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Telemachia

di Daniele Ventre

Sull’orizzonte non c’è che un bagliore rosso di sangue
a ricordare la guerra che è stata e gli incendi lontani
e le città rovesciate e le grida: il sogno di pochi
sulle macerie di troppi. I corvi hanno ricco banchetto:
certo perfino gli dèi sono sazi fino a morire,
delle volute di fumo dai roghi. Ogni tanto c’è un rogo:
fuochi per lutto o magari per vittime, che i sacerdoti
sgozzano lungo la riva del mare o su un picco di monte.
Sperano forse che il mare risponda o che il fulmine parli:
sembrano ormai più ragazzi di me, ma ragazzi invecchiati
persi in un sogno di vuote parole e di troppe rinunce,
fra ninnenanne usurate a cui mai, mai niente risponde:
Itaca è bassa sul mare e l’aquila non la conosce
e non si scomoda certo per noi dal suo picco di monte:
l’isola è arida, adatta alle capre, il sole la succhia
e non la bagna la pioggia: il cielo è lo stesso di sempre
con il suo azzurro feroce, che abbaglia e però non è luce.
Dentro la piazza ha parlato anche ieri il vecchio indovino,
quel sacerdote: ripete d’aver ascoltato gli uccelli:
l’hanno annunciato (diceva) che ritorneranno i soldati
e torneranno anche i padri. Mia madre ha ingoiato il suo lutto,
e i pretendenti, anche loro parlavano: dicono sempre
che non si trova un futuro a seguire fiabe di voli,
padri non servono più: noi vedremo il nostro futuro.
Ci crederesti davvero che abbia anche a loro parlato
non si sa più quale dio, se ne sono tanto sicuri.
Ma nel frattempo nessuno ritorna e del resto sul mare
anche le navi per noia non tornano, restano a riva:
sull’orizzonte lontano a volte una nave ci passa
e la guardiamo passare e però è la nave d’un altro:
solo di rado si ferma fra noi, ma non porta che fiabe,
quelle che ascolta mia madre incredula, pronta a fidarsi,
quando non guarda anche lei verso il mare, sull’orizzonte,
dove i fantasmi dei padri si perdono senza ricordo.
Solo una volta fra noi è arrivato un vecchio, un amico
che ricordava mio padre, e so che a sentirlo parlare
non mi sarei mai stancato e l’avrei davvero voluto
che rimanesse fra noi e mi ripetesse ogni giorno
quella leggenda del padre, e le sue avventure infinite
e la canzone dell’onda e il tuono e le scie delle navi.
Dopo quel giorno anche io per me l’ho richiesta, una nave,
nell’assemblea, laggiù in piazza, e volevo andare e cercare
e ricordare mio padre e trovare ancora la forza:
i pretendenti, cortesi, sorrisero: certo non era
tempo di navi e avventure, non più. Giurerei che non sono
meno ragazzi di me, per l’età: ragazzi invecchiati
senza più sogni e con false parole e fin troppa certezza,
quella che fra i privilegi si accumula. Quanto alla nave,
molte ne ho viste passare, da allora, al lontano orizzonte
dove fantasmi e promesse si perdono senza ricordo.

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10 Commenti

  1. Le RIME ci vogliono, le RIME!!! é difficile trovarle, certo, ma non c’è bellezza dove non c’è difficoltà; ora, per gli antichi la difficoltà stava nella successione delle quantità (principalmente, in noi moderni la difficoltà è nella RIMA; se non si usano le rime nel tradurre, si toglie la difficoltà, cioè la bellezza del testo antico, che è anche un modo per distinguersi. Un altro grave errore è credere di poter propinare all’orecchio moderno la stessa successione ritmica dei testi antichi… (Lo credette Carducci). Ma se noi, il massimo che sopportiamo, come verso composto, del genere pari, è il dodecasillabo, e, come versi doppi, il martelliano, come si può pensare di proporre lo stesso schema metrico di un esametro in italiano la cui metrica dei versi richiede soprattutto REGOLARITÀ?

    • Rime ci vogliono solo se il ritmo non calza a pennello
      e non ti accorgi che il ventre ha vergato i suoi versi col metro
      son diciassette le sillabe usate per ogni tornata
      ora taciamo, e facciamo suonare la musica e il carme

  2. bellissimo testo, l’autore deve essere uno che ha parecchia stoffa e parecchio filo da tessere, con annessi attrezzi adeguati alla bisogna

    se fossi stato mai capace di scrivere una cosa del genere, avrei solo messo una virgola dopo “madre”; ma, probabilmente, è solo la mia invidia, più che il mio orecchio, a suggerirmelo

    bravo davvero

  3. Maurizio ha ragione, ci vogliono le rime in poesia, e la regolarità metrica. Tipo “Fratèlli d’Itàlia / l’Itàlia s’è dèsta / de l’èlmo di Scìpio / s’è cìnta la tèsta”. Vuoi mettere? Ventre, si applichi un po’!
    E ci vanno: il cacio sui maccheroni, il completo nero al matrimonio, il titolo “dottore” sulla targhetta alla porta, il difficile e regolato rinnovamento della tradizione (provo: “Nietszche /camicie / vernice”? Ahia, non è omografa. Non abbastanza regolare…)

    Suvvia…

    Voliamo un po’ più alto.
    Leggendola, Ventre, in sospeso silenzio (e, ad esser sinceri, nella lettura a schermo non mi riesce mai troppo bene: oggi è stata una vera eccezione), ho ricordato perché continuare a leggere i classici, più che con mille altre parole.
    Mi sento fraterno al suo Telemaco – così colloquiale e amico il suo monologo interiore -; quel “città rovesciate” fra incendi lontani e grida è una scossa percettiva ed emotiva; l’azzurro immutabile del Mediterraneo che mi affascina nella grecità oggi mi è apparso per quello che è, ritorno dell’identico orrore.
    Nelle sue parole che parlano dell’oggi, mi è ribalenata davanti agli occhi la forza di quell’Omero che purtroppo un liceale scientifico come me può leggere solo tradotto e di cui lei è invece intriso fino a saperne rimodulare in questo modo formidabile la voce.
    I miei più sinceri complimenti.

  4. Dire che siano necessarie le rime significa ignorare tanta poesia, non solo del ‘900, che ne fa a meno senza perdite, anche perché in questo caso il controllo sul ritmo è eccellente e non serve altro. Il rischio semmai consiste nel fatto che il verso di sei accenti, che riproduce la cadenza dell’esametro antico, possa risultare un po’ angusto e artificiale, un po’ troppo letterario. Ma non è il caso di questa poesia, nella quale mi sembra invece che il contenuto, la sequenza delle immagini e il tono dolente ma sobrio, trovino il ritmo adeguato. Nonostante la ricercata tonalità omerica di fondo, la mente non può non andare anche a Pavese che coltivò gli stessi ritmi e una vena di ‘canzone morale’ che pervade anche questi versi, e a (forse l’autore non sarà d’accordo) Lucano, sia per la tendenza della narrazione-descrizione a farsi ‘commento etico’, sia per un certo gusto (non insistito come in Lucano) dell’antitesi e del ragionamento che affiorano dalle immagini.
    Bello.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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