Inedite
di Daniele Ventre
1
Eppure nella caverna si nascondeva un tesoro
fra il sogno d’una ragione e il senso d’una misura,
l’eco di un canto di fate, la fiaba d’una natura
dischiusa all’ordine antico d’una leggenda inverata:
la pietra filosofale che piombo ti muta d’oro.
Ma questa tua lanterna di luce raggelata
(eco di tubi al neon nei corridoi di plastica),
questa tua religione che sensi non ne mastica
ma li rimpiange torpida d’ironie di straforo,
non rivela poi molto, ai tuoi occhi sorpresi,
della ragione involta nei misteri del mondo,
se l’occhio ti rimane avvolto al fondo
per questo incanto delle ombre cinesi.
Non ti rimane che l’isola del pozzo senza denaro
crivello di grotte carsiche e fibre marce di cocco.
Eppure i mulini a vento ruotano ancora le braccia,
mentre la fatamorgana appare dalla bonaccia
oltre i castelli di nubi, oltre l’amaro rintocco
del tempo che ti pilucca con il suo scorrere avaro
per l’iride che ti irride nella goccia
di pioggia lungo la quercia sulla roccia
la blandula animella badalucca.
* * *
2.
Ognuno qui che ci passa e sente di dire qualcosa,
proclama la sua coscienza come sistema del mondo
e peggio per gli altri. Poi che ci importa se le parole
rimangono lì gettate, le ascolta solo il silenzio
e il senso del mondo è perso e tutto al silenzio ritorna
e il segno della realtà si è già smarrito per strada
caduto sul marciapiede con le gocce di crema fredda
volato nel cielo a un tratto coi palloncini sgonfiati
(e l’uomo qualunque a piagere come un ragazzino viziato
che ha rotto infine per noia il vecchio ninnolo nuovo).
Ma noi siamo noi, sappiamo quello che vogliamo e che siamo
e te lo sappiamo dire anche fingendo il contrario,
così lo senti il divario e stai zitto e lo mordi il freno
e stili poi la tua lista di sentimenti scontati
a prezzo di costo, cose già scelte con il tele-vuoto,
con il futuro già scelto dalle facce sorridenti
con ghigni di teschio. Eppure sapremmo cantarti le favole
la buonanotte e il buongiorno, se lo volessimo, infine,
lo fossimo veramente quello che crediamo e non siamo,
se fossimo qui in ascolto e non parlassimo in piazza
solo per metterci in mostra col nostro sistema del mondo
e peggio per gli altri sordi nel senso e nelle parole.
* * *
3.
Infine sentirsi quest’eco e quest’onda che torna
e il segno che batte eguale e l’eterna presenza
dell’assente (gelido giro di voci svuotate)
avrà fatto il suo tempo. Il corso del mondo procede
nel suo consueto declino, inclinando la danza
degli esseri, del loro processo sulle lancette
deformi. Né poi rileva, se il quieto gioiello
che hai trovato in una soffitta brillava dell’iride
di qualche memoria tornata alla luce dei giorni.
Col tempo (anche gli stolti maturano infine)
ti accorgi che non ha sapore scavare la polvere
della soffitta lasciata dall’incuria dei secoli,
se intorno la festa continua fra le risa dei furbi
–e sanno bene la forma del mondo e il suo corso
e il passo doppio dell’allegria che continua tranquilla
al di là dei vetri battuti dal sole o dal vento
al di là della grandine che picchia sulle lamiere.
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Il miglior complimento di sempre.
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