Milano Oltre

di Helena Janeczek

Cosa c’è oltre? Lo stesso cielo che si finge
fodera sintetica esposta all’aria sporca,
il cielo d’acqua cagliata per l’autunno in arrivo,
persone sparse nell’ora di pranzo che finisce,
persone sotto, sparse, accompagnate dai telefonini,
oltre a Milano c’è Milano Oltre, oltre ai palazzi
i palazzi senza nuvole né sole negli specchi
che sono specchi per specchiare nulla
oltre ai palazzi, magazzini, macchine,container,
nulla di quello che contengono che resta sparso, sotto,
già molto scarso nell’ora di pranzo che finisce
fra i palazzi griffati coi nomi dei nostri grandi artisti
Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Donatello
e provo a convertirli in cartoni giapponesi
per vedere se tornano vivi.

E’ per questo che viviamo? Viviamo perché oltre
ci sia sempre Milano Oltre, ci sia sempre uno specchio
che respinge, ci sia sempre un mondo costruito
affinché i morti garantiscano che noi non moriremo,
non moriremo mai finché restiamo all’opera e in ufficio,
se conta di farlo qualcun altro, non ci riguarda,
qui non c’è cattiveria, non c’è oltre,
qui non può entrarci neanche un bambino
rimasto a casa con la tosse, la tata, le tartarughe ninja,
e “alzati e cammina”, non lo dici
neanche al telefono, dopo le due,
piuttosto digiti un messaggino
Se febbre + 38,5 mettere tachipirina.

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37 Commenti

  1. testo stupendo & sconfortante per il mio imminente autolesionistico trasferimentoooo,,

    ha davvero il ritmo dei pensieri che non sono mai lineari e con la sintassi corretta ma che precipitano e si ripetono ossessivi,, e davvero bello che mi viene voglia di dirlo anche se nessuno ce l’ha chiestoo

  2. Appena finito di leggere La traversata di Milano di Maurizio Cucchi, e arriva questo testo , sempre Milano… “oltre ai palazzi i palazzi senza nuvole”.
    Molto bello.

  3. Cosa c’è oltre?
    oltre le città, oltre i paesi, oltre i corsi d’acqua,
    oltre interi continenti…
    i nostri sogni,
    spero ancora nei buoni sentimenti, e nella nostra forza.

    Buonissima giornata cara Elena
    :-)

  4. me ne sono accorta dopo.
    ma lei non ha nulla di meglio da fare, il sabato pomeriggio?
    che sò, lavare la macchina…

    :-)

  5. Grazie Bella Chapuce!

    Ruggero potrebbe anche fare le pulizie, fare un giro nella città, hey?
    Sono d’accordo con te, Chapuce.
    Basta i correttori: non siamo alla scuola!

    Buona serata. Il tuo commento è tenero, dolce come sempre.
    E sono certa che ha fatto piacere a Helena!

  6. Helena, non c’entra niente con questa bella poesia ma devo dirtelo spassionatamente. Mi sono letto “Cibo” e mi è piaciuto molto. Ma proprio assai. Bello e brava. Finito

  7. Non so se tu l’abbia scritta davanti a una scrivania, in uno di quei momenti di ‘lucidità’ in cui le parole scorrono più o meno da sole e si rivendica la propria condizione di libertà incatenati a un lavoro, oppure se tu l’abbia scritta volendo dare l’idea di una persona che si trovasse lì, in quel momento di lucidità, in quei cinque minuti di riacquisizione del possesso del proprio tempo, dove si deve dire, più o meno, tutto davanti a uno schermo piatto. La seconda ‘stanza’ di questa poesia, in particolare, mi sembra più intensa e scorrevole della prima e se posso permettermi, si regge benissimo da sola, come poesia a sé. Un saluto.

  8. Marco, se ho capito bene la domanda: no, la scrivania non era AZIENDALE.
    Comunque- a te e a tutti gli altri- grazie.

  9. Però il testo richiama qualcosa di simile a un contesto lavorativo, con il non morire (non poter morire) associato all’ufficio e all’uso del ‘noi’:

    “non moriremo mai finché restiamo all’opera e in ufficio,
    se conta di farlo qualcun altro, non ci riguarda,
    qui non c’è cattiveria, non c’è oltre, (…)”

    Intendo dire: l’idea era quella di rappresentare lo stato d’animo di qualcuno che sta lavorando e si mette a scrivere una poesia a Milano, magari su una scrivania certo… Ecco se c’era domanda era questa, è un tema che mi interessa. Saluti

  10. Il contesto era: esco dal ufficio (Mondadori, Segrate, palazzo di Oscar Niemeyer con sottostante stagno artificiale di carpe giapponesi ecc.) e prendo una navetta aziendale che dovrebbe viaggiare con orario e percorso nuovo, ossia fino a Linate, aeroporto, dove pigliare l’autobus e poi il treno….Ma evidentemente ce ne una che parte cinque minuti prima, una cosa tipo pulmino e che va in questo posto di cui ignoravo persino l’esistenza, MILANO OLTRE. Li mentre cerco dei taxi che non ci sono, visto che altrimenti non ce la faccio ad arrivare in tempo per prendere mio figlio a scuola, aspetto e guardo immersa in quest’angoscia da periferia terziaria infinita….Non ho idea perché quasi tutto quel che concerne il lavoro, mi venga da scriverlo in poesia. (Vedi anche queste: https://www.nazioneindiana.com/2006/10/24/oltre-le-nebbie/)

  11. Ecco proprio questo: la riacquisizione ‘occasionale’ del proprio tempo, che si produce nei momenti di pausa (attesa del taxi) da ciò che si ‘deve fare’ e genera versi. Adesso vedo le altre, secondo me è un buon tema, io lo svilupperei in una serie di poesie eliminando il ‘noi’. L’uso della prima persona, in particolare, l’oggettivazione di più personaggi/io narranti che ‘osservano’ Milano Oltre (un non luogo) e i luoghi reali della città. Con questo tipo di taglio, il ‘non avere tempo’ rappresentato anche in chiave di ‘poesia narrativa’, può uscire fuori un poemetto a più voci. Intendo una serie di episodi in versi con una serie di ‘io narranti’ caratterizzati dalla loro alienazione e dal recupero coatto del tempo di ‘guardarsi intorno’ ( mi viene in mente Marcovaldo/funghi in città non so perchè).

  12. nel leggere queste poesie ho scoperto una Milano molto differente rispetto a quella che trovo nelle poesie di Loi (faccio notare però che è l’unico poeta milanese, per lo più in dialetto, che conosco). è interessante vedere queste due facce della stessa città, affiancarle e confrontarle, e scoprire che hanno in comune una presenza di fondo quale è la nebbia.

  13. Marco, non mi va di fare costruzioni troppo poetologiche su quel che in qualche modo mi viene da fare. Ma io questo noi lo sento necessario, almeno quando si presenta. Così come sento necessario una certa coesistenza fra – possiamo chiamarlo così?- afflato lirico e “poesia narrativa”. E’ forse una sorta di resistenza a quella che chiami alienazione, il momento in cui senti di condividere quell’esperienza con molti e, in questo, invocandoli, di rovesciarla.

  14. E’ ovvio che poi uno fa quello che gli viene di fare, ci mancherebbe, la poetologia è quanto di più distante dal mio modo di scrivere (fin troppo narrativo), quindi non mi metto a farla sui testi degli altri……Quello che posso fare, leggendo un testo non mio, è esprimere impressioni, inevitabilmente condizionate da un certo modo di vedere le cose. L’uso del ‘noi’, almeno per quel mi riguarda, mi ha sempre creato difficoltà quando racconto stati d’animo attraverso ‘luoghi’ . In genere mi domando se gli altri si sentano poi rappresentati, da questo ‘noi’, o se non sia arbitrario da parte mia inglobarli in un sentimento di ‘compassione’ o ‘simpatia’ (cioè di ‘sentire insieme’). Non è individualismo (forse si, un po’ lo è…) credo comunque che, quantomeno per certi temi parlare in prima persona sia una assunzione di responsabilità e comunque non impedisca nè effetti lirici, nè un riscatto dall’alinenazione, ogni volta che qualcuno, leggendo, si ritrovi spontaneamente in quell’ ‘io’. Ecco come prima reazione emotiva, ho paura in genere di quelli che mi danno del ‘noi’, ma è un discorso lungo, che va oltre il tuo testo e il fare poesie in generale.

  15. Conosco il posto, ho lavorato lì per un paio d’anni, in uno di quei palazzi, Donatello, Raffaello, o qualcosa di simile. Ho lasciato quel lavoro per uno stupido diverbio con un capo che non mi aveva preso sul serio, o quantomeno era quello che io credevo. La mensa, il tabaccaio, il bar, l’acqua della fontana, tutto chiude alle diciannove, poi una vera morte apparente si impossessa del posto fino al mattino seguente. Il ricordo più nitido, in uno di quei cortili, rimane una eclissi potente, credo del 2000, quando i palazzi divennero lentamente più gialli del solito, e noi a guardare l’ultimo spicchio di sole attraverso la pellicola di un floppy disk stracciato. E anche noi, ora che ci penso, eravamo un pò gialli. E ancora la convinzione di aver sbagliato, e forse ancora la voglia di essere lì, ora, a Milano Oltre. Chi sa di dove si sta parlando non può che rimanere incantato dalle parole di Helena. Come una eclissi quasi totale..

  16. Volevo semplicemente dire che il commento- il racconto- di Diego mi ha fatto molto piacere. E stop. Poi- sarà anche la mossa tendenziosa di chi tira acqua al suo mulino- posso dire che una risposta del genere mi conferma il senso del mio noi. Non tante voci di esseri alienati, tanti pseudoindividui che borbottono la loro residua interniorità (ok, detto così è scorretto), ma l’intuizione che quel che sto provando io, lo sta provando qualcun’altro, molti, che non vedo ma sento essere “miei simili, miei fratelli”. Tipo la donna col figlio malato a casa che non ero io, non lì, non ora. Era una cosa che era capitata a me come a chiunque si trovi in quelle circostanze. O Diego di cui non sapevo nulla. Oggi ci viene raccontato che la condizione degli uomini rispetto al lavoro (il precariato, la competizione, il mobbing e chesso io) sia una faccenda PRIVATA. E questo impedisce ogni forma di solidarietà, di concreta azione comune, per non dire di condivisione che oltrepassi coloro che sono direttamente toccati da uno o l’altro problema. Cosa ottima per chi fa andare avanti le baracche. Ma questo è già un discorso ideologico. Io non voglio rivendicare un “noi” da classe operaia terziaria avanzata, io semplicemente sento che nascosto nel mio io sempre più insignificante rispetto alle cose e al “paesaggio”,c’è questo noi.

  17. Il commento di Diego è piaciuto molto anche a me, comincia in prima persona e poi utilizza il noi in un modo che non mi spaventa, anzi. La tua rivendicazione, Helena, a questo punto è legittima: credo anche io nella solidarietà, però la mia idea-suggerimento sulla possibilità che avresti di costruire un poemetto a più voci su questo tema e su quel luogo-Milano Oltre, resta. Saluti.

  18. Non c’è l’avevo con te, Marco. Pseudoindividuo era un modo per dire: chi si aggrappa all’idea di avere una VICENDA PERSONALE dentro a quel tipo di calderone anodino e condiviso.

  19. Vedi per me (è un po’ la logica dei miei Standards) è proprio questo il punto di maggiore interesse: diventare qualcun altro attraverso i versi, raccontare la sua esperienza, il suo personale sentire che allo stesso tempo si rivela una sorta di ‘luogo comune’, qualche cosa che altri hanno già provato o proveranno, in quelle date circostanze. Peraltro, nutro un profondo rispetto per il sentimento individuale riferito a qualcosa di ‘comune’ e quindi anche a qualcosa di spersonalizzato, in contesti come ‘Milano Oltre’. Ecco per fare un esempio, per me ‘il compagno di scuola che si suicida’ e la reazione emotiva che hai di fronte a una bara che si chiude, è un fatto individuale che tutti (molti?) hanno vissuto. L’umanità sta in questo cogliere comuqnue un ‘io’, all’interno del ‘noi’. La solidarietà sta in questo diventare qualcun altro, per me ma mi rendo conto che dipende anche dai temi trattati e forse nel caso della tua poesia il ‘noi’ indifferenziato ha un suo valore distinto.

  20. Edoardo dice che ho una tendenza al ‘teatro’, con tutti quegli ‘io’ che parlano in rima, in effetti è un po’ così…. Vabbe’ ciao e alla prossima

  21. Non lo so, io sento di essere costretto a non credere più a questo “noi” in questi luoghi. Sono fuggito da “milano oltre” per finire in un altro ammasso di palazzine standardizzate del terziario da multinazionale, stessa luce, stesse sensazioni, solo un po’ più a est di Milano. E a ottobre dell’anno scorso un tipo sulla cinquantina che lavorava in questo complesso, una mattina alle otto, prima che le navette impiegatizie arrivassero, ha pensato bene di salire al settimo e ultimo piano di una di di queste palazzine (non di quella in cui lavorava lui…e qui l’ultimo grande gesto di rispetto verso il proprio marcio posto di lavoro..) e di gettarsi di sotto. il particolare più agghiacciante è che prima di prendere l’ascensore ha attaccato ad una ringhiera al piano terra il testo di “Ed è subito sera”. Ci è cascato proprio vicino. Il lenzuolo bianco lo abbiamo visto tutti, un paio di ragazze che l’hanno visto cadere le hanno portate in ospedale sotto choc, la polizia ha transennato l’area e il furgone funebre ci ha messo un bel po’ prima di arrivare. E’ cosi’, in questi posti si tenta di lavorare, si tenta di vivere e si muore. Guardi la gente camminare nei vialetti verso la mensa e capisci che ognuno sta pensando esattamente le stesse cose, ma tutti per conto loro, senza condividere nulla, sempre con l’accortezza di non andare “oltre” la bega dell’ufficio, le ferie programmate. Tanto poi si scappa a casa e il piccolo mondo impiegatizio si richiude. E anche un suicidio cosi’ eclatante alla fine si riesce a giustificare con le solite parole. L’importante e’ che nessuno ci possa disturbare ricordandoci…ognuno sta solo sul cuor della terra… e in questi posti “oltre” con migliaia di persone intorno non solo e’ ancora piu’ vero, ma si puo’ toccare con mano. Pensavo di mettere un fiore, una pianta, ancorata su quella ringhiera, di stampare la poesia di Quasimodo e di lasciarla li’. Mi han detto di lasciar perdere, che poi si sarebbe dimenticato tutto in fretta, che era depresso, che aveva perso il lavoro, che forse aveva casini in famiglia. E sbrigati a finire quel lavoro, che guarda fuori, non vedi che sta gia’ facendo buio ? Eh gia’, se guardo meglio mi accorgo che ogni giorno, tra un discorso e l’altro….e’ subito sera.

  22. Caro Diego
    E’ proprio questo fatto della spersonalizzazione del dolore, che forse una poesia può un minimo riscattare, dando voce, consistenza e unicità umana a un suicida come tanti se ne vedono cadere dai piani alti di un qualsiasi agglomerato di uffici. Il rischio è la retorica, o il già detto, ma va corso secondo me, a partire dalle proprie personali esperienze.

  23. Non c’è niente da dire, ma proprio niente, di fronte alla morte di un uomo che si butta dalla finestra di un comprensorio di palazzi dove “è subito sera”. Non so se è un idea buona, ma quasi mi verrebbe da chiederti Diego, se posso estrapolare le tue due testimonianze (sarebbe ancora meglio, forse, se lo fai tu stesso) e postarle qui. Voglio dire: lascia perdere quel che riguarda la mia poesia ecc. e tieni quel che riguarda Milano Oltre e luoghi affini. Se vuoi aggiungi. Così cerchiamo di mettere un piccola lapide…Fammi sapere

  24. Scusate, non s’è buttato dalla finestra, perché sti posti infami non ne prevedono di apribili. Mentre me ne stavo lì ad aspettare con questo senso che dopo Segrate c’è Milano Oltre e oltre ancora luoghi uguali (più a est, a nord, a sud ecc.), un mondo impermeabile infinito, pensavo pure: “è questo sarebbe IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI”. Nel senso che- non so di dove sei tu, Diego- ma che ci arrivano da tutta Italia con le lauree e i master che altrimenti non servono a niente, che quella è la meta ultima a cui si possa aspirare…

  25. L’esperienza del suicidio di qualcuno che conoscevamo (o magari di un ‘estraneo’) credo che l’abbiamo vissuta più o meno tutti. Qualcosa da dire secondo me ci può essere, in molti casi la prima cosa che ti viene da fare è mettere qualche verso insieme, o appunto riflettere attraverso parole su un luogo che non è un luogo. In alternativa c’é il silenzio, o la rabbia, dipende da come si è fatti. Tutto qui

  26. la riflessione su una “non soluzione”, la piu’ tragica, che qualcuno ci ha posto di fronte diventa realmente impossibile. forse si, il silenzio e una rabbia sommessa, e alla fine qualche verso che possa andare anche lui “oltre”, rimangono le uniche alternative possibili. In fondo pero’ sento in questo universo impiegatizio pressato in questi complessi un rumore di fondo, di vita, non dico di speranza, ma almeno di presenza. Forse non tutto è perduto.

  27. Non so che dire. Ormai di poesia ne scrivo poca, credo su uno slancio utopico minimo come sentire le presenze simili a Milano Oltre. Se avessi saputo la storia di quello che si è ammazzato citando Quasimodo, forse non l’avrei scritta. L’equilibrio fra speranza e non-speranza è precario.
    Altra cosa: intuisco dalla risposta di Diego che non abbia voglia di far pubblicare i suoi commenti in qualche modo rielaborati come post singolo. E’ cosi?

  28. Helena, scusa l’attesa alla tua risposta, ma non lo so. Ho cercato poi nei giornali, anche locali, un trafiletto su questa storia, ma ho trovato solo uno sparuto riferimento in un paio di colonnine striminzite. E allora penso che la riflessione debba solo essere interiore. E una certa reticenza mista a un profondo rispetto diventa poi predominante. Confesso che anche nello scriverne cosi’, tra noi, mi sembra di violare una sfera talmente personale e intima che mi imbarazza. Un paradosso frose, pensando al suo gesto che e’ stato drammaticamente da lui posto davanti agli occhi di tutti e non consumato da solo in qualche altra tragica modalita’. pero’ e’ cosi’. Alla fine, e penso ai familiari, rimane un dolore da dimenticare (ricordandolo ?) il piu’ presto possibile. E a noi di questi “palazzi spersonalizzati” un incidente di una mattina di settembre…

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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