Da “Previsioni e lapsus”
di Luciano Mazziotta
maturità berlinese I. errori per una riconciliazione
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*questo si chiama l’errore, che ruota attorno a una cosa e quando la centra, la cosa o invischia o risucchia. si tratta di una dispersione, attenuata, un pezzo per volta, ma che prima o poi viene fuori, quando non è più possibile mimarne l’integrità. e c’è di più o così si direbbe. c’era un di più che non appaga tuttora, nella berlino che ovunque l’occhio si giri le vede, la siegessäule e la turm. ma lì, da quella vasistdas, a neukölln, non c’era che un albero due turchi e un io che fumava e che quasi cadeva, senza orientarsi tra l’ovest e l’est. e allora provava a rientrare, per poco, almeno
*in più c’è una sedia che dondola e scricchiola e rimanda a dell’altro, per tempo sommerso, che a tratti riemerge, alla vista, che lo si direbbe guardare: si dica spiare, dalla porta socchiusa, una stanza che per entrarci si deve passare una stanza, in festa, di due che balbettano. e non era opportuno ascoltare, che mi ricordava di noi sempre per zelo per sbaglio per caso. e dalla porta socchiusa entravano api, che, anche a lasciarla la casa, mentre ronzavano ora più forte, le api venivano dietro. ed al semaforo, a mehringdamm, accerchiavano i fermi che se c’erano alcuni che non temevano il pungolo, io acceleravo e, sbadato, inciampavo. che a chi si riuniva, volendo sapere che fosse successo, le api, dicevo, più o meno, le api di casa
*unire. unire è l’ossessione di questa città che sovrappone e cancella. ma c’è qualcosa che manca, qualcosa che non si considera ché riconciliarsi gioca a levare: nomi, persone, figure, comparse che un male puntuale e fittizio le assorbe, come uno sciame, e la ricerca, a berlino, va a vuoto, non fosse per un legame sottile, che presto si stacca. lo spreco, lo scacco, lo sanno. a mauerpark, in più, si andava a scovare gli scarti, ammassati uno sull’altro, che lei mi diceva di avere capito chi fossi dalla pronunzia del sì e del no, che il resto era superfluo. e quando trovavo dei cocci, abbassavo il tono di voce, che pareva ronzassi, perché nessuno sentisse gli errori. e lei era stanca, di più, per cui raccontava, per cenni, facendo dei cerchi, di un lago di amburgo in cui aveva lanciato un fiammifero acceso, sperando che fosse inghiottito dal ghiaccio. che poi mi invitava a unire quei pezzi, gli scarti del parco, in una stanza, la sua, sulla boddin, ma c’erano api e mi separavo, di nuovo, chiedendo che cosa se ne facesse di quella unità
*ma c’è di più. c’è in più quell’impegno improrogabile che è un punto che annulla i contorni. e, sulla s-bahn, la folla impediva la corsa, che mi guardavano come se nascondessi qualcosa che mi convincevo di avere nascosto qualcosa, di essere un ladro che adocchia le borse, in preparazione del furto. e alla fermata, ad alexanderplatz, mi è parso crollasse la torre, in verticale, risucchiata dalla terra, proprio mentre si chiudeva la portiera perché non passasse l’ennesima ape. che rispondesse la siegessäule, a tiergarten, abbattuta dagli occhi, caduta con l’angelo al centro della piazza, che, per mesi, ti dico, ho creduto per me la città si appiattisse, in disparte, che non mi ricordo che un piano sul quale avere premura. e avevo, ancora, premura
*era per dire perdere. come staccarsi un braccio, sin dall’inizio, che è quando si mettono api tra i nomi e le facce, che si usa, schioccando le dita, un pronome, che allontana e respinge. dopo gli spiccioli, dalle tasche che scivolano, vicini di poco alle scarpe, e scrosciano, che c’era, all’automaten, una travestita che li avrebbe voluti per sé, in ordine sparso e affrettato, che non li sceglieva per peso e valore. e non riuscivamo ad estrarre quelli incastrati tra mattone e mattone. e poi, di nuovo, il pronome, la tentazione dell’io che, a friedrichshain, non nomina e non si impossessa. dice a pochi, e dice di meno, che quello che dice lo dice per perderlo. ma c’era di più. c’è di più dopo le api e i lapsus, a berlino, come i cortili di milano, che solo dopo il corridoio c’è luce.
Letto due volte il finale per l’interesse.
Semplice e diretto. Avrei apprezzato un pò più di spigolature lessicali. Ma è solo soggettiva. E poi…cosa sono le spigolature lessicali?
Ci vediamo all’angolo, dove c’è postnarrativa.org poi prendiamo il bus fino alla NaizoneIndiana. Sono amici. Poi si torna a casa.
P.N.
Questa versione, che credo definitiva, di Maturità berlinese I è ancora più precisa dell prima versione che lessi tempo fa. Dovessi utilizzare una parola per desciverne la resa userei: Disorientamento.
(perfettamente integrata alle altre due Maturità e al resto del lavoro di Previsioni & Lapsus)
bravo luciani
Bei testi questi di Luciano, condivido l’opinione di Gianni un disorientamento che produce uno sguardo straniato di Berlino e quindi dell’Europa, vista in una distrazione in un sovrappensiero di un io smarrito e quindi colta anche nella sua verità…
Un tocco di leggerezza sulla questione dell’identità in transito. Proprio l’ape mi sembra alluda alla puntura dell’io. La coscienza più che essere solo dolorosa è una spia di presenza lontana. Le lasse così granitiche anche nell’aspetto figurale e la trama ritmica così incalzante, con frasi breve e assonanze, rende bene lo spazio monumentale ma cangiante di Berlino. Bravo Luciano, complimenti!
Innanzitutto grazie a tutti per i commenti e ad Andrea e a Ni per il post.
@Postnarrativa. Ti ringrazio per la rilettura e anche per le critiche che trovo abbastanza costruttive, in quanto è solo da poco tempo che mi cimento in questo tipo di scrittura. Non capisco in realtà cosa intendi per “spigolature”. Scarti? Lapsus? Cadute o, solamente, dal punto di vista stilistico-sintatico? A me sintatticamente sembrava già abbastanza straniante, ma, dei chiarimenti su cosa intendi mi farebbero soltanto piacere.
@Gianni e Francesco: il disorientamento è l’elemento fondamentale di tutto questo pseudo-poema-in-prosa che, in teoria, adesso, dovrebbe essere concluso. Volevo rendere, attraverso la metafora sia biografica della città in cui mi sono trovato a vivere, sia della realtà, schizofrenica e caotica della metropoli europea la “schizofrenia” stessa, accostata ad una continua precarietà – esistenziale – che pone sempre ad un passo dalla caduta: le torri, l’io, e gli spiccioli. Questa suggestione proviene proprio da un passo di Lucrezio in cui, più che cadere o scivolare, “labor” (labor, laberis, LAPSUS sum, labi)- in quel caso alla terza persona singolare “labitur” – si riferisce proprio al “disperdersi della materia nel cosmo” (e non ad una caduta verticale).
@Vincenzo: Sì, ben detto, l’ape allude alla puntura dell’io, sia come spinta ma anche come repressione. Si tratta di tensione a spingere, come le api nel cerchio degli Ignavi (anche se qui incitano sempre alla rinuncia), ma anche tensione erotica, come la famosissima immagine dello stormo cui si allude nel V canto dell’Inferno. Si allude anche a qualcosa che ha una stretta connessione con la realtà: Berlino d’estate è invasa dalle api, ed in particolare nel 2011 l’invasione è stata massiccia. Quell’anno uscirono anche articoli nei quotidiani locali – il berliner morgen post – in cui si ipotizzava che qualcuno avesse allevato delle api per liberarle nei mesi più caldi.
Grazie di nuovo a tutti e, questa volta, contrariamente al mio solito, spero di non aver scritto un commento più lungo del post.
Di Mazziotta ho già avuto modo di apprezzare la poesia, ma non conoscevo ancora le sue prose brevi, peraltro altrettanto valide. Corro a rimediare alla mia lacuna, leggendo in rete le altre due parti di Maturità berlinese.