Ricerca nella scrittura: alcune riflessioni sulla c.d. scrittura di ricerca

di Giulio Marzaioli

Quando si legge in merito alla c.d. scrittura di ricerca, l’unica costante sembra essere l’impossibilità di addivenire ad una definizione chiara e condivisa.

C’è chi intende per ricerca qualsiasi percorso di approfondimento e mutamento di un’esperienza letteraria, e allora potrebbe escludersi da tale ambito l’opera di chi non sembra modificare mai il proprio approccio alla stesura del testo. Ancora, chi riduce al criterio di ”sperimentazione” il segno distintivo, senza considerare che nel metodo sperimentale la conferma o falsificazione di un’ipotesi deve ricondurre alla formulazione di una legge; risultato, questo, che non solo avviene raramente (trovandoci spesso di fronte a scritture che, al contrario, sembrano voler dimostrare teorie già preventivamente asserite), ma c’è da augurarsi che non avvenga troppo spesso, dovendosi altrimenti richiudere l’arte all’interno di gabbie concettuali.

C’è poi chi, nell’ambito del panorama italico, fa derivare tutto da questo o quel gruppo dell’avanguardia, senza riconoscere che molte delle odierne scritture c.d. di ricerca hanno attinto poco o nulla da questo o da quel gruppo. Altri ancora espandono genericamente la definizione a chiunque non pratichi strettamente endecasillabi o novenari oppure considerano “di ricerca” quelle scritture che si oppongono al c.d. mainstream, non valutando, però, la frammentazione delle esperienze e il disorientamento prodotto dalla ulteriore individuazione di categorie quali “mercato” e, appunto, “mainstream”. Infine (ma potremmo continuare nell’elencazione) c’è chi identifica la ricerca con l’adozione di questo o quel metodo/procedimento di scrittura, trascurando il fatto che questo o quel metodo (o procedimento) di scrittura, al pari del foglio o della tastiera, sono da ritenere semplici strumenti e l’utilizzo di qualsiasi strumento può essere, di per sé, privo di rilievo.

Siamo di nuovo al punto di partenza. Bisognerebbe individuare un criterio ulteriore, prescindendo da categorie di sorta. Proprio l’impossibile categorizzazione potrebbe soccorrere come spia? In tal senso, tuttavia, anche l’indeterminatezza e la semplice commistione potrebbe essere considerata un esempio di ricerca, senza tuttavia scartare rispetto a quanto già noto. Il già noto, appunto. Forse la novità, l’innovazione può essere configurabile come segno distintivo? Il problema si presenta nell’individuazione del termine di riferimento, dal momento che risulta arduo comprendere rispetto a quale/i tradizione/i si innoverebbe. E, anche in tal caso, è del tutto discutibile l’atteggiamento di chi rileva nell’opposizione alla tradizione l’elemento connotativo della ricerca, dal momento che una scrittura è prima di tutto esperienza e poi strumento di conoscenza e non si può quindi prescindere, quantomeno, da una propria tradizione.

Potremmo allora fare assurgere a sistema l’insieme dei citati criteri e filtrare attraverso il retino del sistema le varie proposte testuali.

Oppure si può tentare la più semplice via di fuga, rifacendosi alla radice etimologica del verbo “ricercare”. Se escludiamo il prefisso rafforzativo, cercare deriva dal latino circum (attorno) da cui il tardo latino circare (andare attorno). “Andare attorno”, da intendersi come esplorazione o come accerchiamento. Nell’uno e nell’altro caso manca una traiettoria diretta verso la meta o verso la preda e ciò per la ponderazione di un rischio che, sotto diversa veste, riguarda entrambi i movimenti.

Dall’individuazione di un rischio, di un margine di azzardo e quindi della possibilità di errore potrebbe ripartire un’analisi che, considerando il testo come una linea di attraversamento, si troverebbe dinnanzi all’esigenza di formulare nuove riflessioni e prospettive inedite, giungendo per ipotesi alla conclusione che, a fronte dell’esigenza di esplorare (o accerchiare) un testo per valutare quanta “ricerca” in esso si annidi, potrebbe essere del tutto indifferente sancire una definizione.

*

Print Friendly, PDF & Email

91 Commenti

  1. Basterebbe che chi pratica poesia di ricerca non immolasse la qualità dei testi e la qualità dei poeti e/o scrittori “canonizzati” sul sacro altare del progetto di poetica costruito gelidamente a tavolino. Basterebbe anche che non praticasse la pessima abitudine della conventio ad excludendum -sarebbe un atteggiamento civile, considerando che molto neoversoliberismo è paccottiglia.

    • “considerando che molto neoversoliberismo è paccottiglia.”

      in guardia D.V., con questa si ripiomba nella stessa identicissima spirale (erronea) da cui ti sta a cuore preservarti.
      ok, non expedit immolare la qualità(/mancanza di-) dei testi della c.d.scr.d.ric. ai grandiori progetti (e)scatologici e ci siamo.
      ma finché non si ha un bel ‘dio’ di criterio per disinnescare anche quell’altra mondiglia NON di ricerca (gradissimo iddio quanta ce n’è)diciamo né più né meno i vuoti pneumatici.
      per dire: attenuanti non ce ne sono; lo schifo resta schifo con o senza filiazione; e quella considerazione lì non è poi così pertinente, ecco.

  2. bravo Ventre: puntuale e preciso, sottoscrivo. aggiungo che per quanto sia sempre istruttivo riflettere sull’origine delle parole, l’Aquinate ammoniva che aliud est etymologia nominis et aliud est significatio – quindi per il presente dibattito conta poco o nulla sapere che ‘ricerca’ viene dal tardo latino, etc. etc. (e lo dico da cultore di lingue classiche!), conta invece stabilire che uso ne fanno, che valore vi annettono, coloro che dietro quella bandiera si radunano. [a me nonostante tutto continua a sembrare che lo usino come sinonimo di ‘avanguardia’, termine a sua volta sentito come forse troppo storicamente connotato (e metafora militare, visto che siamo in clima etimologizzante). e non vedo cosa ci sia di male!] – comunque viva tutti gl’incentivi possibili alla ricerca, in poesia come in accademia.

  3. Sempre tenendo presente tutte le varie e possibili accezioni della definizione, credo che, al giorno d’oggi, la scrittura di ricerca (più nello specifico: la poesia di ricerca, per quanto ultimamente sembra ci sia una riluttanza diffusa a chiamarla così) rischi troppo spesso di arenarsi su quel limite che dovrebbe esserle meno proprio: che è quello del «circare», per l’appunto, del continuare a girare attorno all’oggetto, che di per sé va bene, anzi benissimo, ma non quando la ricerca si traduce tempestivamente nella sua realizzazione, in una «scrittura a perdere», incapace di accettare il silenzio – che pure dovrebbe essere parte di qualsiasi tentativo serio di analisi del reale.
    Amelia Rosselli, che si definiva poeta di ricerca, quando non aveva niente di nuovo da dire semplicemente non scriveva. Mi sembra invece che la scrittura di ricerca attuale – passando ora a una delle specifiche accezioni riportate da Marzaioli, e cioè quella che delimita una certa area e direzione contemporanea italiana, con tanto di satelliti e comete in rotta di collisione – stia perdendo (per fortuna non in tutti) quella precisa tensione alla pazienza, all’astensione, che fino a qualche tempo fa era preservata, per esempio, attraverso il concetto di ispirazione. L’insistenza su scritture procedurali, automatiche, su googlism e cut-up (di un certo tipo) non può che portare a un’iperproduzione autoreferenziale che è inquietante tanto quanto quella dei piccoli forum di “poetese” appassionato.
    Ora: è scrittura di ricerca una scrittura che non sa porre limiti al suo compimento e esaurimento materiale, che produce ancor prima di pensare? E, su un altro versante, più opinabile, è scrittura di ricerca una scrittura deresponsabilizzata, “areferenziale”, che non miri più nemmeno a una mimesi distruttiva (come ogni tanto vorrebbe poter fare), ma solo all’esaurimento di se stessa?

  4. Molto d’accordo con quanto scrive Giulio. Questa impossibilità di definizione e l’inutilità dello sforzo di inserire la c.d. scrittura di ricerca in una qualche categoria, indicano, per ora, le sottrazioni più utili per orientarsi in un ambiente privo di puntatori (riferimenti unici). Mi viene in mente l’immagine di un open space nel quale costruire di volta in volta luoghi di senso, dispositivi mobili e leggeri. Mi viene in mente qualcosa di portatile e vuoto.
    Penso che in tali condizioni risulti del tutto inutile la ricerca di costanti sulle quali organizzare una qualche forma a funzione tassonomica, cioè un modello al quale riferirsi per riconoscere e classificare un “testo di ricerca”.
    Viene abbastanza immediato accostare al termine “ricerca” un significato di “progresso”, “evoluzione”, “movimento in avanti”, presupponendo un punto di partenza e un punto di arrivo (o a cui tendere), una direzione, come se l’esperienza e la conoscenza – che l’azione della scrittura mette in moto – si risolvessero percorrendo un vettore. Non ci sarebbe in questo caso alcuna esplorazione.
    Non riesco ad immaginare alcun punto avanzato, davanti a qualcosa che sta in retroguardia; penso invece a una condizione di spostamento, a un attitudine all’ubiquità, e a tali condizioni non concorrono né lo stile né la poetica. Concorrono piuttosto tecnologia e metodi/procedimenti della parola, che sono la scrittura e i suoi vari attrezzi (questi ultimi spesso fraintesi o confusi con il risultato [ahimè] atteso). A volte, felicemente, concorrono anche linguaggi e dimensioni ulteriori, come la fotografia, il segno grafico, l’immagine in movimento, il suono senza la parola, l’architettura, la scultura, l’installazione… a patto che la scrittura sia disponibile a un’ulteriore sottrazione: la perdita della dominanza. In questo caso non dovremmo più ravvisare la funzione didascalica di una forma rispetto a un’altra (a meno che non sia necessaria alla coerenza del lavoro testuale, cioè alla sua possibilità di costruzione di senso), né attribuire a questi linguaggi “altri” un mero potenziamento d’effetto, spesso (e sempre ahimè) atteso.
    Penso che sia molto più interessante e utile alla ricerca ricorrere a ulteriori procedimenti di sottrazione coi quali assottigliare i confini disciplinari, non tanto per connotare un testo fornendolo di una qualità “inter” o “multi”, piuttosto per tentare almeno un abbozzo di una grammatica che si organizza sull’instabilità delle corrispondenze che plasticamente si riorganizzano come risultato (non atteso) ma dotato di coerenza.
    In tutto ciò intravedo la “linea di attraversamento” suggerita da Giulio, che nella propria traiettoria scarta l’unidimensionalità del vettore.

  5. Proposta di glossario

    1 – RICERCA: ricerca pianificata o indagini critiche miranti ad acquisire nuove conoscenze, da utilizzare per mettere a punto nuove opere e nuovi processi compositivi. Nello specifico:
    a) ricerca fondamentale: lavori sperimentali o teorici svolti soprattutto per acquisire nuove conoscenze sui fondamenti di un campo artistico specifico, senza che siano previste applicazioni o utilizzazioni pratiche dirette;
    b) innovazione del processo: l’applicazione di un metodo compositivo nuovo o sensibilmente migliorato (inclusi cambiamenti significativi nelle tecniche). Non costituiscono innovazione cambiamenti o miglioramenti minori, la produzione personalizzata sulla base di precedenti miglioramenti, le normali modifiche di procedimenti altrui;
    c) innovazione organizzativa: l’applicazione di un nuovo metodo organizzativo nelle pratiche distributive dell’opera.

    2 – SPERIMENTAZIONE: acquisizione, combinazione, strutturazione e utilizzo delle conoscenze e capacità esistenti allo scopo di produrre bozze, work in progress o progetti per opere o processi compositivi non ancora compiuti. Può trattarsi anche di altre attività destinate alla definizione concettuale, alla pianificazione e alla documentazione concernenti nuove opere e nuovi processi compositivi. Le attività di sperimentazione non sono destinate a uso “commerciale”. Rientra nella sperimentazione la realizzazione di “prototipi” utilizzabili come base per opere future. La sperimentazione non comprende tuttavia le modifiche di routine o le modifiche periodiche apportate a opere o processi compositivi, anche quando tali modifiche rappresentino miglioramenti.

    3 – GRUPPO DI RICERCA (O LABORATORIO): soggetto collettivo la cui finalità principale consiste nello svolgere attività di ricerca o di sperimentazione e nel diffonderne i risultati, mediante incontri pubblici o la pubblicazione. Il Gruppo si costituisce per affinità.

    4 – RICERCATORI: soggetti impegnati nella concezione o nella creazione di nuove opere, processi, metodi e sistemi nuovi e nella gestione dei progetti interessati. Più specificatamente, le persone che svolgono attività di ricerca e sperimentazione indipendentemente dal loro riconoscimento o dalla loro partecipazione a gruppi o cordate.

    X – AVANGUARDIA: ricerca e sperimentazione in chiave politica.

    [Questo è solo un mio Détournement della nozione di ricerca/sperimentazione secondo la Commissione Europea]

  6. Riflettendo in merito ai precedenti commenti, viene in mente un’ulteriore considerazione relativamente alle definizioni “di genere”. Concordo su quanto scrive Mariangela Guatteri in merito al fatto che la presunta “ricerca” di una scrittura non sta nel fine (o in un fine), bensì nell’approccio, nel predisporsi alla scrittura (di qui l’accenno al rischio, che si ritiene presupposto al gesto). In tal senso, non sempre l’approccio è il medesimo, e non potrebbe essere altrimenti. Non è quindi scontato che qualsiasi opera di un autore che si auto-definisce di ricerca in sé rechi una componente di rischio e un percorso di esplorazione. D’altronde, ricerca non è sinonimo di qualità, e quindi sarebbe bene rimettere ad altri la valutazione e la definizione delle proprie opere. Forse manca un’opera di esplorazione dall’esterno – rispetto alle c.d. opere di ricerca – che faccia affiorare effettivamente quanta esplorazione interna sia condotta entro quelle stesse opere. Di qui l’impressione (erronea) di una compagine omogenea e unitaria in ragione di riferimenti a spicchi di un panorama in realtà più ampio e frastagliato. È proprio nel tentativo di rimettere in discussione questa presunta omogeneità e quindi di andare a monte delle categorie e della suddivisione in comparti che, in questa sede, si solleva qualche dubbio sulla lettura che spesso si dà dei c.d. autori di ricerca. Forse si dovrebbe, do-vremmo, abbandonare anche questa griglia di appartenenza, aprendo ad argomentazioni ulteriori e sostenendo, ad esempio, dove e perché alcuni percorsi si considerano non interessanti, altri interessanti ed “esplorativi”, e altri ancora ugualmente interessanti e “non esplorativi”.

  7. La mia impressione è che c’è avanguardia/neo/post/ecc/ quando si ha ben chiaro chi è il referente antagonista (la società dei consumi, la reificazione, il passatismo ecc), mentre la ricerca è intrinseca in ogni poetica e consiste nell’approfondire-distorcere la tradizione che si è scelto (e che ci ha scelto).
    L’avanguardia /neo/post/ecc., inoltre, crea steccati, barricate pericolose, tende per principio a un isolamento metodologico; la ricerca (così come l’ho indicata sopra) è invece inclusiva, si confronta, lascia aperta costantemente l’accoglienza della parola altrui.

  8. Caro Stefano, non tutte le scritture approfondiscono o distorcono una tradizione. Nè, a mio avviso, si può considerare in ogni percorso un approccio, mi ripeto, “esplorativo”, che spesso non può essere spiegato con argomentazioni note né limitandosi all’ambito della scrittura. Concordo sul fatto che nella definizione (e soprattutto nella definizione errata) si annidi il pericolo della barricata, ma non possiamo neanche prescindere dal fatto che ci sono differenti approcci al “fare scrittura”, sia pure, in alcuni casi, difficilmente circoscrivibili all’interno di un termine. E’ proprio questa, a mio avviso, la questione. Sempre ragionando per ipotesi, forse si dovrebbe ripartire dalla funzione-testo. Sappiamo che esistono diversi “ambienti” di scrittura, ma delinearne i tratti secondo le consuete categorie mi pare che inizi ad essere fuorviante.

  9. Caro Giulio, credo che l’atteggiamento aperto, fenomenologico di Anceschi valga ancora come esempio per rapportarci alle differenti ‘approcci di fare scrittura’, come tu dici (pensa alla densa dialettica tra il verri e malebolge, per esempio).
    Sulla/sulle tradizioni, sarei prudente: nella misura in cui entra la temporalità nel testo (può non entrarci?), essa porta dentro anche la/le culture di appartenenza, non soltanto la memoria esistenziale e le tracce naturali. Semmai, e qui ci sarebbe un’altra questione da aprire, capita che molti autori non siano consapevoli delle loro inevitabile radici (leggi: catene che la tradizione consegna). Per questo non soffrono dell’angoscia dell’influenza di cui parlò Bloom molti anni fa, e fanno magari gli spavaldi, credendo di camminare sulla propria ombra.

  10. Scrivo (infatti) nel mio intervento: “E, anche in tal caso, è del tutto discutibile l’atteggiamento di chi rileva nell’opposizione alla tradizione l’elemento connotativo della ricerca […]”.

  11. Mi ritrovo perfettamente d’accordo con Stefano Guglielmin. Una scrittura che rifiuti qualsiasi rapporto con la tradizione, ignorandola deliberatamente, brucia le tappe e, anziché porsi in avanti o in parallelo, rimane auto-referenziale, perché autoreferenziali sono i mezzi. Più in generale, non capisco il senso di una ricerca fine a se stessa, che non nasca come bisogno di confrontarsi o staccarsi da ciò che è già noto, da un fastidio diffuso, ma solo da un desiderio del “nuovo”, la cui componente meramente ludica o speculativa rischia di portare pressoché a niente.
    Insomma, anche una ricerca che parta dalla scrittura ma vada a toccare altri ambiti si pone in dialettica rispetto a una “tradizione” che, in questo caso, è rappresentata dalla tendenza della scrittura (nostrana) a restare separata dal resto delle arti. Ma aprirsi ad altri mezzi o procedure dovrebbe voler suggerire che quelli vecchi non bastano o non funzionano più, denunciare un’insofferenza o comunque un problema di fondo: se manca la coscienza di un problema (e quindi l’esigenza di un distacco) vuol dire fare scrittura di ricerca solo per sentirsi “al passo coi tempi”, e non per un’esigenza vera.

    • Mi pare che la riflessione di Giulio Marzaioli tenti appunto di sciogliere la fatale dualità tra tradizione e ricerca. Che tende a modellare altre annose, e per la verità un po’ stanche, opposizioni: quella tra vecchio e nuovo, per es., quella tra significato e significante, e così via. Esiste, però, una illustre tradizione della ricerca. Esistono originalissimi vecchi e nuove noie, esistono linguaggi poetici che vanno al di là dell’ossessione semantica. Smontare ed osservare i componenti in gioco è utile, permette di valutare le differenze. (Differenze: di cos’altro è fatta la letteratura?)

      In inglese, per esempio, non esiste un equivalente diretto di “scrittura di ricerca”. Un amico mi ricorda che un importante poet-critic americano propone, nel titolo di un suo lavoro recente, l’espressione “difficult poem”, che nella sua semplicità consente di spostare l’attenzione dalle gerarchie e dalle ascendenze costruite linearmente alla testualità e alla ricezione dei testi. (E’ una espressione che fa il paio, a mio avviso, con “long poem”, il sintagma che da qualche anno in qua è venuto a dire quel che un tempo dicevano poema epico e poema narrativo. In entrambi i casi il passaggio linguistico potrebbe essere il sintomo della fine del rapporto tra certe scritture e certe ideologie unificanti. Tutto da dimostrare, la butto lì come un’idea da investigare.)

      Al difficile di Bernstein e al rischio di Marzaioli aggiungerei un’altra idea: la refrattarietà del testo a rendersi subito disponibile, ovvero la sua opacità, il fare resistenza a chi legge/osserva/ascolta, costringendolo/a a ri-adattarsi, a ri-negoaziare le proprie aspettative. Certo, così, come dice brillantemente Mariangela Guatteri, perde dominanza, cede un po’ o molto del proprio antico potere ipnotico, del consueto controllo del lettore, qualcuno direbbe che rinuncia alla “bellezza”. Perché no? Troppo spesso, in fondo, la nostalgia della “bellezza” è nostalgia di potenza, di autorità.

      [torno più tardi]

    • @ Burratti

      Sul problema del limite.

      In area “di ricerca” credo che il limite non stia nella presenza o assenza di ispirazione – come ad esempio, come dici, per Rosselli – ma nella “responsabilità” individuale di ogni singolo autore (per cui egli stesso si mette in gioco) e nell’euristica del suo itinerario di scrittura. E non credo si possa dare una poesia che produca prima di pensare, forse per gli scrittori che si dicono di ricerca il “pensiero” – come tu dici – è solamente spostato su un diverso piano, ad esempio dietro e sotto al testo. oppure davanti ad esso.

      Sottoscrivo invece questo tuo secondo commento, che mi sembra lapalissiano.
      Per chi la vuole seguire (in positivo o in negativo) c’è poi comunque anche una “tradizione dell’avanguardia”.

      Più in generale, leggendo dall’esterno e da molto lontano, questo thread, mi sembra di assistere a un conflitto piuttosto consueto e sterile.

      Forse, ricorrendo a un paio di similitudini, lirica e ricerca sono soltanto due lati complementari dello stesso territorio. jin e yang. Per cui qualsiasi tentativo di annullare l’altro appare illogico in partenza.

      il lirico e l’autore di ricerca, semplicemente attivano e chiedono di attivare a chi legge aree in parte diverse (ma non per questo competitive) del cervello, che è quanto ciascuno di loro ha imparato a fare, è interessato a fare o, più banalmente, è in grado di fare.

      Uma saudação,
      MS

  12. ma certo che non si può raggiungere una definizione chiara e condivisa, giacchè ogni ricerca è ricerca di un qualcosa, e questo qualcosa determina le caratteristiche di quella ricerca.

    cercare il sacro graal è diverso da cercare le chiavi di casa, cercare il tempo perduto è diverso da cercare un attimo di tranquillità.

  13. Caro Giulio,

    penso che sia difficile non essere d’accordo con gran parte del tuo intervento, che ci ricorda giustamente che una categoria usata astrattamente per parlare di letteratura non ci offre alcun vantaggio. Tu hai mostrato come l’uso astratto di una categoria come “scrittura di ricerca” sia abbastanza sterile, e così potremmo dire di una gran quantità di formule, tipo “la poesia di qualità”, la “poesia che esprime i sentimenti”, la “poesia che parla a tutti”, ecc. Il difficile per tutti noi, infatti, quando ci avventuriamo sul terreno della critica di poesia, è mettere in rapporto certi testi con il mondo che ci circonda. Senza introdurre queste due realtà, dei testi determinati e un determinato mondo, qualsiasi categoria è poco più che una vaga segnalazione.

  14. Ho dimenticato una cosa. Confesso di non aver capito i due paragrafi finali. Li ho trovati oscuri. Puoi esplicitare meglio il tuo pensiero?

  15. Caro Andrea,
    in merito al penultimo paragrafo mi “traduco” rubando dall’intervento d Mariangela Guatteri: “Non riesco ad immaginare alcun punto avanzato, davanti a qualcosa che sta in retroguardia; penso invece a una condizione di spostamento, a un attitudine all’ubiquità, e a tali condizioni non concorrono né lo stile né la poetica”; quanto all’ultimo, proseguo rubando, questa volta a Renata Morresi: “fare resistenza a chi legge/osserva/ascolta, costringendolo/a a ri-adattarsi, a ri-negoaziare le proprie aspettative”. In comune credo che si possa individuare un terreno di ignoto, di incertezza, di assenza di pre-determinazione. Non necessariamente, tornando su precedenti riflessioni, si deve percepire un’opposizione nel momento in cui ci si muove su linee non conosciute; nè, peraltro, si può parlare di ricerca – a mio avviso – laddove si assumono pratiche di scrittura considerate “di ricerca” senza sfuggire in alcun modo all’aspettativa che deriva dall’adozione di quelle pratiche. In realtà mi pare che siano alcuni “marcatori” legati alla c.d. ricerca (alcuni dei quali passati in rassegna ad inizio intervento) che debbano essere posti in dubbio, non tanto la presunta categoria che, come scrivi, è del tutto e ovviamente sfuggente.

  16. ok, non avevo avuto tempo di leggere anche i commenti; ora sono andato a quello di Renata e Mariangela, e ho capito quanto intendevi dire. D’accordo con Renata, che si appella al sacrosanto principio adorniano dell’opacità mineralizzata dell’opera e della rottura delle aspettative. Il discorso di Mariangela poi coglie un problema fondamentale. E propone di superare la metafora temporale incentrata sulla freccia (chi sta dietro è meno buono di chi sta davanti, retroguardia e avanguardia) con l’idea di una simultaneità aperta. Concordo.

    Però io mi sento di dover fare un’ulteriore passo, di dover dire qualcosa di più. In questo spazio simultaneo e aperto, ci sono scritture più riconoscibili e centrali, e scritture più dubbie e periferiche. (Tra cui quelle a cui accenna Mariangela.) Ebbene, io come lettore posso amare molto scritture più centrali e riconoscibili, ma come critico militante, e partigiano, preferisco dedicare il mio interesse e la mia attenzione alle scritture incerte e di margine. Per due motivi: 1) perché in diversi casi, mi trovo spontaneamente in sintonia, mi sento parte della stessa famiglia, mi confronto con questioni simili; 2) perché è importante che ci siano voci che si prendano la responsabilità di dire: questo cose “sono scritture”, sono forme di letteratura, hanno pertinenza letteraria e artistica, a fronte di una quantità di persone che dice: “ma questo scritture NON sono vere scritture”, non esistono, non sono né letteratura né arte.

    Sia bene inteso, quando IO scrivo, in quanto autore, non mi frega nulla che qualcuno dica: ma quella roba lì non è poesia. Anzi, è una cosa che metto in conto. Ma quando scrivo in quanto critico, m’interessa mostrare perché certe scritture sono letteratura o comunque hanno un’importanza letteraria.

    • Di qui l’intenzione dell’intervento e l’esigenza, credo, di “smarcarsi” dal luogo comune secondo il quale c’è una letteratura e poi c’è una letteratura “di ricerca”.

  17. Un primo problema sarebbe di non insistere sul nullismo e sull’esteticamente degradato in un mondo in cui la semina intellettuale e comunicativa del nulla e la decomposizione esistenziale imperano.

    Non è il caso di rigettare in faccia l’immondizia a chi nell’immondizia (metaforica, ma talora anche reale) vive, e dire che si fa ricerca/denuncia/(neo-post-trans-)avanguardia etc. etc. etc.

    • è in risposta a me? guarda che non c’è niente bisogno di scomodare i nullismi conclamati à la moccia, saviano, merini (…)
      c’è anche quel girone intermedio e più sottile e paludante(si) a colpi di anfibolie. Anzi proprio un accamparsi sullo statuto di indecidibilità apparente, normalizzato ad usum: basti pensare a fasi dell’iter produttivo dei diversissimi tra loro Nove, alla Valduga, la Calandrone, certe cose della GuaLtieri, e la Cavalli (…). cosa abbiamo qui? Chiaro che non è il mio vicino che esce di casa con le plaquettes; non gli puoi semplicemente rinfacciare che “uh, schifo”. Quindi anche la kakomachia si è fatta intelligente e poco limpida, mica chiara.
      Tu però sembri avere le idee chiare sul chi ci vive dell’immondizia, ma UN NOME a ‘sto punto no?

      gli è che sembra una ritenzione di tossico sennò, sparata così.

      • Stavo parlando del fatto che certa poesia si configura come inno del mondo degradato, e lo stesso vale per certa arte. Ma in un mondo disseminato di sterchi, la “merda d’artista” alla Manzoni, in versione anche poetica, oltre che “figurativa” è di troppo. Non è innovazione né denuncia del degrado, solo parassitarismo culturale.

  18. mi sento abbastanza in sintonia con quanto è emerso in questi ultimi interventi sulla natura tellurica della scrittura in generale e un po’ meno sull’idea di letteratura che in qualche modo si disegna. Se valori in cui credo anch’io e suggeriti da Giulio, Renata, Andrea e in primis da Mariangela, riassumibili nella felice formula ” delle scritture incerte e di margine”, altrimenti opache, possono valere per i percorsi di ciascuno, essi lo sono a prescindere dalla letteratura . Letteratura è un sistema che è fatto di editori, distributori, stampatori, rappresentanti, librai, promotori ecc, in parole povere dal mercato e per quanto io ne sappia l’unico posto in cui quelle scritture possono entrare è il cimitero del mercato e infatti, non a caso, la chiamano letteratura di nicchia. A volte mi sembra che il dibattito letterario riprenda i temi di una trentina d’anni fa discussi nel mondo musicale a proposito della incerta linea di confine che separava l’underground dal pop, e delle accese dispute sulle scelte operate da certi gruppi, penso ai Cure o agli stessi Clash, per esempio, in cui da una parte c’era chi gridava allo scandalo e al tradimento, e dall’altra chi riteneva e non sempre a torto che nel passaggio al pop, dunque alla fama planetaria, al successo commerciale certi gruppi ci avessero guadagnato in qualità artistica oltre che della vita. Questa cosa è accaduta e accade anche nelle scritture ma senza la “disponibilità” del grande mercato, della letteratura appunto ad accogliere i magnifici bastardi della marginalità. Altrimenti non si spiegherebbe come autori che da più di ventanni sono sulla bocca di tutti e pubblicati da grandi case editrici non abbiano infranto il muro di gomma che li separa dal grande pubblico. La questione allora è tutta qui. E non mi meraviglia, pur non condividendola affatto, la chiusura pregiudiziale di alcuni critici vicini “al margine” nei confronti di autori, che nonostante la psicorigidità del nostro mercato ops della nostra letteratura, come Valerio Evangelisti, Michele Mari, Andrej Longo, solo per citarne alcuni e che pur essendo degli “sperimentatori” i grossi numeri in termini di lettori li hanno fatti. Mi sembra insomma di ritornare all’annosa questione della separazione consensuale tra poesia e narrativa, con i poeti sfigati ma “dotti”, con qualche eccezione, da una parte e dall’altra i venduti, un po’ scemi, al sistema. effeffe

  19. @Maurizio Sabona
    Sì, il concetto-esempio di ispirazione era volutamente desueto, ma in sostanza concordo con lei.

    Per quanto riguarda tutto il resto:
    d’accordo sul superamento delle categorie (o meglio, col tentativo di superamento o solo di conciliazione, in quanto mi sembra che prima di trovare dei sostituti, indispensabili, agli “zombie” di cui parla Inglese nell’altro saggio, ne passerà di tempo);
    d’accordo sulle “scritture incerte e di margine” (almeno nell’attesa di nuovi eventuali criteri): in un’epoca tutt’altro che certa e fissa non può esistere una scrittura certa e fissa, se non nella presunzione di chi ha la soluzione in bocca;
    un po’ titubante sul discorso sull’”opacità” del testo di cui parla Renata Morresi: nel senso che secondo me diventa troppo spesso una scusante per un’oscurità o comunque atteggiamento autoreferenziale. C’è però chi sa farlo e anche bene, va detto.

    Tornando alle categorie zombie, per spostarmi poi eventualmente “di là” da Inglese, credo che fondamentalmente, proprio perché zombie, non siano loro il vero problema: la classica dicotomia lirica/ricerca o, peggio, tradizione/avanguardia, una volta svuotata degli attriti ideologici o di posizione novecenteschi, può, in questa fase di passaggio, trasformarsi tranquillamente in una registrazione delle tensioni interne a un testo, sempre puntando però a una scrittura che voglia essere (e qui torna il discorso sulla “qualità”) in cima alla gerarchia. E non facendo un po’ questo e un po’ quello, ma fregandosene del “questo-e-quello”, in vista di una strada percorribile e che sia, almeno nel singolo autore, la migliore possibile. È un po’ quello che stiamo provando a fare noi su formavera (con successo o meno), ma soprattutto è un tipo di integrazione che mi sembra di vedere nella ricerca degli autori “grandi” contemporanei. In un’ottica così uno Zanzotto, al tempo fortemente “schierato”, oggi potrebbe essere visto come in perfetto equilibrio, e forse è stato un grande poeta per questo, perché ha fatto e preso quello che gli pareva e che gli serviva per arrivare a una grande scrittura. Le scritture minori invece, ancora oggi, tendono a trovare la forza in un’identificazione precisa (che ha varie nature: anche quella che fa dire “mi occupo di altro” ma poi considerando “indietro”, per l’appunto, tutto il resto): ma è normale che sia così.

  20. io non so se ci sia una “letteratura” e poi una “letteratura di ricerca”, penso che la letteratura dovrebbe già essere di per sé un terreno di sperimentazione, sia in senso molto ampio (per quanto riguarda le modalità e i temi d’interesse) che in senso più stringente (cioè per l’attenzione al procedimento e alla progettualità); mi pare, appunto, che spesso si confonda il fine con i mezzi, e che da qui derivi la grande confusione e la pretesa inclusività o esclusività, che dir si voglia, dell’uso delle categorie e delle poetiche nell’ottica più comune. di certo è indispensabile rendersi conto dei molti movimenti “a latere” delle scritture già decifrate, e soprattutto evitare di applicare schemi già noti (per non dire vecchi) a queste nuove e nuovissime forme di espressione. per quanto riguarda l’opacità e/o la difficoltà a cui si è fatto riferimento, secondo me derivano esattamente da questo errore, come voler guardare un film muto col sonoro, e viceversa: mi sembra che le scritture e più in generale le opere che stiamo qui definendo “di ricerca” (penso ad esempio anche ad alcune istallazioni, studi sulla fotografia, esperimenti video, ecc.) vadano fruite prima di tutto con un atteggiamento di profonda apertura, e di sperimentazione sì, ma nostra, di chi guarda e legge e analizza, prima che dell’autore stesso. autodefinirsi appartenente al filone “di ricerca” può far sorridere, a ragione, e chi lo fa spesso non ha la minima idea di cosa voglia dire. a quel punto il rischio dell’autocelebrazione o della chiusura monoculare e alla fine sterile del proprio lavoro diventa quasi una certezza. Questa deriva, però, non deve distogliere dal bel fermento e dai singoli percorsi che stanno portando avanti molte delle persone coinvolte in questo dibattito, e anche tante altre, che ancora più marginali si tengono, rispetto all’ottica delle etichette.

  21. Sono contento che qualcuno (Renata Morresi, nello specifico) abbia tirato in ballo Adorno.
    E sempre a Renata Morresi sono grato per la precisazione a proposito del mondo anglosassone: forse un mondo dove non esiste la necessità di definire la scrittura è un mondo migliore.
    Qualcosa tuttavia mi sfugge, ovvero come sia possibile concepire (almeno così mi è parso di comprendere da alcuni commenti) una scrittura del tutto priva di nessi, di continuità o di rottura, con la tradizione. Certo, sarebbe bello prima di tutto mettersi d’accordo su che cos’è la tradizione, ma resta comunque il fatto che qualunque enunciato linguistico entra in un contesto e in quel contesto agisce.
    Inoltre, ultima precisazione, mi sembra piuttosto evidente che tradizione non vuol dire necessariamente chiarezza.

  22. Caro Massimiliano,
    posto che, come tu scrivi e come accennavo, risulta difficile oggi individuare “una” tradizione comunemente intesa come tale, perchè il rapporto con essa deve necessariamente essere declinato in opposizione o in continuità? Si può anche scartare in un campo di indefinitezza senza che ciò significhi porre la tradizione in negativo; e nel delineare traiettorie inesplorate si possono comunque portare elementi della “propria” tradizione funzionali all’esplorazione. Da qualche parte leggevo dell’importanza di frequentare il gesto artistico nella sua fase iniziale, liberandolo dai condizionamenti delle strutture alle quali siamo assuefatti. In tal senso, forse, nel considerare le modalità di rapporto con “il contesto”, a opposizione e continuità si possono aggiungere lo scarto, la deviazione e chi sa quali altre modalità di relazione.

  23. Il rapporto con la tradizione (ammesso che ne esista una) lo vedo esclusivamente come rapporto con un contesto comunicativo. Collocarsi significa collocarsi in uno spazio (comunicativo) e dunque anche rispetto alla tradizione, che di quello spazio viene in genere intesa come centro.
    Lo dicevo solo per precisare che, secondo me, non può darsi gesto artistico estraneo a qualunque contesto comunicativo.
    Per il resto la tradizione è l’ultima delle mie preoccupazioni.

    • Mi sembra molto interessante, e aprente, questo intervento di Giulio. Di certo prova a spostare i parametri della discussione recente; rischia, certo, un’eccessiva indeterminatezza cartografica, di dare un panorama difficile da _vedere_, indecifrabile, o di decifrazione indefinitamente complicata, troppo vicino ai fenomeni. Del resto, contrasta positivamente una rinnovata tendenza categorizzante, a volte piuttosto faziosa, di cui sono stato anch’io un fautore; reagendo a mia, a nostra volta a un paio di decenni di polverizzazione. Secondo me sarebbe il caso di continuare il dibattito a fare in una sede apposita, in pubblico, da qualche parte. O in una pubblicazione dedicata, come so avere in animo più d’uno.
      (Un rilievo wittgensteiniano: non credo possa esistere “una propria tradizione”: la tradizione è un fatto collettivo e storico, o non è).

      • In merito all’ultima osservazione, in effetti dovrei provare a spiegarmi meglio. Ci provo sulla scorta del già citato Adorno: se la tradizione è uno sguardo che dal presente si rivolge al passato, nell’era della iper-comunicazione e iper-frammentazione è probabile che tale sguardo risulti, anch’esso, frammentato.

  24. Le inchieste sulla definizione suppliscono a un’esigenza più basale, che è la necessità di considerazione. Più bisogno di dati avvaloranti che di spiegazione del merito (anche, per forza, nelle scienze pure la ricerca arriva a situarsi in luoghi lontani dalla zona confermata e utilizza elementi che mettono in discussione la ricetta del metodo). Finché non si creerà lo spazio necessario a dare potere al lavoro di ricerca letteraria, e qui c’è da capire bene cosa lo ostacoli (che non sia nella sua natura, che lì l’ostacolo è materia), continueremo a girarci intorno senza rimedio, dicendo cose assolutamente vere senza spostarci di un metro dal perché continuiamo a dirle.

      • Credo ci sia una situazione eminentemente italiana, se sto ai dati che continuamente fornisce Giovenale, di mancanza di flusso, la chiamerei così, dell’oggetto Ricerca. E interessante da capire il perché storico, esistenziale e politico di questo dato di fatto. Se non c’è flusso, interazione, intersezione, contrasto, status, luogo, visione, contatto non c’è potere. Che è anche solo un semplicissimo “posso permettermi di fare” o un “posso muovermi” o un “posso osare”.

  25. ottima l’idea di Vincenzo, che forse era già nell’intento dello stesso Giulio. Sedi deputate, incontri, dibattiti, pubblicazioni, che il terreno della ricerca sia davvero di ricerca.
    (forse è questo che si intende con “dare potere al lavoro” ecc.?)

  26. Vincenzo Ostuni parla giustamente di due decenni di polverizzazione, e di una reazione a questo panorama esploso in termini di “tendenza categorizzante”, che rischia la faziosità. E quindi il difficile equilibrio da creare tra ricchezza dei fenomeni e strumenti capaci di decifrarli (categorie critiche, ecc.).

    Aver individuato grazie alla discussione questi termini del problema mi sembra molto positivo. Davvero mi sembra che ci corrispondano da un punto di vista “storico”, di storia degli ultimi vent’anni. Per me, come ho sottolineato nel post di ieri, la tendenza alla categorizzazione, con tutti i rischi di faziosità, non è mai venuta meno nemmeno nei momenti di massima atomizzazione del campo poetico. Mi sembra che si sia sempre stati in una sorta di scomoda ambivalenza: da un lato, l’idea che ogni riflessioni critica – e quindi anche categorizzante – sia un modo autoritario di guastare la festa; dall’altro però dei tremendi automatismi che s’instauravano nei rari momenti di confronto e discussione più approfondita e accesa. E allora le vecchie categorie-zombie tornavano all’assalto, come arma di difesa o di offesa. Mettiamo: “Ah, tu NON sei uno sperimentalista!!” (in tono accusatorio), oppure: “Ah, TU non sei il SOLITO sperimentalista!!” (in tono allegro e liberatorio).

    Per come interpreto l’intervento di Giulio, il problema non mi sembra quello di celebrare semplicemente la ricchezza indifferenziata dell’esistente, la fuga dalle gabbie categoriali, ma la fuga da categorie obsolete che sono divenute gabbie. Per andare verso nuove elaborazioni, nuove analisi, nuove connessioni all’interno dei testi, tra testi e testi, e tra testi e mondo.

    Mi sembra che si tenda a dimenticare una cosa: le categorie non sono solo controfigure di ottusi poliziotti, ma sono strumenti di conoscenza: di conoscenza di quell’oggetto umano che è la poesia, e del mondo che si apre attraverso di essi. Inoltre le categorie costituiscono un tessuto connettivo nella molteplicità, contro l’incubo di un popolo di poeti solipsisti, che si scambiano complimenti senza sapere “su che cosa”…

  27. @andrea (qui perché sono qui, ma potrebbe anche essere nel suo intervento, ma in fondo il discorso è nato qui)
    Sì, Andrea, le categorie sono strumenti di conoscenza, indubbiamente, ma le categorie di cui discutiamo qui sono specifiche, mi sembra, di un tipo di conoscenza particolare. Si tratta di distinguere, credo, non solo il ruolo del lettore da quello del critico, ma anche diversi possibili ruoli critici.
    Per esempio, il problema delle categorie-zombie è sicuramente centrale in una prospettiva di carattere storico-critica, quando si cerca, in qualche modo, di storicizzare, e quindi sistematizzare la contemporaneità.
    Ma se l’atteggiamento critico è più di carattere analitico, più mirato a comprendere la struttura del testo poetico (sia in generale che rispetto a un particolare testo poetico) le categorie storico-critiche non giocano che un ruolo di sfondo, e sono altre a dominare la situazione.
    Il mio timore di fronte alle (inevitabili) categorizzazioni, e alla critica militante, è che il meccanismo che esse mettono in moto possa schiacciare la comprensione di quello che nelle categorie non ci sta. Per questo hai tutte le ragioni a sottolineare il pericolo delle categorie-zombie, ma il problema è che talvolta la zombizzazione è precocissima, e investe anche categorie appena nate.
    L’unica regola possibile mi sembra una prudenza estrema proprio di fronte alla militanza – la quale è un atteggiamento politicamente indispensabile, affinché certa poesia possa esistere, ma corre il rischio di pagare lo scotto della cecità nei confronti del resto del mondo.
    Rispetto all’espressione “poesia di ricerca”, ho finito personalmente per considerarla come un’etichetta semanticamente vuota, che si applica a un certo ambito di autori e pratiche quasi come un nome proprio. Se dovessi davvero valutare il senso dell’espressione, mi dovrei domandare – per esempio – perché non ne faccia parte la mia stessa poesia (come autore), visto che so bene quanta ricerca le stia dietro.
    Infine, “l’incubo di un popolo di poeti solipsisti, che si scambiano complimenti senza sapere su che cosa” potrebbe essere contrapposto all’incubo di un popolo di poeti organizzati per bande, in cui ci si complimenta solo all’interno del gruppo, sapendo troppo bene “su che cosa”. Non vedo in che cosa l’un incubo sia migliore o peggiore dell’altro.

    • a daniele,
      penso che su molti punti siamo d’accordo, dico noi in senso ampio: e grazie al carattere “tempestivo” del pezzo di Giulio: “poesia di ricerca” più che una categoria critica è un logo rigido, inservibile; apertura spegiudicata alle varie forme di scrittura e attenzione alla singolarità dei testi… che è un buon contravveleno contro i rischi di faziosità e settarismo (che esistono, e m’includo.)Dopodiché, io rimango convinto che: 1) le “famiglie” di scritture esistano ed esistano progetti non solo individuali – e meno male! -; 2)che alcune famiglie si scontrino con un vuoto critico, ossia con una mancanza di mediazione critica che le rende difficilmente accettabili, situabili, decifrabili. E’ quest’ultima una condizione naturale nella dialettica del campo letterario, ma questo giustifica un tipo di lavoro militante che decide di privilegiare le scritture – appunto – più “aliene”. Un esempio concreto per tutti: il lavoro che molti cosidetti poeti hanno fatto e stanno facendo in prosa, su piste inedite rispetto alla tradizione novecentesca della prosa lirica. Questo è un campo vasto e ancora in parte vergine (d’analisi), dove per altro troviamo autori assai diversi che vanno da Magrelli a Frasca, da Lumelli a certi testi di Mazzoni, fino alla famiglia di scritture riunite provvisoriamente intorno alla formula di “prosa in prosa”, ecc.

      Quello che comunque raccolgo dalla sollecitazione di Giulio, è l’esigenza di trovare occasioni di dialogo tra famiglie diverse, anche perché il concetto che io uso è quello wittgensteiniano, che non implica l’indentità programmatica dei gruppi avanguardisti novecenteschi, ma i tratti di famiglia dei gruppi fluidi del nostro tempo, dove al programma si sostituiscono i progetti.

      Ogni sollecitazione ad una maggiore attenzione a quanto di buono si fa è sempre importante. D’altra parte, se tu guardi la storia di questo stesso sito, vedi che quanto io ho postato in poesia appartiene non a una sola famiglia di scritture. Con ciò non intendo né negare che ogni redattore segua comunque dei principi selettivi, né che questi principi siano infallibili.

      • Andrea, il punto non sono i tuoi post o articoli, che io apprezzo sempre e mi insegnano molte cose. Forse (e ribadisco forse, perché io stesso sto cercando chiarezza al proposito) il punto che infiamma molti animi sta piuttosto nel fatto che queste “famiglie” di scrittura (wittgensteinamente intese, sì, le avanguardie sono finite) si trovano a essere diversamente organizzate al proprio interno. Mi spiego.
        C’è, appunto, la famiglia della poesia cosiddetta “di ricerca”, che, per quanto può, si organizza, fa incontri; appare, almeno da fuori, come un’entità con un minimo di strutturazione. C’è GAMMM, c’e EXIT, ci sono gli interventi appassionati di Marco Giovenale – del quale, anche quando sono in disaccordo, capisco benissimo le ragioni difensive, a protezione del suo fragile campo. E capisco bene che Marco rivendichi lo scarso interesse delle manifestazioni o istituzioni poetiche italiane nei confronti della “poesia di ricerca”.
        Tuttavia, se usciamo da questa famiglia specifica, troviamo davvero altre entità analoghe, ciascuna con i propri spazi e i propri difensori? A me pare piuttosto di vedere un campo fluido, in cui le famiglie sono in realtà poco di più dei parametri organizzativi che un critico non può non darsi per cercare di fare il quadro della situazione. Ci sono certamente somiglianze, e anche amicizie e alleanze, nella realtà materiale, ma in una situazione che non dà certezze.
        Ora, se io vivo all’interno di questa situazione fluida, la presenza della cittadella organizzata (per quanto poco, per quanto vagamente) della “poesia di ricerca” mi appare comunque un oggetto strano, e certamente “più forte di me”. E mi appare come l’erede diretto (pur con tutte le differenze che ci sono) delle avanguardie novecentesche (che erano cittadelle molto meglio organizzate, in una situazione complessivamente meno fluida).
        Proprio per questo l’obiezione “Noi ci siamo organizzati, potete farlo anche voi. Dopodiché possiamo anche confrontarci criticamente in maniera produttiva” non vale più. Non vale perché presuppone che si debba riconoscere e anteporre la validità di un “noi”, la cui debolezza è forse proprio essa stessa la conseguenza del tramonto del Novecento.
        Io ho la sensazione che questo rifiuto profondo della logica novecentesca dei gruppi sia alla base di tante polemiche (a volte incomprensibilmente acrimoniose) contro la poesia “di ricerca”; la quale, sì, ha davvero poco spazio, tuttavia, paradossalmente è ugualmente il gruppo che ne ha di più, ma semplicemente perché altri “gruppi” fondamentalmente non ci sono.
        Che poi lo spazio, nelle manifestazioni e istituzioni poetiche, ce l’abbia di fatto, spesso, la paccottiglia, il poetese, il banal-civile, è un dato di fatto triste; ma è un altro problema.
        Spero di essermi spiegato, in questo spazio ristretto.

  28. Andrea, prendila come una provocazione bonaria questa mia domanda. Mi sapresti dire quanto materiale, e per materiale intendo pubblicazioni, libri e riviste, saggi su blog, convegni, atti universitari, è stato prodotto in questi ultimi, diciamo, dieci anni, sul tema della scrittura di ricerca, sulle tendenze letterarie italiane di questi anni, sui paesaggi poetici inscrivibili in una qualche categoria storica letteraria ancorché estetica,sui gruppi dal gruppo ’93 al GAMM? Quante pagine o più astrattamente chili di carta? Ma soprattutto, questo materiale critico in quale equilibrio si trova con le opere effettivamente pubblicate, e per opere intendo, plaquettes, antologie, libri di poesia, in termini di pagine o di chili di carta? E ancora, stando all’insieme di persone che sono intervenute in questo thread qual è il rapporto, in percentuale, tra autori/critici, autori/autori, critici/critici, soggetti da intendersi sia come persone fisiche, come riviste, come gruppi, come chili di carne? E, per finire, la domanda a cui mi piacerebbe davvero che si rispondesse. Perché nonostante la ricchezza del dibattito, il suo stare al passo con ogni minima trasformazione, il tempo reale con cui si produce, si critica, si antologizza, in un batter d’occhio tutto, il potere di cui dispone, attraverso terze pagine sui quotidiani nazionali, rubriche, festival, premi di poesia, permane la sensazione che tutto questo sia “inascoltato”come una recensione per esempio su Alias in grado di muovere un libro verso davvero pochi lettori e per lo più gli stessi che lo avrebbero letto anche senza quella lettura critica? Perché si ha nonostante l’impegno e il talento di tanti, anche qui citati, con cui personalmente ho condiviso e condivido esperienze importanti e longeve come le edizioni di Camera Verde, per esempio, posso dire con cognizione di causa che la percezione di tutti, dove per tutti intendo, soggetti letterari, persone fisiche, lettori\lettori in primis è che veramente la letteratura sembra svolgersi altrove? A questo aggiungo, e se ci dicessimo che nel ventennio nevralgico delle spinte innovatrici, ovvero tra i venti e i quarantanni, sulla soglia dei cinquantanni, media anagrafica di quasi tutti quelli intervenuti fin qui o citati, si stia facendo avanti la consapevolezza di non avere in alcun modo orientato ( qui da intendersi non come sloganistico educare le masse ma più generalmente contraddire l’ideologia mainstream entrando in effettiva risonanza con i lettori) la sensibilità generale al punto di vedere opere come quella di Giuliano Mesa, per capirci, ancora ai margini e sconosciuta ai più? sono tante le domande a cui vorrei che tu rispondessi,ma anche Marco, Vincenzo, Massimiliano, Giulio, e per quanto il bilancio sia magro, presa così, trovo tutto sommato ammirevole che la voglia di fare di tutti, permanga. effeffe

  29. la scrittura, se praticata non per prendere nota della lista delle cose da fare, è sempre di ricerca o non è scrittura, ma nota, appunto, diario, lista della spesa. Purtroppo si vede la ricerca solo dove la si vuole vedere, spesso nel nulla imbottito d’aria fritta, o anche in cose buone dal mondo, per carità, purché cose buone degli amici degli amici degli amici, il resto è cacca e le discussioni in merito non sono altro che la legittimazione di questo sistema consumistico e massonico rivestito a festa con pretesa di analisi critica. shit, in buona sostanza.
    saluti cari.
    nc

  30. Serve un criterio estetico aperto, non regionale ma formale (non è impossibile, si può fare).

    Serve una fenomenologia filosofica e critica del letterario disancorata da simpatie accademiche e politiche e da congenialità individuali (non è impossibile, si può fare).

    Serve una denuncia del vacuum unilaterale, della fiera esteticamente decomposta e dell’oscurità fine a sé stessa (non è una presa di posizione ingiustificata e rabbiosa, ma un orientamento programmatico definito).

    Serve un abbandono del provincialismo critico nelle sue due modalità: iperesaltazione della tradizione nazionale (diffusa in basso) e messa in parentesi della tradizione nazionale anche positiva -come se della civiltà letteraria occidentale noi non facessimo parte- (idea diffusa in alto, quasi che molti critici militanti, poeti e scrittori “di ricerca” inquadrino se stessi nell’oggi, come scriventi in lingua italiana, con la stessa implicita consapevolezza identitaria del bambino che nel gruppo di famiglia non disegna sé stesso).

    Serve una messa al margine delle posizioni critiche di debunking preconcetto e delle dichiarazioni eclatanti pour épater le bourgeois (es.: “Leopardi non è un poeta: è troppo intelligente”). Al tempo stesso serve una messa in lista di proscrizione di tutte le prese di posizione aggressivistiche e destruenti (es: “Perché la poesia annoia”). Inoltre, dovremmo farci anche il favore di cestinare l’idea del canone, che non serve a molto, e riflettere davvero, e in senso genericamente linguistico e specificamente chomskiano (stilometrico, cognitivistico, storico), su perifericità e centralità dei fenomeni e delle forme letterarie, tenendo conto che perifericità e centralità non sono criteri estetici, ma criteri normativi regionali. Non è impossibile: è necessario.

    Serve infine che prendiamo atto della nostra marginalità storico-sociale, senza snobismi e senza distinguo impropri (es.: “Ma marginale sarai tu”), considerando che non è più il tempo di perpetuare la bella usanza di pestarsi reciprocamente le gonadi, visto che il nemico comune, l’editoria industriale degradata, impera sapidamente ignorandoci -p. es. nella narrativa il problema non è un certo tipo di noir o di fantastico, ma la forma del romanzo data in mano a strategie di pseudo-scrittura fatta di effusioni generiche e psicologismi posticci, e più in generale la costruzione industriale di un target criticamente degradato. Per contro serve costruire una rete fra le varie esperienze, una rete estranea alle impalcature istituzionali ormai inquinate irrimediabilmente e non riformabili, una rete che sia alla base di uno spazio letterario in cui si valorizzi la specie del fruitore creativo, superando il passivismo implicito del lettore, e l’attivismo dello scrittore o del poeta, che genera solo tensione dialettica sterile, velleitarismo, insoddisfazione e degrado nel ridicolo. Non è impossibile: è l’unica alternativa alla morte del nostro spazio letterario, ormai in preda di un big rip che sarebbe comico, se non fosse intimamente tragico, e di cui spesso i dibattiti su lit.blog. ed e-zine, come la nostra, sono uno spaccato sinistramente fedele.

  31. @ Francesco (effeffe)
    Provo a risponderti, con la premessa che i miei sono appunti sparsi, ipotesi tutte da verificare e precisare.
    Ho l’impressione che la risposta stia (ma guarda un po’!) nella progressiva e ormai storicizzabile marginalizzazione della poesia, non già rispetto alla letteratura tout court, bensì in relazione alla comune idea di letteratura. A quello che una volta si chiamava orizzonte di attesa. Nel corso dei decenni si è venuta imponendo una idea del romanzo quale forma unica e assoluta della letteratura, come se quella forma esaurisse in sé ogni modalità possibile. A sostegno di questo non vedo esclusivamente il solito e famigerato mercato (l’editoria industriale degradata di cui parla Daniele Ventre), che ha di fatto escluso la poesia dalle proprie categorie merceologiche; ci vedo anche molta pigrizia critica, molte teorie tutte votate alla glorificazione di santa fiction, della vitale necessità, per la specie umana, della narrativa. Pare che senza le storie non si possa proprio campare, insomma.
    Saranno pure finite le grandi narrazioni, come pensava Lyotard, ma ormai siamo completamente invasi da quelle piccole e minime. Non mi sembra che, uscendo dal territorio del quale stiamo dibattendo (la c.d. scrittura di ricerca), si viva poi molto meglio. Non credo che i poeti a esso estranei, magari addirittura abbarbicati alla tradizione, possano vantare chissà quali capacità di orientare e muovere i lettori. (Del resto, che bisogno di orientare il lettore dovrebbe avere un poeta completamente accodato a una linea preesistente?). Lo sappiamo bene qual è, nella percezione comune, l’incarnazione della poesia: Alda Merini.
    E tutto questo sta prima ancora del problema della difficoltà di certe scritture, che a me pare davvero secondario.

  32. Ringrazio Giulio Marzaioli per aver dato il ‘la’ a questa discussione interessante e a mio avviso necessaria, in un momento di forte tensione alla chiusura del dialogo-confronto e anche perché permette di rimarcare la polifonia antisistemica interna alle c.d. scritture di ricerca. (Un buon passo in avanti sarebbe usare l’espressione sempre al plurale, a mo’ di memo-monito).
    Mariangela Guatteri ha giustamente accennato a come, in ogni approccio critico-artistico, si annidi una filosofia della storia. Il paradigma dicotomico: nuovo/vecchio, tradizione/avanguardia nasce infatti da una storia teleologicamente intesa, sempre progredente verso il meglio, promotrice di un mito del progresso quanto mai falso e dispotico, ecc. ecc.
    L’idea dell’open space in fieri è un’ottima immagine di uno spazio-tempo non cumulativo ma costantemente rifondante, in cui, venuti a mancare gli assi cartesiani (e il sé cartesiano) di riferimento, è impossibile riferire la (propria?) posizione, univoca, statica, tutt’al più si può tentare di tenere aggiornati costantemente sulle molteplici posizioni assunte o tentate di assumere. Insomma si tratta di monitorare una serie di organismi vivi e in divenire che intrattengono relazioni con altri organismi, i quali a loro volta, e così via.
    La conseguenza di ciò non può che essere una lettura radiale, un’esperienza n-dimensionale che pretende uno sforzo e una comprommissione del lettore. Ma questa riflessione autodisorientata e disorientante nel suo accettare quel quid di indeterminazione (fisica e poetica) non dovrebbe porre fine allo spazio ideologico? Non ratifica la caduta, per loro impossibilità, di categorie come periferia, margine (almeno da un sguardo laboratoriale, dal di dentro del fare artistico)?
    Dal di fuori, certo, siamo ai margini dei margini dell’universo editoriale, in questa lontana e piccola galassia che ricerca altri fuochi attorno cui orbitare e con cui pagare l’affitto. (Nel frattempo si è nomadi, ci si colloca in posti scomodi, si fa ginnastica posturale per colpa del Novecento, si continua a interrogare -nel dubbio- tutto, si continua a credere che tutto ciò sia sovversivamente inutile, umano.)

    Per quanto riguarda la tradizione: se si rifiuta ogni tipo di pensiero astorico, il presente – anche se inconsapevolmente o inconsciamente – cos’altro fa se non cogliere la sfida lanciata dal passato? Ogni testo (nel senso ampio, prescindendo dai linguaggi messi in campo) significativo necessariamente mette in discussione e rielabora una enorme porzione di tradizione. L’autore non è tenuto a comprendere la propria opera, diceva Adorno, per questo la critica è stata spesso portatrice di consapevolezza e di rivelazione.
    L’approccio storicistico così come quello scientifico-sperimentale isola il fenomeno, l’oggetto artistico, e così facendo lo silenzia. Né nella fisica quantistica né nell’arte un corpo, un testo, possono essere isolati, pena la loro morte. Provare a sottrarre un organismo al suo ecosistema, a recidere le sue radici e si ottengono tanti cadaveri testuali; e in parte, la storia della letteratura questo fa: rende innocue, mimetizzate, fruibili, mercificabili, ‘scaffalizzabili’ le opere del passato.
    Dall’altro è pur vero che a volte proprio queste categorie impediscono di scindere i fatti artistici tra un’arte con la maiuscola e una con la minuscola, e aiutano l’approccio dei non addetti ai lavori; ma troppo spesso si tenta fenomenologicamente di ricondurre le scritture contemporanee a etichette anacronistiche, per dimostrare che non sono, non fanno, niente di nuovo. Lo slogan ‘tutto è stato fatto’ non solo è l’espressione di un pensiero ideologico falso, vile, impotente e borioso, ma – ed è più grave – dietro questa categorizzazione a ritroso c’è la volontà, l’intenzione di addomesticare, di disinnescare la pericolosità del fatto estetico. Perché la poesia, l’arte (e non è idealismo né naiveté) è pericolosa ancorché periclitante.
    Queste categorie-zombie, come ben analizzate da Inglese, spesso hanno un valore diagnostico che distrae dal particolare, dall’analisi dei testi, che sono e saranno sempre più eloquenti delle dottrine. In questo senso l’intervento di Giulio rimarca, come ha esplicitamente problematizzato Francesco Forlani, una lacuna, una mancanza (sia nel senso di assenza sia nel senso di presenza silente e colpevole) che è propriamente quella della critica. Da questo status orfano della scrittura deriva spesso una critica ‘fai da te’ degli autori stessi o una malinconia frustrata. E intanto la scrittura continua a scriversi e si continua a parlare di storicizzazione, che però pare non essere avvenuta negli ultimi 20 anni, i quali non a caso – e anzi, inquietantemente – coincidono con una precisa, anche se fin troppo poco analizzata, situazione politico-culturale italiana.
    Uno dei problemi è che sono gli stessi critici o sedicenti tali (e non il pubblico-massa, che sgambetta tra un bestseller e le poesie di ligabue) a essere a disagio, balbettanti, afasici, se non indifferenti o deprezzanti, verso alcune realtà ed esperienze contemporanee quanto meno interessanti. (Deriverà in parte dal non volersi confrontare con la propria deficienza di strumenti? ignoranza riguardo esperienze straniere? dal non voler ricominciare a studiare? chissà…)

    Rilancio qui una domanda che ho posto tempo fa in un dibattito dal vero, la cui tristezza risiede proprio nel suo non rivolgersi a quel pubblico-massa: perché siamo disposti a farci mettere in crisi maggiormente dal funzionamento di un iphone che da un’opera artistica?

    E poi, prescindendo da etichette e dai pollici di facebook, la domanda importante dovrebbe essere, non se questo testo è di ricerca oppure neolirico, ma: questo testo è interessante? se sì, perché? Si prega di argomentare.

  33. @ Simona
    Provo a rispondere alla domanda: «perché siamo disposti a farci mettere in crisi maggiormente dal funzionamento di un iphone che da un’opera artistica?»
    Perché l’iPhone è uno strumento, la poesia no; perché la poesia non ha lo stesso livello di appeal dell’iPhone; perché la critica non ha nessuna voglia di mettersi in discussione o di provare a confrontarsi con categorie diverse da quelle precedenti; per mille altri motivi.
    Diciamo che la situazione attuale mi pare analoga a quella degli anni del crocianesimo imperante: strumenti critici vecchi per una scrittura nuova.
    E aggiungo subito, per sgomberare il campo e fare chiarezza, che secondo il mio giudizio nuova non è necessariamente sinonimo di buona.

  34. a daniele,
    seguo bene il tuo discorso, tranne per le conclusioni:
    “Dopodiché possiamo anche confrontarci criticamente in maniera produttiva” non vale più. Non vale perché presuppone che si debba riconoscere e anteporre la validità di un “noi”, la cui debolezza è forse proprio essa stessa la conseguenza del tramonto del Novecento.”

    Non capisco proprio perché dopo aver perfettamente colto la logica dell’autorganizzazione, la neghi. Il “noi” nasce da diverse esigenze, secondo me tutte legittime, raissumibili così: supplire istituzioni letterarie inesistenti. Individuare affinità, avviare progetti comuni per tradurre, analizzare testi, raccoglierli e pubblicarli. Attività che danno “sangue” a ciò che più o meno intendiamo con letteratura. Certo, il “noi” può avere effetti collaterali deleteri, sopratutto se assume – lo sappiamo – forme da gruppo chiuso. E’ un rischio reale, ma per quanto mi riguarda stimo che valga la pena di correrlo, sopratutto nel momento in cui prevalgono gruppi diversi e fluidi.

    Quello che poi vedo è che in un campo per certi versi disastrato – e non parlo di quello solo poetico – l’esigenza di fare corpo, di creare reti e alleanze esiste sempre, e vale anche per quei personaggi del poetese e della paccottiglia, che effettivamente occupano buona parte di quel che resta di una “scena ufficiale” (a patto che questo termine abbia oggi qualche senso). Il problema vero è che in genere queste reti sono tacite, sono fondate su molti impliciti, e non sempre dei più limpidi. Io preferisco un gruppo che espliciti le sue ragioni di essere tale, per affinità di tipo estetico o etico-politico. (E quando parlo di gruppo, intendo diverse forme di progetto collettivo, che sia – nel mio caso – GAMMM piuttosto che NI.)

  35. a francesco: riassumendo le sue questioni in una parola: “perché tutto il nostro (?) lavoro sembra essere inascoltato?”
    1) io non ho questa percezione: quando il lavoro che faccio entra in uno spazio di ascolto, delle risposte ci sono quasi sempre – e questo vale anche per chi incontra, mettiamo, Mesa

    2) questi spazi di ascolto sembrano essere rari e si potrebbe credere che sopratutto la dove si parla di letteratura (festival giornali collane editoriali ecc.) dovrebbero essere più numerosi (o meno ottusi); a volte la sensazione è quella di qualcosa che non va, di una malattia, ecc., altre volte viene semplicemente da dire: quella cosa che a me interessa fare, oggi, non può che entrare in spazi d’ascolto molto rari; questo vuol dire che allora non ha senso quello che faccio? più invecchio e più quello che io cerco di fare con la scrittura acquista più senso… una qualche ragione non del tutto psicotica ci sarà (mi dico nei giorni di sano ottimismo)

    3) forse la letteratura è una cosa che non esiste che in forma fantasmatica, e quindi è altrove, ma rispetto a tutto e a tutti, come ben dice Massimiliano Manganelli, e noi si va per strane catacombe sapendo approssimativamente cosa abbiamo alle spalle, un po’ più precisamente cosa abbiamo intorno a noi, ma quasi nulla sapendo del futuro – e questo non ci impedisce di continuare

  36. a Andrea
    Sì certo, l’esigenza di fare corpo e costruire reti, spesso sotterranee, esiste sempre; e spesso queste reti sono tacite e fondate su molti impliciti, proprio come dici tu. E, come dici tu, molto meglio allora un gruppo che espliciti le sue ragioni di essere tale.
    La mia sensazione è però che i poeti del tempo presente si sentano refrattari (in generale) ai gruppi, perché (in generale) fanno fatica a individuarsi in un “noi” di qualche genere, che inevitabilmente è alla base di un gruppo. Io non dico che questo sia opportuno, però mi sembra che si tratti di una reazione alla tendenza novecentesca a organizzarsi in gruppi.
    I gruppi, come le avanguardie, sono (oltre che luoghi di scambio reciproco) degli organismi per prendere o non perdere potere. Magari senza la virulenza (ma magari anche con la virulenza) dei gruppi politici, assolvono però una funzione non dissimile.
    Si può leggere facilmente (e lo facciamo di continuo) la storia della poesia del Novecento come la storia di una serie di scontri tra gruppi.
    Mi domando se il panorama attuale non stia patendo la stanchezza di un secolo di Storia letteraria di questo tipo, mostrandosi refrattario a proseguire sulla stessa via.
    Magari è una via migliore di quella delle reti sotterranee, ma sappiamo bene come non sempre la Storia segua la via migliore.

  37. a daniele,
    lo abbiamo ripetuto, e in parte riconosciuto, la diffidenza degli “io” nei confronti del “noi”, in ambito artistico almeno, è salutare; i gruppi di oggi sono gruppi di somiglianze familiari e di progetto, non di identità e programmi. Dunque un’altra storia. Diradiamo i fantasmi del Novecento, ma facciamolo tutti. Sia chi sente l’importanza di portare avanti progetti non individuali, sia chi perefrisce itinerari più solitari. Nella vita stessa di un individuo si possono trovare fase diverse.
    E ti rilancio la palla. Tu lavori nelle istituzioni. Perché non proporre delle occassioni di incontro e dibattito, nei modi che tu reputi più appropriato, per fare da ponte tra diverse esperienze?

  38. Andrea scriveva: “Il ‘noi’ nasce da diverse esigenze, secondo me tutte legittime, riassumibili così: supplire istituzioni letterarie inesistenti. Individuare affinità, avviare progetti comuni per tradurre, analizzare testi, raccoglierli e pubblicarli. Attività che danno ‘sangue’ a ciò che più o meno intendiamo con letteratura”. (Aggiungerei: fare tutto ciò *ovviamente* gratis, spendendo[si] in proprio, senza chiedere niente a nessuno, per quanto possibile).

    Daniele, è la stessa cosa di quando tu parli di una “esigenza di fare corpo e costruire reti, spesso sotterranee”?

    In parte sì, certo. Però alcune differenze non possono essere, penso, spostate da un piano descrittivo articolato a uno sintetico senza perdere identità (e rischiare di essere a loro volta riassunte in modo – anche involontariamente – improprio).

    Dalla “esigenza di fare corpo e costruire reti, spesso sotterranee” e dai “gruppi, come le avanguardie, […] luoghi di scambio reciproco” (di nuovo parole tue in risposta ad Andrea) è o può essere breve il passaggio a “organismi per prendere o non perdere potere. Magari senza la virulenza (ma magari anche con la virulenza) dei gruppi politici”.

    Dunque. Nelle righe tue appena citate, “organismi per prendere o non perdere potere. Magari senza la virulenza (ma magari anche con la virulenza) dei gruppi politici”, che cosa è rimasto di quello che diceva Andrea? Ossia: che cosa è rimasto di un “noi” che “nasce da diverse esigenze […] riassumibili così: supplire istituzioni letterarie inesistenti. Individuare affinità, avviare progetti comuni per tradurre, analizzare testi, raccoglierli e pubblicarli. Attività che danno ‘sangue’ a ciò che più o meno intendiamo con letteratura”?

    Quasi niente? Niente, temo. A mio avviso questo sposta il focus dalle questioni al dialogo sulle questioni.

    Personalmente, allora, dico che la mia domanda inizia ad assomigliare un po’ (non interamente) a quella che si pone Francesco Forlani. Se l’intento è (per molti che fanno *alcune* scritture di ricerca) quello indicato da Andrea, ossia (lo riscrivo) “individuare affinità, avviare progetti comuni per tradurre, analizzare testi, raccoglierli e pubblicarli”, se questo è vero, se questo è l’intento, e se questo intento è effettivo, e se – poniamo da 8 anni e oltre – viene perseguito e magari anche in parte realizzato, esattamente, interroghiamoci, di cosa stiamo parlando qui? Quali sono le questioni in gioco?

    Cioè: stiamo parlando di categorie? Di riconfigurazione dello strumetario critico? Di atti mancati? Di chiusure/aperture di contesti che potrebbero essere (o no) in dialogo? Di un flusso che osserva una cittadella? Organizzata?

    E se invece non ci fosse proprio nessuna cittadella, ma una capanna o un gruppetto di capanne tirate su da quattro sciamannati con la buona volontà di “supplire istituzioni […] inesistenti. Individuare affinità, avviare progetti comuni” che diano conto di un intero continente? (Un continente che sta dietro/oltre la spiaggia su cui la capanna è costruita).

    Allora riarticolo il mio dubbio. C’è un flusso che guarda o guata una cittadella? o non si tratterà invece di un tot di persone che dal flusso guardano da 8 anni (!) un continente e non ci mettono piede nonostante vi *vedano* una capanna che espone mercanzie gratis e manda segnali di fumo? (Fumo di arrosto, si spera, non di incendio!)…

    Perché, se è così, è un continente che vi state perdendo, non una capanna che state guardando.

    • Considerando che per ogni tribù la casa comune è immagine dell’universo, temo che il continente sia imploso nella capanna, e che le capanne si atteggino a continenti. E siano tutte capanne dall’ingresso sbarrato per cognizioni antropologiche preconcette. Inoltre temo che alla fine possano prevalere solo quelle capanne che non hanno altro merito che un precoce radicamento, id est, l’essere nate cronologicamente prima e in condizioni di “opportuna” collocazione.

      • Continuare a guardare la capanna senza vedere il continente è prassi comica. Please go on like this! So funny.

  39. A sentir ragionare dei gruppi e della loro importanza mi viene da pensare che le avanguardie novecentesche, in fondo, hanno vinto: sono riuscite a imporre almeno questa idea, cioè che esiste una politica della letteratura.
    E questo in contrasto con lo sguardo retrospettivo che, da critico, posso rivolgere al Novecento (il convitato di pietra di ogni discussione in merito), perché non lo vedo così compatto e strutturato.

  40. Marco, un gruppetto di capanne con un minimo di organizzazione civile al suo interno può ben apparire come una cittadella organizzata a chi sia abituato a vivere in capanne isolate nella tundra, gestendo pericolosamente giorno per giorno i rapporti con altre capanne isolate. E, sempre in questa prospettiva minimale, “supplire istituzioni inesistenti” e “avviare progetti comuni” sono comunque operazioni di presa (di un po’) di potere, e per fortuna si fanno, e non c’è nulla di biasimevole in ciò, anzi.
    Ma se chi vive isolato nella tundra non si riconosce nei valori del villaggio, lo percepirà come un possibile nemico, e anche un nemico molto più potente di lui, che il villaggio non ce l’ha. E allora quelle (sanissime e positivissime) attività organizzate gli potranno davvero apparire come espressione di un potere molto superiore al suo – da cui, a volte, le anche incomprensibili acredini che saltano fuori nei dibattiti.
    In questa situazione, la mercanzia che tu esponi, che è in generale di buona qualità, e a volte anche di ottima, può apparire, a chi vive fuori del villaggio, semplicemente aliena, e, paradossalmente, per contrasto creare un’illusione di unitarietà della tundra, che diventa tutto ciò che non è il villaggio. Se i villaggi fossero tanti, ciascuno fungerebbe da polo per un’area. Così, o siamo pro (se non dentro) o contro l’unico villaggio – ma il “contro” spesso è vuoto, semplice opposizione e non controproposta.
    Probabilmente, alla fin fine, sono d’accordo con Andrea. L’epoca dei “noi” forti è finita. Piuttosto che vivere nella polverizzazione dei singoli “io” (che porta, inevitabilmente, alle reti sotterranee) dovremmo organizzare dei villaggi di “noi” deboli, e il più possibile aperti tra loro. Un modo di pensare i “gruppi” assai diverso da quello del modello novecentesco.
    Quanto alla proposta finale che mi fa Andrea, purtroppo il mio rapporto con le istituzioni è un po’ controverso, e il campo in cui ho un minimo di potere organizzativo è quello della comunicazione visiva, non quello della poesia. Ma il principio è giusto, e le strade imprevedibili.

    • Peraltro, alle volte, qualche nomade potrebbe cercare di avvicinarsi al villaggio e sentirsene respinto. Forse per incommensurabilità di linguaggi. O forse perché al centro di quel che credeva essere un villaggio, nel focolare, c’è solo cenere.

  41. “Se i villaggi fossero tanti”?

    Ahi. Continua ad aver senso l’ultima frase del mio commento…

    • Continente o villaggio che differenza fa? E’ comunque una parte specifica che si differenzia da un tutto di cui fa parte. Ed è questo il fatto significativo. Anche la tundra peraltro è un continente, pieno di terre inesplorate…

    • Continente o villaggio che differenza fa? E’ comunque una parte specifica che si differenzia da un tutto di cui fa parte. Ed è questo il fatto significativo. Anche la tundra peraltro è un continente, pieno di terre inesplorate…

  42. a Daniele,

    questa discussione mi sembra sia stata utile proprio per diradare fantasmi e relative paranoie – nessuno qui ha voglia di fare gruppi d’avanguardia per l’egemonia in campo letterario (alcuni che ne parlano qui lo scrivevano già nel 2007). Un punto concreto da ritenere: possiamo trovare occasioni nuove e ulteriori
    per confrontare anche sensibilità e scritture diverse? Probabilmente sì. Non è facile, ma si accettano proposte.

    Quanto alle disquisizione sulle capanne e le tundre e il potere, smettiamola per favore. Di che diavolo di potere stiamo parlando? Il campo poetico è un luogo abbandonato da chi brama potere. Si parla allora del potere di fare? Di il potere di lavorare per passione? O il potere dei vantaggi economici, simbolici?
    Io ho abbandonato la carriera universitaria abbastanza schifato. Non ho mai rotto i coglioni con i miei libri a chi non era interessato a leggerli. Non faccio spam in rete quando pubblico qualcosa. NON MI LAMENTO. Che cosa devo fare ancora, perché non si veda in me – o in molti compagni di strada che hanno destini simili – una minaccia per la libertà di pensiero e espressione: mettermi una scopa in culo e spazzare la stanza? Scusa la citazione, Daniele, ma certe menate togliamole di mezzo. Andiamo al dunque. Vogliamo incontraci, fare delle cose assieme? Bene. Vediamo che si può fare. Le condizioni ci sarebbero anche.

    • Andrea, aspetta. Capisco che l’espressione “potere” evochi egemonie e prese del palazzo d’inverno. Mi scuso. Non intendevo questo.
      Io intendevo quel piccolo potere di base che ti permette di non scomparire, di vivere, di resistere agli attacchi, di fare qualcosa, di avere un minimo di soddisfazione dalla propria scrittura, di sentirsi riconosciuti. Siamo a un livello ben diverso dal Potere, anche quello editoriale, che certamente viene gestito altrove, e non da queste parti.
      E’ un livello di sopravvivenza, in cui certamente l’esistenza del gruppo dà dei vantaggi. Detto questo, spero davvero che nessuno possa vederti come una minaccia. Per fare delle cose insieme io ci sto, senza alcun dubbio.
      Magari già a RicercaBo, se la salute (per me precaria in questa fase) me lo consentirà, come spero.

      • ok, daniele. Credo che siamo capiti. E spero si concretizzino delle occasioni per discutere di testi, versi, prosa e ritmi magari in forme non solo virtuali e frammentarie come quelle del web.

  43. Parlo per me ma nessuno ha mai pensato che non ci fosse un percorso che portasse al continente vivo e vegeto e ultranazionale della c.d. sdr, si speculava sulle realtà specifiche legate alla mancanza di individuazione di parametri definitori di cui Marzaioli scriveva e a me pareva e pare che la mancanza di conferme (che a questo punto chiamerei subliminari, inconscie, legate al meccanismo di potere inteso come elemento che ha in sé valore autoconvalidante) motivi una riproposizione di questioni che sembrano talvolta mangiarsi tra di loro quando altrove sono chiarissime e inattaccabili (enfatizzo). L’intervento di Mariangela, per molti versi, si situa in quella dimensione.

  44. aggiungo anch’io i miei due centesimi. può essere che finisca per scrivere a vanvera, perché purtroppo ho seguito tardi e male questo scambio di estremo interesse: nel caso portate pazienza.

    parto seguendo il giudizio di molti, ovvero che quello di giulio è un intervento ottimo, aprente come dice vincenzo più sopra e quindi bene, ne servono, come anche quello che dicono mariangela, andrea, marco.

    la mia impressione però è che nel ragionamento generale qui condiviso, anche lato “non di ricerca”, manchi l’esplicitazione di un pezzo, nelle sue premesse, ovvero che la nozione di scrittura di ricerca è una nozione ancora legata ad un paradigma formalista della letteratura, che riporta la letteratura ai testi e i testi alle loro soluzioni formali, con ciò che ne consegue in termini di sperimentazione, innovazione, rapporto con la tradizione. mi sembra invece che, sotto la spinta di forze diverse (la cooptazione dell’innovazione formale da parte dell’industria culturale – v. jameson -, la decostruzione della figura otto-novecentesca dello scrittore/intellettuale, il protagonismo più o meno genuino ma sicuramente anche culturale di fasce sempre più ampie e disomogenee della società, etc. etc.) quel paradigma sia definitivamente tramontato. forse è per questo che la definizione non salta fuori: perché qualunque formulazione gira a vuoto, non fa presa su un dato reale che è ormai assente.

    è piuttosto sul “noi”, come è stato detto, che va posto l’accento, tenendo conto che non è un “totem” formale che produce il gruppo, la comunità, ma proprio la condivisione dei vissuti, di un particolare vissuto in relazione alla produzione di testi scritti e non solo (NB: non precedentemente indicizzati come letteratura ma ordinati come tali a posteriori, dentro gli scambi all’interno della comunità).

    va bene scappo. ripeto: portate pazienza ;-)

  45. a daniele (v.), sulla questione del verso…
    per quanto mi riguarda il verso lo uso ancora – anche se negli ultimi due libri sono presenti delle sezioni in prosa, ma mi è impossibile utilizzare intenzionalmente i metri tradizionali – è un’impossibilità quasi fisica (ma la questione verso varrebbe di per sé una serie di post…)

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

OBIT. Poesie per la fine

5 testi da OBIT di Victoria Chang, nella traduzione di Adele Bardazzi, con un estratto dall'introduzione.
Quando il lobo frontale morì, si risucchiò le labbra come una finestra serrata. Al funerale delle sue parole, mio padre non smise di parlare e il suo amore mi trapassò, cadde a terra, una terra che non c’era.

Ana Gorría: un’altra lingua, un altro sogno

Di Anna Papa
Procedere a cancellare (male) parti di uno dei primi testi di Nostalgia dell’azione è un gioco che serve a isolare ed evidenziare le parole che con più forza legano il lavoro di Ana Gorría a quello di Maya Deren: gesto, fiore, mano, ombra, chiave, coltello.

Per Anne Sexton, nell’anniversario della sua morte

Di Rosaria Lo Russo
Oggi, cinquant’anni fa, moriva Anne Sexton, suicidandosi com’era vissuta, con ironia e strazio, sfarzosità sensuale e tenerezza infantile [...] una morte-denuncia, come quella di Amelia Rosselli, di Sylvia Plath, tutte donne e poete suicidate dalla Storia (quella di tutti più quella particolare delle donne).

Tribunale di Milano, 9 novembre 2022

Il 2 ottobre 2024, presso il Tribunale di Milano avrà luogo l’appello del processo a carico del Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio. Come manifestazione di solidarietà con le persone imputate e con la loro lotta, presento una serie di testi da Parte Lesa di Massimiliano Cappello (di prossima uscita per Arcipelago Itaca). (rm)

Prati generali

Incontro di poesia
[primo di cinque]


Girfalco di Fermo, Marche – domenica 15 settembre 2024

[...] le nostre scritture stanno insieme a questo tempo di emergenza programmatica, di perpetua crisi della democrazia, di stato di guerra e di eccezione assurti a norma, di assalto ai diritti al lavoro e impoverimento economico dei più: possiamo dirlo? possiamo ragionare? su come le cose si tengono? su come le cose non si tengono?

Il bel tempo

di Luisa Pianzola
Questo è il bel tempo.
Il tempo che non c’è, che leva le tende e sparisce
si solleva da terra e sfuma nel primo strato
dell’atmosfera. Nessuno va più su
o di lato, o indietro.
Non maturano i gigli e le pesche, acerbe.
renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: