Draghi e funivie

di Giacomo Sartori

Dove sono andati i draghi “mostruosi, giganteschi e bavosi” delle leggende trentine che ha riunito in questo volume Mauro Neri? E gli auseloni? E i basilischi, e gli aspi? Perché non stanno più rintanati sul fondo dei laghi di montagna, perché non si levano più in lento volo a terrorizzarci? Sono migrati altrove, sono estinti? E i cavezài, che entravano nelle case a buttare tutto all’aria, e al bisogno diventavano cattivi e uccidevano? E i gattacci neri con gli occhi rossi, assoldati dai signori per proteggere i loro tesori? Ma soprattutto, perché non ci sentiamo meglio, adesso che questi mostri si sono rintanati nelle biblioteche, e ne abbiamo perso il ricordo? Perché siamo lo stesso insoddisfatti, perché la nostra ansia è ancora più grande? Perché non ci riuniamo più la sera nelle stalle, o insomma in altro posto (nei garage?), a discutere e a raccontarci storie che ci rasserenino, perché quando ci incontriamo con il carrello della spesa non ci guardiamo più negli occhi?

I draghi e le draghesse hanno lasciato libero il campo, e noi ne abbiamo approfittato. Abbiamo addomesticato le montagne costruendo strade e gallerie e tralicci, imbrigliando i torrenti, disgaggiando i versanti pericolanti. Monitoriamo la biodiversità, mettiamo il radiocollare agli orsi e studiamo il genoma dei lupi. Tutto è sotto controllo. Per sollazzarci abbiamo costruito impianti di risalita per raggiungere cime che prima ci facevano freddo alla schiena solo a vederle. Per le nostre escursioni utilizziamo georeferenziatori e equipaggiamenti altamente tecnologici. Nei rifugi alpini pretendiamo il collegamento internet, vogliamo restare connessi con il resto del mondo, con quello che adesso, in una hybris materialista e merceologica, consideriamo essere il resto del mondo. I breviari della nostra immaginazione sono ora i patinati depliant turistici e le soleggiate immagini pubblicitarie. Niente Lovegàti e Basàdone e altri uomini selvatici, niente brutto tempo, niente stranezze e catastrofi notturne. Abbiamo evacuato il male. Insomma, ce ne illudiamo.

Dove sono andati i mostri che spadroneggiavano sulle montagne e che facevano le loro terrificanti incursioni nei fondovalle, venendo a stanarci nelle nostre case, dove sono andate le nostre paure? Sono anche quelle globalizzate. Abbiamo paura della crisi finanziaria, della disoccupazione, dell’invasione di orde di immigrati con le ciabatte di plastica, del futuro. Abbiamo paura dei cambiamenti climatici, dell’esaurimento delle vene di petrolio, degli attacchi terroristi. Certo abbiamo ancora paura di noi stessi, ma non ne siamo più coscienti. Pensiamo anzi che sia una questione di dominare ancora meglio e ancora di più, di razionalizzare, di controllare ogni minimo brindillo d’erba. I rozzi draghi di queste leggende ci fanno sorridere di commiserazione, ci sembrano altrettanto ingenui delle grezze persone che riuscivano a spaventare.

Eppure i tuoni che squarciano il cielo ci sono ancora, quelli non siamo riusciti a civilizzarli. E nemmeno la grandine. Per scongiurarla per anni durante i temporali abbiamo sparato donchisciottescamente contro le nuvole (ce lo ricordiamo?). Adesso lasciamo che il cielo esprima la sua furia, firmiamo contratti di assicurazione contro i danni. Lì abbiamo perso. E anche gli incubi la notte non siamo riusciti a sradicarli. E neppure la morte. Anzi, proprio perché l’abbiamo evacuata dai nostri pensieri e bandita dalla nostra quotidianità, quando ci acchiappa ci terrorizza con quel suo viso scheletrico che non ci è più familiare. Anche per lei non ci sono assicurazioni che tengano: quando arriva arriva.

Queste leggende così minuziosamente locali e così eterogenee nelle forma, ma per altri versi così simili, sono nate e sono vissute nei dialetti delle varie valli trentine. Tradotte in italiano sono amputate e depotenziate, agonizzano. Ce lo confermano i passi e le citazioni in dialetto, tutti efficacissimi, e molto belli, che Neri ha introdotto qua e là. Ma adesso noi parliamo l’italiano, la lingua della televisione e dei grandi parcheggi asfaltati e dei centri commerciali. Questa lingua che ha rotto definitivamente i legami con il Medioevo, a sua volta in contatto con eredità più remote ancora, con sentori pagani e celtici.

Questa nostra lingua asettica, separata dal corpo e dalle sensazioni e dagli abissi dentro e fuori di noi, ha trionfato dove secoli di dominio cattolico, le cui pudibonde e indottrinanti verniciature sono talvolta molto evidenti sui testi del presente volume, avevano sostanzialmente fallito. Non abbiamo più le parole per parlare dei draghi feroci e maleodoranti, ci mancano le espressioni per parlare delle paure del nostro corpo, dell’intelligenza delle nostre budella, degli afflati delle pietre e degli alberi, dei legami sotterranei che ci imbrigliano, delle forze che non conosciamo. Possiamo solo cercare blandi equivalenti nel nostro gergo psicologizzante e raziocinante di adesso, nel nostro bagaglio iconografico modellato dalle pubblicità e dai fumetti. Non abbiamo perso solo la capacità di capire con le trippe e con la pelle, ma anche quella altamente catartica di fantasticare: la scienza, questa scienza nemica della spiritualità che ci sta portando alla rovina, ha sbaragliato. Forse allora queste belle leggende animalesche vanno lette con quella lentezza impacciata e quelle goffaggini di pronuncia di quegli anziani trentini che parlano e leggono molto male l’italiano. Ascoltandone gli echi dentro noi stessi, cercando di stanare il male, che è sempre esistito e sempre esisterà, accettandolo. Sempre meglio che niente.

(questa è l’introduzione che ho scritto per la raccolta illustrata di leggende “Il volo della draghessa” di Mauro Neri, AlcionEdizioni, 2013, Trento, 71 pgg)

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4 Commenti

  1. Eh, Giacomo, temo che l’immaginario di cui parli stia avvizzendo nelle teste di quei pochi portatori sani di fantasie libere e diseducate. Indotte dal contesto, il nostro in particolare, alla clausura, pena l’esclusione, la gogna la lapidazione, l’ostracismo. Più che mai, nel favoloso e cristallino mondo dell’editoria italiana, così carica d’utilissime figure intermedia, unghiute, linguacciute bestie da sì. Pur di tenere il misero posto. Da anni sembra esistere un solo libro un solo modo di scrivere un solo tema ma tante divertenti varianti. Il resto è inclassificabile. I più spavaòdi azzardano aggettivi davvero significativi, come “strano e “molto particolare” ma anche troppo particolare”.
    E così la fantasia può scegliere se divenir follia o rieducarsi, farsi un po’ di carcere delle idee e uscire dopo un periodo di riabilitazione più informa, meno spaventosa, meno strana. avvettabile. accettata.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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