Poesie Inedite
di Daniele Ventre
1.
Il ricordo che forse frugavi nella caverna del mondo davanti all’ombra, a un fantasma di cera che cola, il ricordo che ancora cerchi ti segna, ferisce nel bagliore che filtra dal giorno fra gli scuri appena accostati sugli occhi cerchiati di polvere. E forse vorresti scrutare di nuovo il buio, sondare ancora i veggenti o il volto dei sogni che ti spieghino il senso dell’ira che dentro ti cova nel tempo, che sempre ti consuma nascosta e ti morde polso e respiro. Eppure te l’hanno insegnato le favole della nonna, i sussurri segreti per addormentare i bambini: nessuno vince di forza l’ira che muove il respiro e il polso degli anni e il sussurro del vento che stanca l’eco degli alberi e lo scroscio dell’onda che i denti di roccia bevono e strappano per sangue di schiume e la danza quieta dei voli nel cielo al tramonto e l’ordine teso fra cori di stelle e l’inquieta eccezione che slitta in un limpido volo di rondine e il tuono e il lampo librati sugli archi di nubi e il battito lento dei corpi nella piena dei fiori rossi e il turbine degli esseri inquieti che tutto comprende nella risacca che sfiora il cristallo fra bagliore e penombra. Un giorno destandoti all’urlo luminoso del sole sèi rimasto immemore e cieco, la voce arrochita di incauti prodigi: l’onda degli esseri t’aveva incontrato e la meraviglia improvvisa, il panico livido che sorprende i viandanti e li serra nella roca morsa del nulla. Fra l’eco degli alberi un giorno t’ha forse colpito una forma di luce accecante – innocente miravi la nuda chiarezza del mondo e l’occhio interiore acceso ha visto il corso del tempo con limpida chiarezza di falco ma l’occhio del giorno comune ha smarrito il suo senso. O al brillio d’una fonte sferzata dai raggi adunchi del sole a un tratto l’origine schiusa del mondo ti è apparsa si è diffuso al vento il tuo grido lacerato di gioia, non più parole a serrare i confini dei mondi (sciolto dalle sbarre dei corpi) né mura sull’orizzonte.
2.
L’indagine dei corpi disgregati nei coriandoli d’atomi si schiude sul tuo cammino, sulle tracce nude che segnano ombre degli dèi passati. Di qui la selva che fendevi al cupo ti nasconde i tesori e l’inconsueta favola dei fantasmi che ti vieta ogni salvezza all’ombra del dirupo.
3.
Il tempo nello scrigno delle attese deposita la forma d’uno spettro d’insofferenza, corroso lo scettro delle ragioni alle speranze lese. Così fra stanche musiche riprese su corde lente al congiurato plettro cadono i canti: così in freddo elettro la libellula spiega ali rapprese. E questa assenza ci deforma i cuori, se sorpresi nel gorgo delle panie premiamo le pareti d’una vita stanca di passeggeri, alla sortita da una nave prigione di dolori oscillante a un rollio d’anime e smanie.4.
E tu non riconosci, nel ricordo, se non la forma chiusa del presente: così nell’occhio ora la luce mente se l’ottunde in miraggi il sole sordo. Questo pane angariato ormai rimordo nel lavorio delle stagioni spente, al quieto dissociarsi della mente, se polveri d’angosce eteree mordo. Ecco che il tempo si richiude, infuso nel gorgo della chiocciola all’orecchio affatato dall’onda al mare interno, mentre in tenue spiraglio fa solecchio, salvato dal discorso di riuso, un vorticare di respiri eterno.5.
“Ma perché poi dovrei negarmi il gusto di rintanarmi dentro quattro mura a rimestare la materia oscura di un tesoro che ad altri sembra angusto?” “Io questa tua ragione non la gusto di coltivare attento la paura piccola che in un angolo ti mura fra coperte di tenebre e disgusto”. “Amico, la tua forma decomposta non mi persuade, né la crepa aperta su un bianco di pareti mentre invecchio”. “Eppure il tempo non procede apposta per annebbiarti la visione incerta di me che ti rispondo in uno specchio”.
6.
Il nostro usato personaggio di fiaba (età indistinta, come d’ermafrodito) non sa di tempo che sul volto disegni per vecchie rughe, per velluto sottile un’ombra di vissuto, da interessare a fascini nascosti qualche graziosa compagna d’altre sbarazzine malie. Il vecchio nostro personaggio di fiaba è già l’incastro curvo dentro la sedia: imbaccuccato nei rammendi arlecchino consuma gli occhi negli esangui chimismi dell’incantarsi sul saper incantare. Intesse sogni, ma l’esterno gli inoltra odori d’olio minerale e bagliori di luce dura, da ferire negli occhi da giorni troppo vivi per le pupille più miopi. Il magro personaggio di fiaba il mago debole, in castella dirute a impiastricciarsi con pensieri di cera (Viviana adesso l’ha fermato in cristallo, non può soffrire la sua corte molesta) il vecchio mago si diverte davvero, selvaggiamente, pazzamente, già reso più scaltro, compiaciuto per l’armeggiare al ritmo zoppicante degli orologi, dei palpiti che stringe l’incubo e il gioco, escogitando già più fatuo un inganno di ragnatele, rinserrare la porta, turare male con la carta la falla.
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sono bellissime, che te lo dico a fare?
la prima mi ha catapultata nell’immaginario stordito tra reale e visionario delle prose di Cees Noterboom nel suo “Autoritratto di un altro” (crocetti ed.). se non lo conosci te lo consiglio, credo ti stupirà.
un caro saluto, Daniele.
nc
numero civico 1863 bis
Meraviglia Metrica
bah. molto, molto perplesso.
???
Ovvio che lei lo sia -non mi meraviglia. Purtroppo qui di mie poesie ne vedrà spesso. E’ una delle pecche del blog.
Ma visto che si prende tanta pena e mi omaggia di tanta attenzione, del che le sono grato, legga anche qui, nel caso che la sua perplessità non sia abbastanza profonda:
http://poetarumsilva.wordpress.com/2013/03/08/eclogae-frammenti-parodie-inedite/
Che cosa la perplime signor Laserta? Sarei molto curioso di conoscere il suo parere; ovvero, l’argomentazione del suo parere.
Il suo parere, tanto illuminante quanto trasparente è per me il nick di chi lo esprime, è espresso qui:
https://www.nazioneindiana.com/2013/01/06/sermo-contra-quosdam/
per meglio intendere il lasertapensiero, sia che lo condivida o meno, si delizi al collegamento su riportato (e agli altri in calce ai posts linkati a pie’ di articolo).
@Guido Caserza
Azzeccatissimo il riferimento linkato da Ventre. Direi che sostanzialmente non è cambiato nulla da quando avevo scritto quelle cose (che sono, comunque, la mia personalissima percezione di lettore, mica legge…).
@Ventre
ma grazie! Nessuno, dico, nessuno mi ha mai letto con così grande attenzione. Citandomi pure, a posteriori! Non sapevo di avere dei fan ;-) (scherzo, eh: giusto per alleggerire un po’ ‘sti commenti; questo poeta se la prende un sacco…)
Meno di altri scribenti (come Giulio Mozzi), che se la prendono perfino quando non si parla di loro.
Senza contare che quello che lei definisce sciatto e citazionistico era una parodia di una poesia sciatta e citazionistica, quella molto di moda in giro, e ne amplificava i modi deteriori.
Peraltro lei, che mostra di essere della stessa pasta di altri, questo non è riuscito a capirlo, o non ha voluto capirlo. Quali siano le implicazioni sul valore critico di ogni suo giudizio sul mio lavoro, è facile dedurlo.
mi sfugge allora la ragione di impiegare del talento per parodiare una poesia sciatta e citazionistica. non si potrebbe mettere a miglior frutto? anche perchè queste cose qui sono parecchio impegnative da leggere e, mi immagino, anche da comporre.
infine, noto semplicemente che se la parodia non salta agli occhi, forse non funziona molto bene.
in attesa di leggere di meglio (e non parodico, magari), le più belle cose.
A volte la parodia non salta agli occhi se non la si intende. In ogni caso, spesso è necessaria. Questo post, ovviamente, non è fatto di parodie. Se quello che scrivo le sembra pessimo, semplicemente non lo legga. Purtroppo su questo blog mi troverà spesso. Può in ogni caso seguire l’esempio di molti, e ignorarmi.
discorsi nuovi di zecca nella barbara bruma,limacciosa come quell’ombra vaga,del ricordo di quei giorni in croce,sinuosi e scevri di occupazioni preoccupanti
http://paetulus.com/audio/Widowspeak%20-%20Widowspeak%20(2011)/02_Harsh%20Realm.mp3
Troppo, c’è troppo, e diventano pallide adesso
tutte le forme che invano ho tentato di osare.
Suoni, parole che chiedono solo di aprirsi
ma che sdegnose rifiutano d’esser banali.
Poco, c’è poco, diventano languide spesso
tutte le forme che al piano tentai strimpellare.
Suoni e parole che cercano solo di dirsi
ma che incuriose ricusano i vuoti tonali.
http://affiorandofrano.blogspot.it/
Che ci sia poco è scontato, un vago riflesso
scialbo e lontano dai mondi del fine parlare,
opera di un artigiano che non sa munirsi
d’altro che tenui colori, e realtà innaturali…
.. grazie, illustrissimo vate, del suo augusto ingresso
nel mio umilissimo blog, una goccia nel mare
scrivere in rima alle volte va contro il capirsi:
massima stima e rispetto pei versi ventrali.
Versi ventrali?
Panciasentire? :)
spesso la rima fa scherzi, che subito intesi
non certo scriver ventrali, ma (è ovvio) ventresi
ma, poi pensandoci bene, son versi ventrali
vengon dall’anima, quando fa gli addominali
:)
L’invasione dell’ultra-kitsch.
Poesia insulsa questa di Daniele Ventre, non dice assolutamente NULLA.
Francesco
L’invasione dell’ultra-kitsch.
Sempre meglio del dominio dell’amorfo che tu con evidenza abbracci.
Daniele continua così che sei bravo :-)
mi son piaciute molto specie la prima.
Ciao!