino, sinfonia d’una grande città “ di W. Ruttmann, 1927 ). Ma qui non ci sono ombre inquietanti, tristi figuri che prevedono la catastrofe, non c’è nemmeno un disagio morale e spirituale. Forse perché andiamo verso la catastrofe senza patemi d’animo. Qui c’è l’attraversamento della città di un giovane senza alcuna qualità ma equilibrato che non comprende e non si oppone agli atteggiamenti ‘ folli ‘ delle persone che incontra o che conosce. Peccato solo che la bella città di Berlino resti sullo sfondo e non può mostrare angoli e scorci importanti.

    Niko Fisher è un giovane studente universitario fuori corso, si mantiene con i soldi che la famiglia gli passa. Ha una fidanzata senza importanza, degli amici che a volte è meglio perderli che trovarli e si trascina nella vita tra solitudine, passeggiate e poco altro ( “ fa cose “ , “ vede persone “ ). E’ combattutto tra la voglia di partecipare alla vita e starsene per conto suo. Ma il mondo che lo circonda non fa molto per lui e lui non riesce ad adattarsi alla “ follia “ controllata degli altri. Non sembra avere desideri tantomeno idee chiare sul suo futuro. Lo seguiamo per un giorno intero, da quando si sveglia a casa della fidanzata e se ne va senza nemmeno darle un bacio con la scusa che ha da fare. In realtà sta solo traslocando nella nuova casa, ma se la prende con comodo, in due settimane ha portato solo alcuni scatoloni che non servono certo per andarci a vivere. Conosce un inquilino del palazzo impiccione e sconsolato, litiga in un bar con la ragazza al banco per un caffè che costa più di tre euro, prende i soldi al bancomat ma gli mangia la carta, deve parlare con uno psicologo per poter riavere la patente ritirata dalla polizia perché era in stato fermato in leggero stato di ubriachezza. Ma tutti sembrano vivere in una lucida follia e il giovane, a quanto pare, reagisce mettendosi alla disperata ricerca di un caffè e di avere dei soldi dal padre. Ma entrambe le cose sembrano complicatissime. La seconda soprattutto perché il genitore ha scoperto che il figlio non frequenta più l’università da due anni e ha deciso di tagliargli i viveri. Ma la giornata è lunga e incontra un amico attore che gli parla con le frasi di Taxi Driver, in un bar viene avvicinato da una ragazza con cui andava alle elementari, e lo mette di fronte alle ferite emotive che le ha inflitto all’epoca perché lei era grassa, adesso è dimagrita, fa l’attrice in teatrini off e lo invita ad uno spettacolo per quella sera. E nel cesso del teatrino off lei cerca di avere un rapporto con lui ma quando il ragazzo non sembra interessato lei lo minaccia e lo aggredisce. In un bar notturno Niko si ritrova con un vecchio che sembra sproloquiare e invece è un testimone della persecuzione degli Ebrei: il passato è ancora presente nella Germania contemporanea… Insomma scene di ordinaria follia che follia non è più.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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