Le teste
Di Sergio La Chiusa
( tratto da ‘ Il dormitorio di Sequals’)
Domenica un ozio nervoso opprimeva le camerate. Allenati com’erano a rispondere a comandi e istruzioni circostanziate, persino per allacciarsi le scarpe, lasciati a se stessi sembravano persi. Alcuni, in tuta da ginnastica, se ne stavano stesi sulle brande, concentrati, come assorti in complicati calcoli mentali: di tanto in tanto scattavano a sedere e sentenziavano: “Cento all’alba!” “Centocinquanta!” “Duecento!” “Impazzire!” “Impazzire!”. Poi ricadevano esausti. Altri per passare il tempo annusavano meticolosi le calze di lana arrotolate dentro gli anfibi. Altri ordinavano i propri beni, rovistavano negli armadietti, traslocavano mutande da un ripiano all’altro. Altri ancora vagavano insensati nel corridoio: si sentiva l’andare e venire cupo delle ciabatte, come di vecchi pensionati, anche se avevano diciotto, diciannove anni al massimo.
Bordini, insaccato tra le lenzuola, liberava le potenze creative. Aveva strappato da una rivista una riproduzione della caduta dei ciechi di Bruegel e l’aveva attaccata con lo scotch al materasso di Lamanna, che occupava il letto sopra il suo, così ora poteva comodamente lavorare da sdraiato copiando con calma il suo modello. Anche se non era semplice per via degli scossoni improvvisi di Lamanna, che oggi era molto agitato e ogni tre, quattro minuti era preso da una crisi, saltava sul letto e ordinava: “Mutismo e rassegnazione! Mutismo e rassegnazione!”, e poi si ributtava indietro soddisfatto perché in quel momento nessuno stava parlando, e tutti sembravano in effetti piuttosto rassegnati. Resistendo alle scosse, Bordini era riuscito a riprodurre con cura i corpi di tutti i ciechi senza teste e a tratteggiare il paesaggio campagnolo, e non si era nemmeno limitato a un arido lavoro di copista. Al posto della chiesa con il tetto a cuspide e il campanile slanciato, sullo sfondo, aveva rappresentato con poche linee esemplari la caserma di Sequals, un cubo isolato, senza aperture, senza rapporti con il mondo, e in cima ci aveva pure messo l’immancabile tricolore che pendeva dalla sua asticella come un cencio moscio. I vecchi panni da mendicanti dei ciechi, invece, li aveva sostituiti con mimetiche nuove e le scarpe di pezza con solidi anfibi militari. Adesso si lambiccava sulle teste mancanti. Anche se l’ultima crisi di Lamanna non accennava a calmarsi: il letto traballava con particolare insistenza, emetteva rumori sinistri, e ora sembrava persino sollevarsi pericolosamente su un lato. Che combinava Lamanna? Bordini aveva levato gli occhi dai ciechi. La testa capovolta di Lamanna, lunga e stretta, rossa d’eccitazione, si stava insinuando sotto il telaio del letto a castello.
“L’Artista! L’Artista!” si era messo a urlare “L’Artista! Guardate l’Artista!”, la testa si era allungata tutt’intera sopra i ciechi e continuava a mobilitare i commilitoni con la sua vocina stridula. Le cose si mettevano male per Bordini. Bastava che un imbecille come Lamanna lanciasse un’iniziativa perché l’intero dormitorio si scuotesse dal torpore, e allora tutti si sollevavano dall’ozio sfregandosi le mani per la novità. Chi era la vittima? Bordini? Già erano accorsi in quattro, cinque, sei, sette, saltavano dai materassi e si stringevano intorno all’impalcatura metallica del letto, chiudevano ogni scappatoia, si curvavano per curiosare, accorrevano sempre più numerosi ciabattando scatenati dal corridoio, e ormai Bordini era letteralmente accerchiato da tutte quelle teste rozze, grossolane, un campionario di teste semilavorate che sembravano estratte di peso dalla sarabanda di Bruegel di Detroit, il suonatore di zampogna e i sovreccitati danzatori, solo espropriati delle rispettive dame e senza tutti quei sessi protuberanti che mettevano a dura prova le cuciture dei calzoni: e per questo più torvi, più tetri, più pericolosi. “E le teste? Non le sai fare le teste?”, avevano cominciato a pretendere ritratti singoli e di gruppo da mandare alle mamme e alle presunte fidanzate, le estraevano dai portafogli, le fidanzate formato tessera, ne approfittavano per esibirle, si spintonavano l’un l’altro per avere la precedenza, e intanto le mani s’intromettevano, si contendevano i ciechi, sporcavano la carta, ci lasciavano impronte… le dame! ci volevano le dame per calmarli! che se li venissero a prendere! che irrompessero tutte insieme nella camerata e se li portassero via! Bordini le invocava inutilmente, le dame di Bruegel, massaie sempliciotte, odorose di rigovernatura, cavoli lessi, verze, agli, cipolle, imbacuccate in gonnone monacali e immacolate cuffie da cuoche, e tuttavia irresistibili se solo si lanciavano nel vortice delle danze nuziali con i loro passi concitati, le occhiate vivaci, la voglia di vivere che prorompeva dalle poppe, e i maschi che non capivano più nulla e si lanciavano anche loro, i volti inebetiti, i ventri saltellanti, trascinati nel moto impetuoso dei grembiali! Ci volevano loro, insomma! Che se li portassero via! Indietro! Nelle loro storie private! Un ballo liberatorio e poi tutti a casa! Accuditi da mamme e fidanzate!
Quando infine ci aveva pensato la campanella del rancio a sedarli e disperderli, Bordini, solo nel silenzio della camerata, tornava a occuparsi delle teste mancanti. Dopo scrupolose osservazioni era arrivato a scegliere i sei crani che sembravano più interessanti. I più adatti alla caduta. I prescelti, loro ancora non lo sapevano, erano, in rigoroso ordine di precipizio, dal primo capitombolato all’ultimo: Lamanna, Stampelli, Tortelli, Tartaglia, Rogna, Zampogna. Lamanna era già piombato nel dirupo. Stampelli, senza più un solido appoggio, brancicava con una mano nel vuoto. Gli altri, invece, non sospettavano nulla e marciavano in colonna nella loro ottusa cecità militare, ancora all’oscuro del loro destino di ospedalizzati.
Ma ora le teste! Mancavano solo le teste! Mentre loro si rimpinzavano in sala mensa, Bordini si accaniva sulla carta con la tenacia del vendicatore. Aveva cercato di riprodurre su un secondo foglio i tratti somatici dei prescelti accentuandone i difetti, e infine con una precisa operazione di chirurgia plastica, un lavoro di forbici e vinavil, aveva installato i crani provvisti di regolari berretti verde oliva sui corpi dei ciechi di Bruegel. Sola eccezione: Lamanna. Lui la stupida l’aveva persa nella caduta. Anzi, Bordini gli aveva persino scoperchiato con un certo minuzioso godimento il cranio da cui sgusciava invece della labirintica massa cerebrale una semplice effervescenza, un gas, un pulviscolo di puntini neri. Zampogna, ultimo, sorrideva con gli occhi vacui, ancora ombreggiati dalla visiera protettiva della stupida.
L’opera, in un primo momento, complice la mezza luce della camerata e l’entusiasmo della creazione, era sembrata rimarchevole, destinata a occupare un posto non del tutto trascurabile nella Storia dell’Arte Occidentale del XX secolo. Si collocava tra Otto Dix e Georg Grosz. Nel cuore dell’avanguardia e dell’Europa. Il ritardo di cinquant’anni era una questione secondaria. Bordini si vedeva correre infervorato per le strade di Monaco con la sua cartella di disegni e schizzi preparatori sotto braccio. “Aspettatemi!” urlava “Aspettatemi! Anch’io sono un artista degenerato! Ho tutte le carte in regola! Anarchico! Anti-militarista! Mentalmente deviato! Perché m’avete escluso, imbecilli?”, ma ecco che superava con slancio la coda di ottusi visitatori, si faceva largo tra la folla, passava davanti alle teste mortifere della delegazione ufficiale, spintonava via con una manata il piccolo corpo poliomielitico e repellente di Goebbels e con un colpo secco di martello inchiodava al muro il vaticinio delle sue “Teste” proverbiali: “Specchiatevi, dementi!” diceva ai visitatori additando con mano tremante i ciechi militi, mentre Goebbels, che evidentemente si era specchiato in Lamanna, si contorceva sul pavimento in preda a un’improvvisa crisi di svelamento e si rimpiccioliva a vista d’occhio trascinandosi per la sala degli espressionisti con il tipico movimento vermicolare dei capitolati, smascherati e ridotti alla loro natura ordinaria, sempre più minuscolo, sempre più inequivocabilmente verme, sino a che non veniva calpestato dai suoi stessi sottoposti.
A questo punto si sentì un peto clamoroso provenire dal corridoio. Qualcuno stava tornando. Uno dei prescelti? Sospettava qualcosa? Tornava a vedere l’opera? Lamanna, per esempio! Si sarebbe riconosciuto, la testa scoperchiata, spudoratamente vuota, e magari se la sarebbe pure presa, avrebbe spiattellato tutto al capitano! Bisognava nascondere i ciechi! ma invece di muoversi, Bordini, come intrappolato nelle coperte, rimboccate secondo i severi regolamenti militari, cercava le ossature metalliche dei venti letti a castello che si andavano scomponendo nell’oscurità della camerata: il marrone uniforme delle coperte si stava spandendo dappertutto, si allargava come una malattia insanabile, contaminava, complottava con la luce torbida della sera, rimestava tutte le cose in un’unica massa incolore. Ridimensionato, neutralizzato dalle coperte nelle quali lui stesso si andava perdendo, sperava almeno di vedere le sue opere dissacranti bruciare nelle latrine: le teste sproporzionate che si accartocciavano, crepitavano, alimentavano un minimo incendio e si riducevano in cenere sotto gli occhi illuminati dei commilitoni e del capitano, che infine tirava la catenella dello sciacquone con un gesto di sufficienza, e i pezzetti inceneriti delle teste vorticavano, risucchiati con un ultimo scroscio nelle profonde tubature della turca: destino di tutte le opere d’ingegno. Qualcuno intanto era entrato e si stava raspando rumorosamente la testa. Senza sconvolgere l’ordine del letto, sporgendosi con movimenti cauti, Bordini aveva nascosto i suoi ciechi nell’armadio. Mentre chiudeva lo sportello, lo vedeva di schiena, nella penombra, il raspatore, che ora era passato alle natiche e ci dava dentro con tutte e due le mani. Furibondo. Come lottando con un’intera colonia d’invasori. Ma Bordini non si preoccupava. La sua ribellione era al sicuro, conservata nel ripiano dei suoi oggetti sacri. Accanto al barattolo delle cipolline sottaceto.
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Fonti iconografiche: La parabola dei ciechi e Danza di contadini di Pieter Bruegel il Vecchio.
Un brano molto bello, fluente a livello narrativo e di alto profilo a livello non solo linguistico ma anche contenutistico – non è il solito esercizio di stile che troppo spesso si legge in rete. NI purtroppo non pubblica spesso posts così notevoli. Può darsi che trovarne o produrne richieda molto sforzo. In ogni caso, anche i precedenti scritti di Sergio La Chiusa pubblicati su questo sito erano di alta qualità.
Il fatto che non si trovi ancora in libreria un libro del La Chiusa la dice lunga sui principi che regolano la pubblicabilità nell’editoria italiana.
Concordo con Lorenzo. La contro prova è fornita da quello che, invece, si trova in libreria.
Questo testo è corposo, e molto bello, come gran parte della produzione di Sergio che ho avuto modo di leggere tempo fa, anche qui su NI. E’ un peccato non poterlo leggere più spesso.
Testo molto bello, e si ha voglia di leggerne ancora. Credo che valga la pena di leggere più spesso estratti di questo lavoro di Sergio La Chiusa. Sergio, hai voglia di dircene qualcosa?
“Il dormitorio di Sequals” è ancora un cantiere, Andrea. Meglio non sbilanciarsi troppo. Ma, per riprendere il recente post di Giorgio, e citando un poeta contemporaneo, potrebbe trattarsi del “Bildungsroman di un disadattato”:-)
Davvero molto bello, sia linguisticamente che da un punto di vista narrativo. Non conoscevo Sergio La Chiusa e spero che presto potrà vedere riconosciuto il suo talento.