Figli della bolla formativa: laureati, precari e al nero

precarious thought

di Roberto Ciccarelli

A un anno dalla laurea lavora solo un laureato su tre. E chi lavora è sempre più precario, viene pagato in nero. Dopo cinque anni la situazione tende a migliorare: lavorano stabilmente 7 laureati su 10, tra i triennali quasi 8 su 10. Sono i dati del XV rapporto Almalaurea che colgono il drastico aumento della disoccupazione dei «colletti bianchi» che tra il 2010 e il 2011 è aumentata del 4% passando dal 19 al 23%. Una tendenza cresciuta del 5% negli ultimi 5 anni. Il precariato cresce tra i laureati triennali, +10% dal 2008 e +6% tra gli specialisti. Ma la laurea resta sempre un titolo da prendere perché garantisce un tasso di occupazione più elevato rispetto al diploma (+12%). Le prospettive non sono però rassicuranti.

La bolla formativa è esplosa

Nei prossimi anni la componente maggioritaria dell’offerta di lavoro sarà costituita da individui in possesso della scuola dell’obbligo o di un diploma secondario. Nel 2010 il 37% dei manager aveva completato tutt’al più la scuola dell’obbligo, contro il 19% della media europea a 15 paesi e il 7% della Germania. Su 407 mila assunzioni previste, il 14,5% ha coinvolto i laureati e il 32,3% i lavoratori senza formazione specifica. Insomma per dirigere un’azienda – medio-piccola – non c’è bisogno di una specializzazione e per essere assunti non occorre la laurea.

Una volta di più Almalaurea conferma che la maggior responsabile dello scacco dell’istruzione pubblica italiana non è la scuola, o l’università, bensì il ridotto interesse del tessuto imprenditoriale (costituito per la maggioranza da Pmi) ad assumere personale qualificato, a partire dai livelli più alti. Se i vertici di un’azienda non sono laureati, perchè dovrebbero assumere dipendenti più qualificati di loro?

Dicerie dei piccoli imprenditori

La controprova è stata fornita da un’indagine commissionata al Censis dalla Cna dove questa realtà viene rovesciata e la responsabilità viene addebitata agli under 25 ai quali i piccoli imprenditori attribuiscono la scarsa, o inesistente, volontà delle aziende di fare nuove assunzioni.

La Cna stigmatizza l’approssimativa preparazione tecnica del 39,5% dei giovani, lamenta la loro scarsa attitudine del 26,6% al lavoro artigiano e la scarsa propensione a sostenere la fatica fisica (nel 25,1% dei casi). Uno slancio di realismo impedisce all’indagine di addebitare la stagnazione delle Pmi solo al morbo del «lazzaronismo» che avrebbe colpito i giovani dall’inizio della crisi. La Cna sposta il mirino sul bersaglio grosso. La colpa della crisi è della scuola. Gli imprenditori denunciano il suo forte scollamento dal mondo dell’impresa.

Tre aziende su 4 giudicano la scuola inadatta ai propri bisogni (76,6%), per una su 4 è del tutto inadeguata (24,2%). Si lamenta inoltre il poco tempo dedicato alla formazione pratica (39,7%) e la carenza di occasioni di tirocinio (27,7%). Per il 23,2% degli imprenditori la scuola non è in grado di trasmettere i valori del mondo del lavoro. Non si dice quali, forse sono quelli della massima flessibilizzazione e dei salari ridotti? Non importa, perché sul banco degli accusati c’è l’intero sistema educativo che non risponde ai bisogni delle aziende, figlio di un’impostazione teorica e generalista, frammentato in una miriade di percorsi formativi che non permettono uno sbocco occupazionale.

L’indagine sottolinea inoltre che il 33% delle imprese è riuscita ad assumere nuovo personale, il più delle volte in sostituzione di altre figure. Più di un’impresa su 4 (26,4%) ha fatto ricorso alla cassa integrazione, il 17,1% delle imprese ha ridotto l’orario di lavoro dei propri dipendenti, il 16,6% riorganizzato i processi di lavoro, il 13,6% riconvertito professionalità già presenti all’interno dell’azienda. Un’impresa su 10 ha ridotto lo stipendio dei dipendenti (10,7%), mentre sono poche di meno quelle che non hanno rinnovato contratti a termine o di collaborazione (7,9%). Può stupire fino a un certo punto che la rude razza pagana delle piccole imprese consideri la formazione scolastica con un’alzata di ciglio. In fondo questa è la tradizionale rappresentazione del piccolo imprenditore italiano interessato più al «fare» che agli inutili discorsi «intellettuali».

 

cv

 

La campagna contro la “licealizzazione” della società

Questa campagna contro la scuola, come istituzione e come luogo della formazione di saperi “non utili” alle aziende e quindi alla società è il fattore che ha fatto esplodere la bolla formativa. Dieci anni fa, lo ricorderete, non passava settimana in cui tutti enfatizzavano il ruolo dei master o della laurea per favorire l’ascensore sociale. Da quando, invece, ci si è resi conto che le aziende non assumono, lo Stato ha bloccato il turn-over e moltiplica a dismisura i precari nella pubblica amministrazione (secondo la Cgia di Mestre sono 3,3 milioni di persone) è partita la caccia alla “laurea inutile”. E poi si è arrivati a sostenere che è ormai “inutile” laurearsi per trovare un posto di lavoro stabile. E ben retribuito.

Feroce è stata la campagna contro la “licealizzazione” della società. Tutti che volevano la laurea, nessuno che accettava i lavori “umili”. Esemplare è stato, ad esempio, Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato: nel 2011, 45 mila posti tra i mestieri artigiani “ad alta intensità manuale” sono rimasti scoperti per mancanza di candidati. Stesso discorso quando, sempre nel 2011, si è scoperto che i profili più ricercati tra i “giovani” nel 2011 sono i cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi turistici (+23,4%).

Curiosa espressione “licealizzazione”. Perché a licealizzare la società è stata innanzitutto la riforma Berlinguer-Zecchino del 2000, il famoso “3+2″, che ha organizzato i corsi di laurea con i moduli di insegnamento, spezzettando gli esami secondo un commercio di debiti e crediti. Una laurea è la somma di questo smercio quotidiano, non l’accumulazione e la differenziazione di saperi in base ad un’esperienza, un dialogo. In compenso si fanno tanti stage. Gratuiti. Questa riforma è stata un fallimento, più volte sottolineato in questi anni dai rapporti Almalaurea. La campagna contro l’istruzione pubblica, e il ruolo della scuola, lo ha rimosso. Con un duplice risultato: si delegittima il sistema della formazione fallito per incapacità dei governi e si sposta la responsabilità sui soggetti che non accettano le possibilità offerte dalla società.

Le prove del fallimento? Le ha date il governo Monti quando ha ammesso che l’obiettivo fissato dalla Commissione Europea per il 2020 è irraggiungibile: il 40% di laureati nella popolazione di età tra i 30-34 anni. Oggi siamo fermi al 26-27%. Insieme alla Romania, l’Italia è il paese più arretrato d’Europa.

Compressione dei redditi

L’indagine Almalaurea ha coinvolto oltre 400 mila laureati in 64 atenei e registra una contrazione delle retribuzione dei laureati tra il 16 e il 18%, di poco superiore ai mille euro, 1.400 dopo cinque anni. Gli ingegneri guadagnano di più (1.748 euro al mese), gli insegnanti sono i più poveri (1.122 euro). Questa situazione è stata provocata da due fattori: l’Italia si trova agli ultimi posti per la quota di laureati sia per la fascia di età 55-64 anni sia per quella 25-34 anni. E i laureati non guadagnano abbastanza, e in maniera duratura. Quindi non pagano le tasse, non versano i contributi, non finanziano le prestazioni del Welfare e quindi, in cambio, non riceveranno una pensione, un sussidio di disoccupazione, un reddito di base, prestazioni dignitose nel sistema sanitario nazionale. E’ una delle catene prodotte dall’esplosione della bolla formativa. La recessione dei lavori della conoscenza colpisce al cuore le nuove generazioni e lo Stato sociale.

(Im)mobilità sociale

In questa condizione, la mobilità sociale è un bene residuale riservato a coloro che possiedono più risorse familiari per sostenere la povertà dilagante. Le indagini Almalaurea hanno messo in evidenza che una parte rilevante dei laureati proviene da famiglie i cui genitori sono privi di titolo di studio universitario. Fra i laureati di primo livello del 2011 la percentuale di laureati con genitori non laureati raggiunge il 75 per cento. La selezione sociale inizia quando si passa alla laurea di secondo livello. Fra i laureati specialistici la quota di chi proviene da famiglie con genitori non laureati scende al 70 per cento. Un’ulteriore conferma la si ottiene esaminando l’origine sociale di provenienza dei laureati specialistici a ciclo unico (medicina e chirurgia, giurisprudenza, ecc.): le famiglie con i genitori non laureati calano al 54 per cento. Una giustizia sociale di classe.

 

ps

[“the p(recarious) s(cholar)”, da dance scriber]

L’importanza di una laurea in lettere

C’è anche un altro luogo comune confutato dal XV rapporto Almalaurea: visto che i laureati non trovano lavoro, e quelli che lo trovano svolgono ruoli non «allineati» alla loro formazione, è inevitabile restringere l’accesso alla formazione terziaria e a quella specialistica, al fine di garantire a pochi «eccellenti» l’ingresso sul mercato. Un luogo comune che dovrebbe permettere, ad esempio, agli ingegneri informatici – che sono pochi e molto richiesti – di percepire un buon reddito.

Almalaurea dimostra che tra il 2008 e il 2012 è accaduto esattamente l’opposto: le loro retribuzioni si sono ridotte del 9% (il 17% nel caso dei laureati specialistici). Non resiste nemmeno l’ultimo tabù dell’ignoranza dettata per legge. Quante volte è stato ripetuto che «non conviene» prendere una laurea umanistica, perché di letterati o avvocati ce ne sono a bizzeffe, e «sono tutti disoccupati»?

Dati alla mano, AlmaLaurea dimostra che rispetto alla Germania, in italia ci sono pochi laureati in queste discipline. Sembra assurdo, ma è proprio così: nel 2010 in Italia erano il 19%, mentre in Germania il 23%. La ragione per aumentare il numero di questi laureati viene spiegata con Martha Nussbaum: «le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica» e anche con l’idea che gli «umanisti» siano più sensibili rispetto a «lavori che non sono stati ancora creati, per tecnologie che non sono ancora state inventate».

Troppe cose per un governo inesistente

Almalaurea insiste: bisogna rifinanziare scuola e università, premiare il “capitale umano”, accrescere il “valore aggiunto” della formazione delle persone. Un giorno, tutto questo, arriverà, forse. Ma non conviene, prima di tutto, affrontare la volontà delle imprese di non assumere, sbloccare il turn over nella scuola e nell’università, modificare le riforme Gelmini che impediscono un serio reclutamento, modificare nella sostanza la formazione professionale al di là degli equivoci della riforma Fornero e dell’apprendistato?

Troppe cose per una legislatura troppo breve. E per un governo che, se mai vedrà la luce, dovrà pensare a tagliare i rimborsi ai partiti e cambiare la legge elettorale.

*

Articolo già apparso in La furia dei cervelli, 11 marzo 2013.

*

[La prima immagine è una scultura di Paolo Fumagalli, Precarious thought (2008)]

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12 Commenti

  1. Grazie, per completezza sarebbe utile un’indagine sui datori di lavoro (formazione, competenze, lingue straniere, etc.), così si passa dalla depressione alla farsa in atto unico.

  2. Relata refero: trentenni lavoratori in un call center, laurea in materie umanistiche di secondo livello. Dopo la riforma Fornero, che ha reso più onerosi per le aziende i contratti a progetto, la pausa ogni due ore, dovuta per legge a chi lavora al pc, vien loro scalata dallo stipendio. Anche i 10 minuti per il bagno.
    Ricordo il racconto di un operario della Fiat, sulle condizioni di lavoro prima delle lotte e delle conquiste dei diritti: la pipì la si faceva dentro una bottiglia, per non lasciare la catena di montaggio.

    Anche questo andrebbe conteggiato.

    Secunda cosa. I nostri riformatori (della scuola e dell’università) stanno da anni facendo riforme improntate a questi due principi:

    1) riforma a costo zero, molto meglio però se con abbondanti tagli. (Ci sono esigenze nuove, bisogna vincere la concorrenza internazionale della società della conoscenza: più sforzi, progetti, creatività! E vuoi che si possa essere creativi nella vita da nababbi di chi spende e spande i troppi fondi che mamma-Stato dispensa? Razionalizziamo e vedrete col pepe al c… come mi diventate dei piccoli einstein!).

    2) riforma intesa in senso di ristrutturazione ingegneristica (non più 4, ma 3+2, non più esami ma crediti, ora l’ultima trovata di Profumo, accorciare il percorso primaria + secondaria di un anno: scopo dichiarato spudoratamente, risparmiare, ma anche “allinearsi agli standard europei”).
    Come debbano essere ripensati nella stoffa intima e nella sostanza l’insegnamento e l’apprendimento dentro queste strutture scomponibili e ricomponibili all’infinito, è tema troppo sfuggente e complesso per essere affrontato. Insomma: ti cambio la struttura, dentro tu ci muori per spaesamento, riduzione di fondi, aumento di carico di lavoro (spesso burocratico).
    E cosa significhi studiare diventa una specie di non-so-che indicibile. Una bella tecnocrazia apocalittica.
    Ah no, scusate, questa non dovevo dirla. Ora mi cospargo il capo di cenere perché sono un noioso, antimoderno, lamentevole umanista.

    • Concordo e aggiungo: il famigerato “allineamento agli standard europei” di cui si è compiaciuto il legislatore, con tutte le riforme e riformine deformi che si sono succedute negli ultimi anni – una polverizzazione di crediti e tabelle, di numeri di pagine e laboratori, un proliferare di scatole vuote mai sostenute da un reale pensiero sul cosa contengano -, questo, dico, si è sommato all’atteggiamento punitivo dei governi di destra, che hanno ben pensato di bastonare per benino i rappresentanti di una cultura umanista che a loro è sempre stata semplicemente sulle balle. Non solo costoro sono del tutto ciechi di fronte alla particolare cifra creativo-artigianale dell’umanistica italiana, ma le loro testoline non sono state neanche sfiorate dall’idea che l’operazione di smantellamento avrebbe, per continugità, coinvolto tutti gli altri campi, anche quelli più strettamente tecnico-scientifici.

      Ribadisco anche il suo punto uno, Lo Vetere: gli “standard europei” cui tanto si aspira sono nei fatti stravolti da una totale mancanza di risorse: vogliamo parlare del rapporto docenti-studenti? di un protocollo di controllo della qualità ridicolo? dei compensi zero con cui si ‘sostengono’ i corsi di laurea? l’università italiana è al collasso, e tenta di tenersi in piedi laureando clienti, non studenti.

      L’ultima ciliegina l’ha messa Profumo: con la valigia in mano sulla porta del Ministero, approfittando del momento di grande confusione istituzionale, è riuscito a firmare un decreto ridicolo e iniquo che ha spazzato definitivamente via tutte le declamate buone intenzioni sull’arruolamento degli insegnanti, tutti i pomposi proclami sul merito. Per la scuola siamo punto e a capo, al nadir, al doppiofondo del barile (intanto però i denari sborsati da una massa di disperati aspiranti insegnanti sono stati incassati).

      Non apro, per pietà nostra, la voragine sull’abilitazione scientifica dei professori universitari.

      • Sì, ha ragione su tutto.
        Io, che sono ancora insegnante precario, dalla laurea ho già speso 8mila euro in formazione. Ripeto: 8mila. Non sto a spiegare come, non è edificante.

        Siamo in una situazione davvero tragica: il singolo viene vampirizzato proprio mentre ogni investimento in scuola e università precipita. Il tutto ammantato, a nascondere e confondere gli scemi e chi ci casca, da orribili retoriche sul merito, la valutazione della qualità, …

  3. Sì purtroppo la situazione è quella descritta nell’analisi dell’articolo. Personalmente, l’orizzonte lo vedo ancora più fosco.

  4. Mi permetto di segnalare che la disoccupazione dei colletti bianchi, così come definita nell’articolo, non è aumentata del 4%, ma di quattro punti percentuali… In termini percentuali l’aumento è stato del 21% (un minimo di cultura scientifica aiuta a non commettere errori sostanziali nella lettura dei dati).
    In secondo luogo, che laurearsi in materie scientifiche attribuisca vantaggi sul mercato del lavoro è noto e indiscutibile (questo non ha nulla a che fare con l’importanza delle materie umanistiche per la società ).
    Terzo, l’inflazione delle credenziali è un fenomeno noto fin dagli anni ’70 e nonostante alcune oscillazioni legate in particolare al ciclo economico credo sia un processo difficilmente reversibile.

  5. Brava/o MT, grazie della precisazione sui 4 punti percentuali.

    Sul resto mi permetta di dissentire non tanto sui ‘dati duri’ quanto sulla prospettiva da cui vengono letti: a parte il fatto indiscutibile di una grandissima difficoltà anche da parte di chi viene dalle scienze pure (che spesso ha bisogno di laboratori, di team di specialisti, di lunghi anni di ricerca, di investimenti, ecc.), o da aree molto tecniche (provi lei ad aprire uno studio da avvocato o da ingegnare oggi – senza un papà avvocato o ingegnere, dico), non si interpreta bene il mondo se non si vede il suo spostamento verso l’interdisciplinarietà: insomma, l’umanistica digitale, certe teorie della mente, oppure i software di traduzione, o lo studio sui polististemi, sulle reti, ecc. senza gli umanisti NON SI PUO’ FARE.

    • Non metto in dubbio che servano gli umanisti per interpretare la realtà (per inciso io faccio il sociologo), nè tantomento che persistano forti disuguaglianze legate alle origini sociali (è quello di cui mi occupo nei miei studi), ma l’evidenza empirica mostra che i laureati in materie scientifiche sono avvantaggi rispetto a quelli delle materie umanistiche sul mercato del lavoro. Le ragioni sono complesse e alcue emergono dal suo articolo, comunque così stanno le cose.
      Sul piano della interdisciplinarietà sono d’accordo, ma il punto che vorrei sottolineare è questo: molte discipline scientifiche hanno “invaso” con i loro approcci il campo di quelle umanistiche portando visioni e prospettive nuove, cosa che a parti invertite raramente accade (per restare alla sociologia che conosco meglio, posso citare ad esempio il ruolo dell’economia, della nuerobiologia, della matematica, della genetica delle popolazioni, ecc.).
      Mi sembra di capire che proprio alle scienze umanistiche è richiesto il maggior sforzo di innovazione, per poter integrare nei curricula di studio e nei percorsi di ricerca una forte componenete matematica/statistica/informatica per poter rispondere alla complessità in cui siamo immersi.

  6. Sull’evidenza delle maggiori opportunità di chi viene da ambiti tecnico-scientici non metto becco [anche se io ho persino un amico idraulico disoccupato!], non credo invece che l’invasione di quelli che chiama approcci scientifici nelle scienze umane dimostri che ad esse è richiesto “un maggior sforzo di innovazione”, anzi, semmai il contrario. Questa flessibilità e permeabilità e apertura alle contaminazioni dell’umanistica mi sembra invece la prova delle sue potenzialità di crescita e trasformazione. Così un archeologo o un filologo o un teorico della cultura possono tranquillamente appropriarsi di prassi scientifiche (mi vengono in mente cose di mio interesse, digitalizzazione testi antichi, creazione corpora, sviluppo di game studies, ecc., ma immagino possano esserci diecimila altre applicazioni), ma se diamo a un informatico un testo letterario quello, senza competenze umanistiche, non saprà neanche da che parte cominciare per marcarlo. Insomma, immagino che sia una questione di punti di vista, non di primato oggettivo di un’area sull’altra.

    Detto questo: dubito fortemente che i nostri legislatori abbiano minimamente riflettuto in questi termini. Le loro azioni mi sembrano più basate sulla mera doxa corrente, e ben poco sulla dianoia… Le conseguenze sono quelle illustrate qua sopra.

  7. Complimenti per l’analisi. La mia visione sulla crisi è che le classi popolari, tradizionalmente più fragili, siano state quelle che hanno pagato e pagheranno il prezzo più alto; ma essendo la crisi del 2009 sostanzialmente una crisi di saturazione e di classe media, è su questa che si devono cercare i suoi effetti più specifici. Questi colpiscono una classe media tradizionalmente dotata di ammortizzatori familiari rilevanti. Le sue conseguenze qui sono più indirette, avendo più a che fare con la riduzione delle possibilità di carriera, di tenore di vita e mobilità sociale, o in senso lato, di potenzialità di ascesa, che con la realtà della contrazione degli stipendi, dell’aumento dei debiti o della disoccupazione, che hanno colpito duramente la nuova classe media degli anni ’60-”80. Per i figli della neonata classe media, i tristemente famosi bamboccioni, la crisi ha significato non tanto la perdita tout court del posto di lavoro, che rimane l’effetto più socialmente più deflagrante del conflitto in corso, quanto quella delle garanzie ad esso associate. In questo senso, i titoli di laurea sono stati i veri subprime italiani della crisi; senza una laurea si compete per lavori manuali e artigiani, mentre con la laurea si è persa la garanzia di appartenenza stabile a una classe media oggi in costante contrazione (in particolare@Andrea Inglese, come chiarimento a un mio vecchio commento su un suo pezzo sulla sostanziale tenuta della classe media). Grazie a tutti per il lavoro che fate.

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renata morresi
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