Quattro inni omerici minori
traduzioni isometre di Daniele Ventre
VI Ad Afrodite
La venerata, la bella, graziosa di serti, Afrodite
celebrerò, lei che i veli di Cipro la cinta dall’onde
tutta sortì, dove forza di Zefiro d’umido soffio
la trasportò sopra l’onda del mare dal vasto fragore,
sopra la morbida spuma: e le Ore dall’aurea corona
liete la accolsero e poi le diedero vesti incorrotte,
e sulla fronte immortale le misero un serto intrecciato
bello, dorato qual era, e ancora le misero fiori
in oricalco ed in oro pregiato sui lobi forati,
quindi il suo tenero collo ed anche il suo candido petto
con i monili tutt’oro ornarono, sì, con le stesse
gioie che le Ore dall’aurea corona hanno, quando alla danza
desiderata dei numi avanzano in casa del padre.
Dopo che le ebbero cinte con ogni ornamento le membra,
lei fra gli eterni condussero, e lieta accoglienza, al vederla,
essi le fecero, offrendo la destra, e bramarono tutti
farne la propria legittima sposa e condurla alle case,
per la beltà Citerea dai serti di viola ammirando.
Salve, soave di miele, tu, occhi-vivaci, tu dammi
che in quest’agone io consegua vittoria ed ispira il mio canto.
Sì io di te mi ricordo e così d’un’altra canzone.
XIX. A Pan
Musa, raccontami tu la cara semenza d’Ermete,
lo strepitante bicorne dai piedi caprini, che in valli
d’alberi verdi s’aggira, insieme alle Ninfe danzanti,
che se ne vanno correndo su picchi di balza scoscesa,
chiamano Pan, il signore dei pascoli, fiero di chiome,
irto di vello, che in sorte ha ogni nevoso crinale
e le giogaie dei monti e i cammini impervi di rupi.
Egli tra fitti roveti da un lato e dall’altro s’aggira,
o qualche volta si spinge in riva a correnti gentili,
o altre volte si inerpica in cima alle rupi scoscese,
sopra la cima più alta ascende a vegliare le greggi.
Spesso per le biancheggianti giogaie elevate trascorre,
spesso attraverso le valli s’aggira e fa strage di fiere,
grazie all’acuto suo sguardo; al vespro poi, solo, dà voce
alla sua musa soave, trastullo ha dal flauto, al ritorno
dalle sue cacce: e le sue melodie non vince l’uccello
che in mezzo ai petali di primavera ricca di fiori
spande lamento e gorgheggia il suo canto, voce di miele.
Ecco, le ninfe dei monti sonore di voci con lui
muovono i passi veloci vicino a una fonte, acqua cupa,
cantano e l’eco risuona così sulla vetta del monte
e da una parte e dall’altra il dio gira in mezzo a quei cori,
passi veloci avvicenda e una fulva pelle di lince
veste sul dorso, piacendosi in cuore di canti sonori
su un prato morbido, dove il croco e con esso il giacinto
dolce d’essenze fiorisce copioso e si mischia con l’erba.
D’inni coronano i numi beati e l’Olimpo elevato,
ma specialmente il veloce Ermete al di sopra degli altri
cantano, come per tutti i numi sia rapido messo
come all’Arcadia sgorgante di polle, alla madre di greggi,
egli sia giunto, nel luogo in cui il dio Cillenio ha il suo tempio.
Là, presso un uomo mortale, pasceva le greggi lanose,
lui, ch’era un dio: sbocciò, fiorì in lui la languida brama
della Driòpide bella di trecce, e d’averne l’amplesso:
egli le floride nozze compì, ella diede a palazzo
un caro figlio ad Ermete, un mostro già allora, a vedersi,
lo strepitante bicorne dai piedi caprini, ridente;
dunque d’un balzo fuggì, la madre, e lasciò quel bambino:
si spaventò, quando vide l’orribile volto barbuto.
Subito Ermete veloce, però, fra le braccia lo prese
egli l’accolse, sentì, quel dio, gioia immensa nel cuore.
Presto alle sedi immortali andò, nascondendo il bambino
dentro una pelle vellosa di lepre nutrita sui monti:
ecco che allora si assise con Zeus e con gli altri immortali
e mostrò loro suo figlio: gioirono tutti di cuore
gli dèi immortali –ma più degli altri Dioniso Baccheo–
e lo chiamarono Pan, poiché allietò i cuori di tutti.
Questo saluto a te rendo, o re, col mio canto ti placo,
sì, io di te mi ricordo e così d’un’altra canzone.
XXX Alla Terra madre di tutti
Madre di tutti, la Terra io celebro, salda di basi,
lei, la più antica, che nutre al mondo ogni forma vivente:
quanti su terra divina si muovono, quanti nel mare,
quanti si levano in volo, è la tua ricchezza a nutrirli.
Liete di figli, sovrana, e non meno liete di frutti,
sono le genti mortali per te, poiché è in tuo potere
togliere e dare la vita: felice è colui che di cuore
colmi d’onori, benigna; per lui d’ogni bene è abbondanza.
L’aia opulenta per lui è carica, nelle campagne
nutre fecondo bestiame, ha piena di beni la casa:
simili eroi con giustizia una rocca bella di donne
reggono, prospera sorte e grande ricchezza li segue:
di giovanile allegria fioriscono i loro figlioli,
e le fanciulle con animo allegro tra cori fioriti
giocano e danzano in mezzo a morbidi fiori di prato,
quando tu gli uomini onori, o dea d’abbondanza, dea grande.
Madre di dèi, salve, sposa del Cielo trapunto di stelle.
Per il mio canto, benigna, concedimi dolce ricchezza:
sì, io di te mi ricordo e così d’un’altra canzone.
XXXIII Ai Dioscùri
Muse, narratemi voi dei Dioscùri d’occhio vivace,
figli stupendi di Tindaro e Leda di belle caviglie,
Castore destro a cavallo e Polluce senza peccato,
figli che sotto la cima del monte Taìgeto eccelso,
Leda, congiunta in amplesso al Crònide nero di nembi,
già partorì, salvatori degli uomini sopra la terra
e delle rapide navi, ove sorgano le procelle
gelide sopra marosi orribili: ma dalle navi
uomini pregano e invocano i figli di Zeus, di quel grande,
salgono al ponte di poppa facendo promessa d’agnelli
candidi; ed ecco che il vento impetuoso e l’onda del mare
hanno sommersa la nave: ma appaiono a un tratto i Dioscùri
e con le svelte loro ali per l’etere spiccano un balzo,
in un momento sedando procelle di vènti dolenti,
e sugli abissi placando i flutti dell’onda schiumosa,
ai marinai grato segno dell’opera loro: a mirarli
gli uomini allora son lieti, han tregua da amara fatica.
Figli di Tíndaro, salve, maestri di svelti cavalli:
sì, io di voi mi ricordo e così d’un’altra canzone.
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Mi piacciono moltissimo. Ma da “eretico”, signor Ventre, posso chiederle una cosa? Lei che ne pensa dell’esametro costruito con settenario + novenario?
Ancora complimenti.
L’esamentro costruito da un settenario + un novenario è un esametro barbaro, cioè riprende il ritmo implicito che il verso latino (non greco) ha se lo si legge senza tenere conto di elisioni e posizioni forti:
lìtora: mùltum ìlle || et tèrris iactàtus et àlto
(scandito metricamente farebbe:
lìtora: mùlt[um] ill[e] èt terrìs iactàtus et àlto)
Si tratta di una possibilità alternativa rispetto all’esametro ritmico. Semplicemente.
L’esametro ritmico usato qui è invece un verso che restituisce in termini di sillabe accentate le posizioni forti dell’esametro greco-latino. Ha come modello remoto certe forme dell’esametro barbaro carducciano e certe forme dell’esametro neoclassico pascoliano, ma si differenzia dal primo perché non ricalca la tipologia dell’esametro, ma il suo ritmo, quale veniva scandito dall’ictus nel contesto della lettura metrica tardoantica e umanistica, e si differenzia dal secondo perché non si basa sulla pretesa di rendere in italiano i piedi metrici postulando l’artificiale equivalenza sillaba accentuata=sillaba lunga.
mi sembrano cose benemerite di Nazione Indiana utili anche al grande pubblico.