Europeana e la polvere della storia

di Giorgio Vasta

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[Pubblico oggi la recensione a Europeana di Patrik Ourednik, a breve l’intervista all’autore. Recensione e intervista sono entrambe pubblicate sull’ultimo numero della rivista Notable]

C’è un film di William Wyler – un western che si intitola Il grande paese ed è del 1958 – nel quale a un certo punto si assiste a una scena tipica del western classico: la scazzottata tra cowboy (uno dei due cowboy è un ancora giovane Charlton Heston, fra l’altro).
Le scazzottate, nei western, sono un momento di esaltazione della matericità dei corpi guadagnata attraverso inquadrature ravvicinate, primi piani sia visivi che sonori (il rumore secco e sordo dell’impatto dei pugni contro i volti). La messa in scena della lotta – con le sue contorsioni, le finte, gli evitamenti e le tumefazioni, il ghirigoro di sangue all’angolo del labbro inferiore, la polvere che si solleva e resta per un momento in sospensione, le traiettorie degli sgabelli scagliati attraverso il saloon e tutto l’arcinoto repertorio – è un “luogo” cinematografico nodale: chiarisce i legami tra i personaggi e organizza l’ordine morale a partire da quello fisico. Ha dunque bisogno di una modalità di ripresa molto ravvicinata, che stia addosso ai personaggi e al loro scatenamento agonistico.
Si tratta di una consuetudine e di una specifica retorica espressiva. È come se si dicesse: queste scene si girano così!
La scelta di William Wyler è invece quella di inquadrare la scazzottata da una grandissima distanza.
Microscopici, sul filo dell’orizzonte, ripresi ad almeno un centinaio di metri (davanti a loro un grande campo in penombra), i due cowboy fanno a pugni ma allo spettatore sembra di assistere al litigio tra due insetti, tra due artropodi nervosi, due formiche bellicose. La dimensione “epica” (o presunta tale) della scazzottata viene “diminuita” e risolta in un fatto comico se non grottesco. Guardiamo le due silhouettes che si contrastano e l’intrico delle zampette inferocite brancolanti e ci sembra che la lotta, ogni lotta, sia sempre un affare tra imenotteri, una faccenda poco seria.
La scelta di Wyler chiarisce un fatto fondamentale, in ambito narrativo ma non solo: inquadrare in un modo o in un altro, da un punto di vista o da un altro, da una determinata distanza o da un’altra, è fondamentalmente una questione etica. Il modo in cui scelgo di mettere in scena giudica l’oggetto della mia messa in scena. Il punto di vista, cioè, dà forma al giudizio e ci suggerisce una percezione delle cose nitida e indefettibile. Del resto, rimanendo in ambito cinematografico, Ernst Lubitsch – il grande regista tedesco di film come Mancia competente e Vogliamo vivere! – sosteneva che girando un film c’erano tanti punti, sul set, nei quali collocare la macchina da presa, ma uno soltanto era quello giusto. “Ed è il mio”, aggiungeva tranquillo. E aveva anche ragione!).
Proviamo adesso a far slittare questo ragionamento sulla percezione delle cose che discende dalla scelta di uno specifico punto di vista e prendiamo in considerazione un’acquisizione tecnologica (ma anche, come spesso avviene per la tecnologia, percettiva e conoscitiva) tutto sommato recente.
Google Earth è quel software che permette l’esplorazione della geografia del mondo direttamente dal computer. Con Google Earth è possibile sorvolare il mondo e scendere in picchiata verso i sobborghi di Nairobi oppure nel centro di Budapest o nel cratere di Ground Zero. Google Earth è lo spazio del mondo visto dal cielo. È l’elezione di un punto di vista ben preciso – dall’alto a piombo sulla Terra – che ci mostra il mondo come un coagulo di polveri dalle quali occasionalmente emerge una forma, un sistema di linee, geometrie e anamorfosi che sono l’immagine di una città. Quello di Google Earth è un punto di vista satellitare. È la distanza come misura esatta della conoscenza, è un “conoscere da lontano” che ci racconta il mondo come un fatto intimo, come qualcosa che ci riguarda sempre (potremmo dire, a mo’ di sintesi di questo concetto, così lontano così vicino, per citare un film di Wim Wenders di qualche anno fa).
Europeana, invece, allo spazio sostituisce il tempo, al posto della geografia mette la storia. Europeana è quindi un software letterario che permette di osservare la storia dal cielo (e il cielo della storia). Attraverso il dispositivo che si chiama Europeana, tutto appare piccolissimo e lontano e comico, lentissimamente brulicante (ancora una danza di insetti, più esattamente un rondò microscopico). Seguendo lo stesso procedimento percettivo di Google Earth – che ha a che fare con la percezione ma vale anche da strumento “morale” – Europeana permette di rileggere la nostra storia in una prospettiva inedita, felicemente squilibrata, con le gerarchie che vanno in pezzi e i conti che non tornano. E in Europeana la nostra storia, quella degli esseri umani (che è una categoria anteriore a quella di “popolo”, transnazionale e onnicomprensiva), è una cosa lontanissima, una mitologia incapace di produrre un senso che resista, che permanga.
Europeana – il sottotitolo è Breve storia del XX secolo – è anche e soprattutto un libro di Patrik Ourednik, nato a Praga nel 1957 e residente a Parigi – scrittore, traduttore, linguista e redattore di enciclopedie. Nel suo brevissimo testo – centocinquanta pagine pubblicate dalla casa editrice palermitana :duepunti edizioni – Ourednik smonta le percezioni canoniche della nostra storia recente, di quel ‘900 nel quale ancora viviamo immersi, e con le percezioni smonta le nostre idee, la nostra convinzione che X sia più importante di Y, che Z valga meno di W. Leggendo facciamo esperienza di una piccola manifestazione tellurica. La storia comincia a sgretolarsi, a smottare. Da forma più o meno consolidata regredisce (o, chissà!, forse evolve) a polvere. A una polvere molto simile a quella delle città di Google Earth, un insieme di granuli irregolari e impercettibili, una sabbia che scivola da tutte le parti.
In Europeana i fatti canonici del Ventesimo secolo – la Prima e la Seconda guerra mondiale, le dittature, l’Olocausto, l’eugenetica, i movimenti culturali degli anni Sessanta e Settanta, i collassi europei alla fine degli anni Ottanta – vengono raccontati metonimicamente, una parte per il tutto, a partire da eventi all’apparenza irrilevanti – la statura media degli americani che nel ’44 sbarcano in Normandia, l’invenzione del gas senape, la sostituzione del corsetto con il reggiseno, la teozoologia e il progetto di deportare gli ebrei in Madagascar, la “lingua di legno” dei comunisti nella società nuova, il sesso in automobile degli anni Settanta, nel 1986 la creazione di una Barbie vestita con la divisa a righe dei campi di concentramento, la liberazione di scimmie e cani e conigli e cavie e serpenti e rane dai laboratori medici e farmaceutici, il ballo testa rasata contro testa rasata tra un prigioniero che si era salvato dai campi di concentramento e una donna che era andata a letto con un tedesco. La storia si svuota, diventa, nelle parole dell’autore, “un moto incessante e informe che non esprimeva alcunché”. Lo sguardo di Ourednik plana sulle cose – e ancora incontriamo il meccanismo di Google Earth – in un movimento elicoidale; si avvicina partendo dall’alto e scendendo verso il basso in ampie morbidissime volute, in una forma che è quella del Dna (la storia come genetica) ma è anche quella della respirazione (il respiro della storia). La storia si immerge nei polmoni, sta lì in circoli e si fa nuvola, poi torna fuori piano e adesso ha preso il sapore delle nostre bocche, dei nostri corpi. Così, senza mai stacchi, in un mescolamento ininterrotto, perché il racconto che Ourednik fa del tempo è un racconto che non ha virgole, non prevede pause. La storia è un polisindeto naturale, ovvero collega tra loro i fatti attraverso un’infilata di giunti vocalici, di “e”, le cosiddette congiunzioni. Ogni “e” connette il tempo al tempo, il tempo a se stesso. Lo incolla senza lasciar percepire la linea di innesto. In questo modo il tempo si fa flusso, un materiale immateriale che scorre, ancora una volta un respiro, perché il materiale immateriale permanente, che durante tutta la vita non viene mai meno, è il nostro respiro, e la storia di Europeana – la storia come atrocità e la storia come tenerezza – è esattamente questo caos di nubecole in vortice lento e continuo da un dentro a un fuori, da un tempo a un altro tempo, dalla bocca di qualcuno che racconta all’orecchio di qualcuno che ascolta.

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8 Commenti

  1. Grazie Giorgio per l’intervento su Europeana, un libro che considero uno dei più importanti degli ultimi anni. Tra l’altro proprio in questi giorni sta uscendo, sempre per duepunti, il romanzo di Ourednik, Istante propizio, 1855, che non vedo l’ora di leggere.

  2. Mi piace quell’introduzione sul punto di vista come scelta etica.
    Giorgio, a proposito della distanza del punto di vista, potresti citare qualche esempio in letteratura?

    Ciao e complimenti per la recensione

    p.

  3. Ciao Paolo.
    Non sono sicuro di avere capito che cosa mi domandi. Ti riferisci a quelle scritture che attraverso lo stile definiscono una determinata distanza dal narrato? O a delle vere e proprie scelte di struttura?

    Ciao,
    g.

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