Normali, normali, normali, normali, normali, normali, normali, normali
(Alessandra Carnaroli mi manda una poesia su questa vicenda. 6 anni fa a Montalto di Castro 8 minorenni violentano 1 ragazza di 15 anni. Quando il fatto viene denunciato il paese, sindaco compreso, insorge: sono bravi ragazzi, normali. Gli avvocati della difesa sostengono che gli 8 rapporti fossero “consecutivi e consensuali”. Nei giorni scorsi arriva una sentenza che lascia sbigottiti.)
poesia venuta con la rima
8 rapporti
consecutivi
consecutivi
consecutivi
consecutivi
consecutivi
consecutivi
consecutivi
consecutivi
e consensuali
perché bravi
ragazzi (branco coerente)
costanti. sani.
senza alcuni disturbo
della personalità. in una sola parola
normali.
normali
normali
normali
normali
normali
normali
normali.
se disturbati
forse
si sarebbero
fermati (prima).
il sindaco di
Montalto
intanto
paga
le spese per gli avvocati
degli imputati
(come difendere /del resto
una che resta
a terra mentre
le sue amiche fanno
festa
mentre i pini
pure
a lato
quale stupro
se l’hai
data /un testimone parla
di
offertasessuale parla di
coperta
inferta
con la forza
tu coperta
facilissima da
piegare
ora sei
un cambio di stagione
invernale)
*
[Nell’immagine una scultura di Maurizio Cattelan, senza titolo, 2008]
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E’ ora che si dica forte quanto la normalità sia devastante, orrenda genia da branco. E’ ora che sia dica quanto la normalità debba far paura.
normali, consecutivi, consenzienti : tre parole che si scagliano come pietre per la lapidazione di una Maddalena che non ha mai fine.
Questa storia mi fa semplicemente vomitare. Otto volte. Nove, se penso al sindaco.
Propongo di convincere 20 maschioni a stuprare il sindaco in questione. Poi, mi dirà se è stato consenziente.
C’è un video, rintracciabile in rete, nel quale una giornalista fatica a tenere a bada un gruppo di, presumibilmente, amici e parenti degli imputati, che si sentono in diritto, per questo vincolo di sangue, in quanto grande famiglia, di processare pubblicamente la ragazza.
lei era consenziente, già nel pomeriggio era stata con un altro (non uno degli otto), doveva rimanere in casa ed è pure brutta.
quindi, in virtù di questa sfiga natale, questo difetto di fabbricazione, disponibile per forza (in perenne ricerca di cazzi) in quanto pare assurdo, a Montalto e in Italia tutta, fare lo sforzo doppio dello stupro col sacchetto in testa. Perché rischiare per un’inchiavabile culona? Il ragionamento non fa una piega, infatti applausi e risate.
Non solo a Montalto, purtroppo.
Storia vergognosa e infame, la ricordo, e prosegue nel modo peggiore. Ma è “legale” che il comune paghi la difesa degli imputati?
Una storia vergognosa perché un “paese” intero ha deciso che solo pazzi e malati possono commettere reati (o al limite, pure i sani ma solo come gesto estremo in preda al tanto citato “raptus”, alla “follia d’amore”) . Lucidità che non mancava agli otto, non disturbati, rispettosi del turno. Una storia vergognosa perché la difesa si attacca sull’unica sponda rimasta (da sempre quella) “lei era consenziente”, trasformando la ragazza da vittima a tentatrice, premendo sul tasto che fa vacillare anche il difensore più convinto “lei si è offerta”. e per un attimo dubitiamo. ecco il mostro, quello che resta di una cultura che ci ha sempre imposto stereotipi sessisti limitati e limitanti. Per questo si ha cura di riportare che la ragazza “era bravissima a scuola”: per renderla accettabile, conferirle un’aura da “brava ragazza”. Perché se i suoi voti fossero stati pessimi, se dopo lo stupro invece di restare in casa, dimessa, a cucinare per i fratelli, avesse ripreso la sua vita di ragazza, se quella notte avesse deciso di appartarsi in pineta con il primo ragazzo (come riportato da un testimone) e poi si fosse negata davanti al branco, allora forse agli occhi di tutti, ai nostri occhi, sarebbe un po’ meno vittima. Perché un no, in italia, ancora oggi, non basta a salvarti dalla bestia. Deve essere un no fino in fondo, fino al sangue, alla prova certa, alla quasi morte. allora il dubbio, magari, scompare. Sempre che la vittima non indossasse al momento un paio di jeans aderenti.
condivido la necessita’ di ricordare e di denunciare fatti terribili come questo. Ricordo che ero in redazione quando fu battuta la notizia, e il mio caporedattore mi chiese di aspettare a darla, perché la ragazza “era consenziente”. Ovvio che non era così . Fatti come questi fanno male, entrano nella storia di ognuna di noi, (tutte per una) e non la lasciano più. Ma la poesia per me, non può raccontare la cronaca, lo fanno male, ma lo fanno già i giornalisti. Allora mi chiedo, giustamente, credo, in quale contesto questa poesia sia inserita, affinché abbia un senso, oltre la cronaca, appunto.
Luigia Sorrentino
Gentile Luigia, perché la poesia non può raccontare la cronaca? Grazie per l’eventuale risposta, alessandra carnaroli
Mi ricorda il carteggio Adorno/Celan questa richiesta di contesto per una poesia sull’orrore della cronaca, eppure oggi possiamo dire che la migliore poesia la raccolse quell’orrore storico e il suo carico di rabbia e dolore.
Credo che il valore di questa poesia sia nella denuncia, in quel j’accuse, quell’otto volte ripetuto, alla Jack Hirschman, per intenderci: never never never never never
http://www.youtube.com/watch?v=LzDMxf7ljdw
Cara Alessandra,
la poesia non può raccontare la cronaca perché rischia di farlo male. La cronaca, quella dei giornalisti, basta e avanza.
Non avevo risposto a questa tua domanda e mi scuso… Credo di averlo chiarito più avanti Alessandra, senza nulla togliere a quanto tu hai scritto, in tutta libertà e partecipazione.la cronaca racconta un fatto, non va oltre l’orribilita del fatto in se’. A volte va anche oltre quel fatto, nel bene e nel male. La poesia veicola un sentimento piu’ ampio, lo fa seguendo una lingua che assume -‘che dovrebbe assumere – un linguaggio che non e’ quello del singolo episodio di cronaca. tutto qui Alessandra. E’ olo il mio punto di vista. Ma il tuo testo me lo immagino inserito in una piece più ampia che vada oltre quel singolo episodio. E’ così che acquista valore. Magari potresti pensarci e elaborare questo lavoro. I miei migliori auguri. Ciao.
Grazie per la risposta, Luigia, non avevo ben colto il senso del termine “contesto”.
Terrò in considerazione il consiglio.
Alessandra
grazie a te Alessandra. Un caldo abbraccio.
Ciao Luigia, ti scrivo di seguito i due pensieri che ho avuto (schizofrenicamente insieme), quando ho letto il tuo commento. Ci penserò ancora, per ora prendile così, come riflessioni immediate.
1- La poesia “non può raccontare la cronaca”, dici, ma continua a farlo, l’ha sempre fatto, e perché non dovrebbe farlo? lo fanno le canzoni, le sculture, i quadri, perché non la poesia? lo fa benissimo, del resto: ricordo le *bellissime poesie di Charles Reznikoff sui campi di sterminio – erano ‘racconti’ di ‘fatti’, liste anodine, cronache quotidiane, senza neanche una metafora o una rima ad adornare un po’ la faccenda, ad istruirci un poco, ad ammonire le generazioni future bla-bla. Solo cronaca, solo orrore. Ma se le poesie sulla Shoah le accettiamo ormai come un ‘genere’ consolidato, tra il memorialistico e l’elegia (è la museificazione della Shoah a renderle statutarie), accettare il presente come risorsa della scrittura poetica è più faticoso, lo ammetto. Il presente è più difficile, sfuggente, controverso. Non gode dei benefici di essere già Storia. Lo ammetto, anch’io le prime volte che leggevo Alessandra Carnaroli mi sono detta “ma che cosa è QUESTO?” – il suo libro mi bruciava tra le mani, mi mordeva. Le parole erano quelle sguaiate, sgrammaticate, dissennate del presente, quelle dei vicini di casa intervistati dopo lo sterminio di una famiglia, quelle dei giornalisti d’assalto, quelle della vampirizzazione mordi-e-fuggi dei media, quelle del pregiudizio di massa…neanche le vittime sembravano saperne di più. Non godevano di alcun punto di vista privilegiato, non offrivano catarsi, né consolante immedesimazione. C’era tutto il vuoto del pop marcio da cronaca nera ri-potenziato nella speciale intensità, nella speciale densità dell’attenzione che fa la poesia.
Quando i testi provocano questo scarto, questo spiazzamento nelle aspettative estetiche, spesso valgono qualcosa, io credo. Nel testo qui sopra questo avviene non solo attraverso la parodia grottesca e feroce di quei due aggettivi, “consenzienti” e “normali”, rivoltati contro se stessi, nella loro aspirazione alla ragionevolezza smascherata come ennesima violenza, ma lo fa disinnescando, al tempo stesso, le aspirazioni *belle e *alte della poesia, il suo statuto consolatorio. Normali/ normali/ normali/ normali diventa la più perfetta, la più “normale”, la più tremenda delle rime.
2- ma cosa importa se questa non è una poesia? cosa importa che “non abbia un senso oltre la cronaca”? chi se ne frega della poesia? c’è un genocidio in corso, ed è fisico, ed è psichico, ed è pure culturale: non dobbiamo scriverlo dappertutto? in tutti i modi, in tutte le lingue che sappiamo?
scrive Renata sulle poesie di Alessandra:
“C’era tutto il vuoto del pop marcio da cronaca nera ri-potenziato nella speciale intensità, nella speciale densità dell’attenzione che fa la poesia.”
Infatti la poesia (questa nello specifico) NON racconta la cronaca. La disinnesca e ne fa realtà.
Avevo risposto amche a te Renata, ma non vedo la risposta al tuo commento.
Ecco, vedi, lo hai detto bene Renata: chi se ne frega della poesia?
Io penso che su fatti del genere la poesia non può entrare, non deve, si rischia di fare il giornalista. Si può, magari, scrivere un editoriale, esprimere il prorpio pensiero, il proprio disgusto. Insomma, si può trovare un ‘canone’ che inneschi una ribellione su argomenti di questo genere. Non critico la tua scelta di pubblicare questo testo, non intendevo criticare te, personalmente, sia chiaro. E’ interessante capire il contesto in cui si inserisce questa poesia, come ho già detto.
La poesia continua a raccontare la Storia. Certo, ma come? Io credo che sia così, ma una cosa è raccontare la Storia, vivendola, appunto nella lingua della poesia, altra cosa è raccontare in forma di poesia un fatto di cronaca. Facevo soltanto questa distinzione.
In merito alla Shoah. Vedi Renata, se Charles Reznikoff l’ha raccontata nuda e cruda, senza mezzi termini, Paul Celan ha raccontato il trauma di un ebreo sfuggito ai campi di sterminio nazista, stretto (verticalmente stretto) nell’angoscia di vivere in un mondo dominato dal caos, dallo sfacelo, dalla “catastrofe” appunto. Scrive Peter Szondi, amico e studioso di Celan: “La sua poesia rifiuta di stare ulteriormente al servizio della realtà.” Cosa vuol dire questo? Che la poesia non è necessariamente mimesi, di certo non deve essere rappresentazione. Solo se non lo è, diviene realtà, realtà che si configura, certo, nella lingua della poesia. Celan, ma anche altri, penso a Ryszard Krynicki, nato in un campo di concentramento, si servono di una lingua che predilige una parola “nata dal silenzio”, da un passaggio interiore che si oppone al grido e all’atrocità della violenza. Ecco: preferisco trovarmi nel lembo di un mondo scomposto, non nel mondo scomposto in sé.
ci sono autori che per tutta la vita ci parlano di fiori e margherite:
non per questo li definiamo floricultori. Piersanti scrive delle campagne di Urbino, dovremmo dirgli che è un contadino? (magari, chissà :-)
Giampiero Neri ha dedicato i suoi testi migliori alla farfalla Atropo e a varie specie di insetti: credo che a nessuno venga in mente di feninirlo ENTOMOLOGO, la critica lo annovera tra gli autori di versi…
potremmo continuare ab libitum. La questione è che a furia di porre barriere, erigere pali e paletti,
in poesia si potrà (stando alle sue affermazioni) affrontare e dire molto poco, e in gran ristrettezza.
Chi ha letto il libro di Alessandra Carnaroli, si è trovato di fronte ad una scrittura notevole, attualissima e raffinata in certe sue morfologie espressive… non si tratta di dispacci dell’ansa, per intenderci.
Cara Luigia, nessun putiferio: si parla, si argomenta, e lo schermo amplifica tutto, ma va bene così. Sopra ho fatto l’esempio di Reznikoff (che con Carnaroli ci azzecca poco, lo so, ma era solo per portare un modello, diciamo, eloquentemente ‘cronachistico’ a contestare quel che scrivevi circa l’impossibilità della poesia a raccontare), tu gli hai opposto Celan – Celan amatissimo, ci mancherebbe – ma questa non è una gara, e non è neanche una disputa sul gusto. Il punto è un altro, e a quello resistevo: prescrivere cosa “non si può” e “non si deve” è, oltre che evidentemente limitante, anche illusorio.
Può valere per se stessi, per la propria scrittura (può persino essere produttivo: so quello che la mia poesia non può, ovvero non sa, fare, ed è bene), ma non è generalizzabile. È molto difficile dire certe cose sulla poesia senza risultare dottrinali, mi rendo conto. Tu dici che la poesia nasce dal silenzio, e io potrei dire che nasce dall’esposizione, dalla vulnerabilità, tu citi la poesia non è al servizio della realtà, e io ti contro-cito la poesia è una forma di conoscenza della realtà, e così via, fino a che persino questa mia invocazione all’apertura risulterebbe pedante.
Ma dopotutto – l’hai detto tu stessa qua sopra – ogni atto di parola vale se sta in un discorso poetico più ampio. La lingua non è della poesia, è di chi se la prende. Tutto qua. A noi, lettori-critici, attivare gli strumenti per leggerla e comprenderla.
Un’ultima cosa. C’è stato un malinteso. Le poesie di Alessandra non sono mimetiche. Non entrerò nella faccenda, troppo complicata da sintetizzare qui adesso, di quella che è una pretesa di oggettività del realismo (che finge di essere trasposizione del reale, mentre si costruisce come tale). Riprendo invece Francesca Matteoni: “questa poesia NON racconta la cronaca, la disinnesca e ne fa realtà”. Cosa disinnesca? L’effetto normalizzante e anestetizzante della cronaca. Come la rende ‘reale’? Creando voci di devastati che non possono trascendere se stessi (sono troppo deboli, troppo spossati), non posso sfuggire la devastazione, ma possono, quello sì, avere visioni. E avere visioni DALLA distruzione è già un modo di rifarsene. Il “tu coperta” ripiegata e messa da parte è micidiale, ma diventa subito, icasticamente, figura dell’enormità di quella violenza. Come i capelli di Celan, in fondo. Insomma, qui non c’è documentario, non c’è neanche denuncia sociale, né psicologie, né prediche. Ha ragione Silvia de March quando parla di dimensione favolistica. E di grande raffinatezza.
Concordo con Luigia nell’affermare che i giornalisti raccontano “male” la violenza sulle donne. è di qualche giorno fa l’articolo di Repubblica che denuncia lo stupro di una ragazza canadese da parte di un tassista in un parcheggio a pochi metri dalla casa della vittima. “Con altri ragazzi e ragazze (la vittima) si era SCATENATA per tutta la sera, bevendo anche diversi cocktail, tant’è che alle 3 di notte, quando era uscita dal locale era VISIBILMENTE ubriaca” (il maiuscolo è mio). A meno che il giornalista non fosse stato presente devo dedurre che la sua sia una libera interpretazione del comportamento della ragazza, non privo di un implicito messaggio morale. La ragazza non ballava, si scatenava (da quali catene cercava di liberarsi, a quale ruolo imposto si ribellava? senza più freni poteva essere percepita come un individuo “pericoloso” per l’ordine costituito?), non era in stato di ebbrezza ma “visibilmente ubriaca”: sono espressioni gravi perché insinuano un dubbio sulla cosiddetta “moralità della ragazza” . Non si parla esplicitamente di colpevolezza ma si continua a rendere la vittima in qualche modo complice della tragedia, in qualche modo causa. Se si fosse arrampicata col culo sui muri bestemmiando in canadese cambierebbe in qualche modo la nostra percezione dello stupro? Diminuirebbe ai nostri occhi la sua gravità? Se i giornali e i mezzi di comunicazione non riescono a trovare un modo nuovo, libero da stereotipi sessisti (retaggio di una cultura patriarcale che continua ad imporre i suoi modelli) per denunciare la violenza sulle donne e qualsiasi altro abuso di potere e tentativo di possesso, allora sono necessarie narrazioni diverse. e se non vogliamo definirle poesie poco importa: chiamiamoli “scritti che vanno spesso a capo” ma non smettiamo di raccontare la cronaca con una voce diversa. perché qui stiamo. questo denunciamo.
Bene Alessandra. Condivido, ma non volevo scatenare un putiferio. Siamo tutti in accordo, infine. Il tuo libro probabilmente – non l’ho letto – è un atto di denuncia civile al femminicidio.
Ti avevo risposto, Renata, ma non vedo la pubblicazione del commento. Forse uscirà più tardi? Il era stato perfettamente inviato!
Alessandra, mi riferivo a te..
Ma non vedo altri commenti che avevo lasciato.
Gran lavoro, Alessandra!
“Se non sei il cadavere sei l’assassino, se non sei la vittima sei il colpevole. Non c’è più distanza.”
Un grande lavoro quello di Alessandra. Questa non è che l’ultima espressione.
qui neanche un giorno di galera!
janet(carmine vitale)
Janet è morta qualche giorno fa. aveva solo 32 anni
Se ne è andata dopo aver trascorso una notte intera su di una sedia davanti all’entrata del pronto soccorso del vecchio ospedale ascalesi nel ventre di napoli .in una notte fredda e sporca.
Aveva passato gli ultimi sei anni di vita in mezzo ad una strada,come un anima morta
Attaccata ad una bottiglia come una foglia al proprio albero
Gridava sempre janet.
Gridava dalla mattina alla sera mentre si trascinava stanca più che mai, nei vicoletti sudici a ridosso di via Toledo . Sempre le stesse identiche parole di quella notte: vergogna schifo, io sporca.
Quando l’ho rivista è stato come ricevere un pugno in pieno volto
Perché io avevo già conosciuto Janet che in realtà si chiamava Hassan Khalid Hodan ed era somala e la sua vita era già morta una volta.
Hassan,la piccola donna che mori due volte.
Perché il 20 di giugno del 96 la stessa notte in cui la primavera cede il passo all’estate,durante una gita lontano da Roma dove faceva le pulizie, si perché Janet faceva le pulizie , aveva conosciuto un paio di ragazzotti del mio paese in quella zona oscura a ridosso del Vesuvio piena di aria pesante e spazzatura e portata in un casolare in mezzo alla campagna,era stata legata e violentata a turno per due giorni da un branco di ventisette , ventisette bravi guaglioni
“e che non si dica che sono cattivi!” Furono subito assolti dall’opinione pubblica di quella specie di paese
“sono tutti bravi ragazzi. Sono i nostri figli”
“la colpa è solo sua .è solo una puttana. È lei che li ha provocati”
Perché dalle mie parti era ed è ancora così
Una donna di colore e per di più che esce da sola con due ragazzi è solo una puttana .una la cui vita non vale niente
Meno di zero
Quindi era nera era giovane era sola e pure prostituta
E allora tanto vale fottersela a turno e poi tutt’insieme tanto che vuoi che sia
È solo una puttana
Questo sentenziò la piazza
E janet cominciò a scappare dai ricordi
Da quelle quarantott’ore legata alle ruote di un carro di campagna
Dal giorno in cui diventò pazza
Qui Il lavoro non ti stanca
Qui Il sole ti tocca la faccia
*Perché è così l’amore :idea
una la scrissi ancora prima di conoscerti affiorò in versi carsici, mentre lavavo il pavimento me l’appuntai senza neanche togliere i guanti venne di getto, come acqua strizzata da uno straccio, una parola dopo un’altra, con quell’idea di amore così vaga e inquieta così come a volte guardando uno sconosciuto affiora incontrollata e astratta l’idea di un figlio
Aveva questa poesia nella tasca del cappotto il giorno che è morta ed una specie di sorriso triste
Solo quando era ubriaca ,sorrideva
E così l’avevo riconosciuta. da quel sorriso da quelle foto pubblicate quel giugno di sei anni prima
Per un attimo mi sono illuso che riconoscesse la mia voce di dentro
E invece ha tirato diritto
Qui Il lavoro non ti stanca
Qui Il sole ti tocca la faccia
In una notte buia di dicembre si è presentata con un buco alla testa e il volto sfigurato al pronto soccorso
La sorella arrivata da Roma ha detto che piangeva.
Piangeva come piangono i bambini
In maniera pura .Come non le accadeva più da tanto tempo.
E nonostante queste lacrime così calde è rimasta fuori stretta tra l’alba e le braccia di una sorella
“Era solo ubriaca”dicevano le voci
Come se questo potesse lenire quel dolore cosiìcupo .
Poi cominciò a sputare sangue
E qualche lunghissima ora più tardi è morta sul freddo acciaio di un tavolo operatorio
Un ‘altra volta
Sei anni dopo quello stupro di gruppo.
per il quale nessuno, nessuno ha mai fatto nemmeno un giorno di galera. Tutti bravi ragazzi e con qualcuno avevo forse anche giocato a pallone da piccolo in quelle notti d’estate che scorrono al centro di una piazza
Perché è cosi
Lei era nera povera ignobile e bella
Perché è così Janet, l’amore
Vago ed inquieto, come un’idea
Un’idea. Janet
questa è una storia vera.
Quest’altra “orripilanza”non la conoscevo. Così ben narrata è forse ancora più sconvolgente.
Ho letto in una cronaca (al momento mi sfuggono i dati) che spesso i comandanti di un esercito assediante ordinavano di catturare nelle campagne alcune ragazze da “offrire” ai soldati.
In cinque o sei venivano violentate centinaia di volte ed erano cadaveri ben prima che l’ultimo avesse avuto la sua parte.
Per Janet, in definitiva, diversi secoli sono trascorsi invano.
fortuna che esistono anche scritture come queste della Carnaroli e di Vitale, che si proiettano fuori dai soliti gruppuscoli contrapposti liricoavanguardistici e nazionalpopolelitari.
bene e grazie anche a Vitale.
@Luigia Sorrentino:
gentile autrice, potrebbe spiegare perchè e in ragione di cosa lei afferma che “LA POESIA NON PUò RACCONTARE LA CRONACA” ?
premesso che potrei anche essere d’accordo, non ritiene che la sua affermazione abbia un che di categorico e di pregiudiziale?
potrei aggiungere che:
LA POESIA NON PUò RACCONTARE LA LUNA
LA POESIA NON PUò RACCONTARE IL SOLE
E LE ALTRE STELLE.
LA POESIA NON PUò RACCONTARE IL NULLA, E NON PUò RACCONTARE UN BEL NULLA.
mi rendo conto di apparire didascalico e tautologico, ma porebbe balenarci l’idea che forse in quell’oggetto misterioso (e sacro, sacrale per qualcuno)sta il luogo del tutto dicibile?
in fondo, cara Luigia,
Dante Alighieri ha indicato una via possibile: una pratica della poesia come sconfinamento continuo, e anche come curiosità sollecitante e urticante.
Chi più di lui ha frequentato CRONACA E REALTà? eppure, proprio dai realia vengono spesso le sollecitazioni migliori (Omero, Shakespeare, Lucano, Virgilio, Lucrezio, Joyce, Eliot) cosa può essere più polisemico e simbolico della realtà stessa?
la pratica della parola investe da sempre mondi lontanissimi, pianeti,
ma anche microcosmi visibili e tangibili, inferni quotidiani,
che,
per il fatto di essere tali ( e inferni, e quotidiani) non hanno per questo meno dignità di essere rappresentati (e raccontati) e detti.
Ammesso che si possa accogliere che in quel genere-mare-magnum che ci si ostina a chiamare Poesia, possa albergare anche qualcosa che abbia a che fare con il racconto (evito l’elencatio dei generi e sottogeneri, tanto li conosciamo tutti)
in attesa della sua voce,
cordialità,
anteo crocioni
Credo di aver risposto alla sua provocazione poco sopra Anteo. Accettare un punto di vista ‘diverso’ è un atto di civiltà.
la mia non è una provocazione, Luigia,
bensì una richiesta di chiarimento.
accetto tutto, non si spertichi in lezioni di civiltà:
la questione è che lei non ha spiegato il ‘suo’ punto di vista. e spiegare il proprio punto di vista è un atto di civiltà.
Il suo ‘punto di vista’ (astorico, irrelato, autoreferenziale) dimostra sostanziali lacune nella storia della poesia:
dimostra di non tenere in considerazione ad esempio
tanta poesia classica che ha confidato nella cronaca e nella realtà, che ha saputo fare della Storia una alta pagina di scrittura in versi. ignorare questo, significa ignorare che la terra giro attorno al sole.
Dante ha scritto La Divina Commedia, quindi non si spertichi lei. Il mio commento è stato spontaneo. Ho spiegato benissimo cosa intendevo dire, lo ha ammesso persino Alessandra. Sa cosa penso? Cheuna persona che si firma “miccia attivata” cerca il pretesto autodistruttivo già nel nome. Questo non ha niente a che fare con la poesia.
Le auguro una buona giornata!
Milton ha scritto Il paradiso perduto, Eliot, La terra desolata: e allora?
Divina Commedia è un sintagma, se lei dà peso solo al primo termine, non la comprende appieno: si rilegga (o si legga) Auerbach.
ma qui non si tratta di mimesi con la realtà, ovviamente.
non credo che lei abbia gli strumenti per stabilire cosa è dentro e cosa è fuori la poesia
difficile decidersi: è peggio la storia o la poesia?
al di là di ogni giudizio meramente letterario, sindacabile quanto personale, è orripilante il dubbio che qui si pone.
grazie alessandra e renata.